I miei ricordi di Kurt Cobain si fermano a un palco e a una chitarra, a una testa bassa, capelli lunghi e biondi scossi dal vento, a palpebre strette su due occhi tristi e melanconici. Ho imparato a conoscerlo leggendo e ascoltando, sfogliando riviste, spulciando interviste, con i graphic novel di Tuono Pettinato e di Danilo Deninotti e di Toni Bruno.
Prima del musicista, c’è stato il ragazzo. E prima ancora del ragazzo, c’è stato il bambino. L’enfant prodige della musica, l’appassionato assoluto di strumenti e band, la rivoluzione del punk, la distorsione, profonda, del rock. Kurt Cobain viene spesso, e forse banalmente, identificato come un’icona generazionale: per quello che ha cantato, innanzitutto; per come ha vissuto, qualche volta. In realtà, Cobain rappresenta il male di vivere di un’epoca che si è trascinata a fatica, lentamente, fino alla cima degli anni 2000 e che poi, quasi nel nulla, è scomparsa.
In Quando ero un alieno di Danilo Deninotti e Toni Bruno, la storia di Kurt Cobain si fa – contrariamente a quanto potrebbe suggerire il titolo – più umana. Un aspetto che poi viene approfondito da Tuono Pettinato nel suo Nevermind, ma che nel graphic novel edito da BD Edizioni trova il suo primo, vero riconoscimento. Per capire l’artista bisogna prima di tutto capire l’uomo. Chi era, cosa provava, cosa ha vissuto.
E sebbene sia difficile andare a fondo di dinamiche complesse come il rapporto familiare, il conflitto tra padre e madre separati, e la passione sempre crescente per la musica, vediamo un bagliore alla fine del “tunnel”: vediamo un Kurt innamorato della vita.
Deninotti lo descrive come un alieno: e come un alieno, gli fa conoscere altri della sua specie, esseri eccezionali che molto spesso passano in sordina. Camuffati agli angoli della società, i ragazzi più tormentati o problematici, grosse camicie di flanella, capelli lunghi e battute fuori luogo. Il talento non è di questa terra, e non lo era nemmeno Kurt, che alla fine è stato spezzato dentro, nell’anima, da un mondo che di arte e passione non ne voleva sapere niente; e che come spesso accade ha finito per rimpiangerlo solo una volta che l’ha perduto per sempre.
Chi era Kurt Cobain? Era un paio di mani che pizzicavano sulle corde di una chitarra, era una testa bassa, una cascata di capelli biondi; era musica e passione e amore puro. Era un ragazzo. Non un gigante, un uomo, un martire generazionale. Solo un ragazzo. Che all’improvviso, senza nemmeno volerlo, si è ritrovato schiacciato da quel mostro – che viene dal nostro mondo contrariamente al talento – della popolarità. E tutti a chiedere, a fotografare, a parlare. Tutti che hanno perso di vista l’obiettivo principale: la musica. Tutti che hanno dimenticato per un lunghissimo, interminabile secondo l’irripetibilità dei miracoli. E Cobain e i Nirvana erano proprio questo: un miracolo.
Un miracolo, come ribadiscono i disegni di Bruno, alieno. Dai tratti affilati e dagli occhi grandi. Dai modi impacciati, introversi, poi improvvisamente disinibiti quando c’era della musica – della buona musica. Quando ero un alieno, oramai, ha più di un anno. Quasi due, in realtà. Ma è un graphic novel che andrebbe riletto. Soprattutto adesso, con il docu-film dedicato a Cobain nelle sale. Per conoscere l’uomo oltre che il mito, e per capire come da un inizio così promettente si è arrivati a una fine nera, terribile, scandita dallo scoppio di un fucile.