Per la generazione che ha avuto vent’anni nel Sessantotto, Mario Vargas Llosa ha rappresentato, insieme a Gabriel García Márquez, la letteratura latinoamericana in toto, nonostante la definizione sia terribilmente riduttiva. Fu infatti, al massimo, una letteratura fortemente politica seppur non ideologizzata, capace d’intrecciarsi alle tematiche della contestazione e della liberazione di quegli anni. Quello è stato il Vargas Llosa de La città e i cani, della Casa Verde e sopratutto della Conversazione nella Cattedrale, il primo grande capolavoro dello scrittore peruviano.
Tuttavia la stessa generazione che lo ha idolatrato in gioventù lo ha poi in parte rimosso negli anni successivi, in particolare a causa delle sue posizioni politiche sempre più critiche rispetto alla sinistra e sempre più vicine se non aderenti al mondo conservatore e di stampo liberista. Uno slittamento che ha sconcertato i lettori, ma che ha anche prodotto una profonda riflessione interiore in Vargas Llosa, che non a caso proprio dagli anni Novanta sembra rivivere una seconda giovinezza artistica dando corpo a oltre venti romanzi e probabilmente tra i migliori della sua epoca.
La visione politica di Vargas Llosa infatti non diviene semplicemente più conservatrice, ma produce in lui una consapevolezza diversa, una necessità ulteriore a cui i movimenti rivoluzionari – a partire da quello cubano guidato da Fidel Castro che inizialmente lo stesso Vargas Llosa aveva anche appoggiato pubblicamente -, non sembrano in grado di ottenere. Le rivoluzioni di quegli anni sembrano incapaci, alla realtà dei fatti, di liberare e cambiare le cose restituendo diritti ai loro cittadini. Anzi: sembrano limitarsi a sostituire con un’altra forma di potere il potere precedente.
Ora, chiaramente, non va confusa la visione politica con la produzione letteraria, ma è chiaro che quel passaggio, per Vargas Llosa, è parte di una riflessione più ampia che coinvolge la sua stessa idea di letteratura e che gli permette di uscire da quella sorta di ghetto – il quale, per quanto mitico, ha in parte ridotto a un’estrema banalizzazione tutta la letteratura dal Sud America al Messico. Un realismo magico letterario dentro al quale ficcare ogni cosa, da Borges a Julio Cortázar, da Onetti a Lezama Lima. Da Ernesto Sabato fino a Carlos Fuentes.
Un’idea prima, un macigno estremamente stereotipato poi. Dentro al quale la figura di Gabriel García Márquez resta la più nota ma anche la più costretta, al punto che con l’ottenimento nel 1982 del Premio Nobel per la letteratura, García Márquez diviene a sua volta una replica di se stesso. Uno scrittore pubblico di professione, obbligato a restituire un’idea di letteratura sempre uguale e prevedibile. Aleggia sulla fine del Novecento come un fantasma di un’epoca capace di produrre più nostalgie che idee e visioni capaci di entrare in lotta con la realtà.
Da tutto questo Mario Vargas Llosa riesce a emanciparsi. Non per la politica, che è solo una spia di un’inquietudine e di una vivacità lontana da ogni schematismo; ma grazie a un discorso letterario capace di andare oltre la moda, oltre il ghetto della letteratura latinoamericana, per divenire un riferimento assoluto e potente del romanzo contemporaneo.
Costretto all’esilio in Spagna dopo il golpe, o meglio l’auto-golpe attraverso cui il presidente Alberto Fujimori divenne a tutti gli effetti il dittatore del Perù, Mario Vargas Llosa pubblica nel 1993 Il caporale Lituma sulle Ande. Inizia qui la sua lenta esplorazione nelle tradizioni e nei miti del Perù, che avrà il suo compimento nell’ultimo romanzo (2023), Le dedico il mio silenzio, scritto per il suo paese d’origine.
La separazione da García Márquez, di cui era stato amico fraterno, è così certificata da un famoso pugno (al centro di un bel romanzo di Jaime Bayly, I giganti, pubblicato in Italia da Feltrinelli nella traduzione di Silvia Sichel) rifilato da Vargas Llosa all’autore colombiano nel 1976 e sulla cui motivazione non ha mai voluto fare chiarezza. Fatto è che da allora le strade dei due scrittori si sono radicalmente separate, al punto da perdere ognuno i contatti dell’altro. Mai più una parola è corsa tra di loro.
Così mentre García Márquez diventerà in parte e tristemente il custode di una tradizione letteraria e anche lo stanco testimonial di regimi sempre meno difendibili, Vargas Llosa – seppur tra non poche contraddizioni – ottenendo il premio Nobel per la letteratura nel 2010 darà corpo a un percorso estremamente contemporaneo, ponendo la sua letteratura al centro di un dibattito capace di affondare fin dentro il XXI secolo.
Un movimento e un passaggio in parte estremamente radicale riuscito a pochi altri della sua generazione. Uno su tutti Philip Roth, che quasi in contemporanea a Vargas Llosa offre il meglio della sua produzione romanzesca proprio tra gli anni Novanta e Duemila. Là dove Vargas Llosa pubblica La festa del caprone, Roth arriva con La macchia umana, e così negli anni successivi. Una sensibilità da sempre segnata da un’ironia e una leggerezza necessarie per una scrittura capace di ridefinire con la letteratura anche la storia, restituendole corpo e una nuova dimensione.
Scrive Vargas Llosa in La zia Julia e lo scribacchino, del 1977: «Io le spiegai che l’amore non esisteva, che era un’invenzione di un italiano chiamato Petrarca e dei trovatori provenzali. Che quanto la gente credeva un cristallino fiotto dell’emozione, una pura effusione del sentimento era il desiderio istintivo dei gatti in calore celato dietro le belle parole e i miti della letteratura. Non credevo in nulla di tutto questo, ma volevo fare l’interessante. La mia teoria erotico-biologica, tuttavia, lasciò la zia Julia piuttosto incredula: credevo davvero a quelle idiozie?». Ed è proprio nell’ultimo capovolgimento di senso che Vargas Llosa offre al lettore una libertà che è ben diversa da ogni sarcasmo o cinismo, ma che si rivela una ricerca anche ironica, anche beffarda, di una possibile differenza, di quello slittamento semantico che restituisce il senso di una cosa attraverso (anche) la sua negazione.
Tutto quello che Mario Vargas Llosa ha scritto vive di un senso letterario profondo e non si accontenta mai di offrire un messaggio più o meno strumentale, anzi ne rifugge, così come da ogni più scontata ideologia. Quello che Mario Vargas Llosa fa (anche ora, post mortem) è regalare ai suoi lettori un campo da gioco attraverso cui sperimentare una forma inedita di libertà. Un pitch le cui regole restano quelle della letteratura, mai quelle della politica né della morale. Il suono, il ritmo e lo stile sono elementi costitutivi di un senso letterario e di un contenuto che è tra i più grandi patrimoni della cultura a cavallo del XX e del XXI secolo.
In autunno è previsto da Einaudi – che pubblica in Italia tutta la sua opera -, l’uscita de I venti (per la traduzione di Federica Niola) un racconto lungo in cui il grande scrittore peruviano sintetizza il suo distacco dal mondo, un abbandono denso di nostalgia e di paura per tutto quello che ai suoi occhi è ormai divenuto irriconoscibile. Ma come già scrisse nel saggio Il mestiere dello scrittore (2011): «Non importa quanto sia effimero, un romanzo è qualcosa, mentre la disperazione non è nulla».
Vargas Llosa ci ha lasciato qualche possibilità in più per evitare la disperazione, per superarla e soggiogarla e magari comprenderne le ragioni. Facendo anche un giro larghissimo. Una lunga camminata in una memoria che è già materia viva nel futuro.