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Milano fa schifo, evviva Milano

Una chiacchierata con Alessandro “Kresta” Pedretta, autore del romanzo 'Milano di merda': una sorta di seduta di terapia di coppia, in cui Milano è il partner su cui sputare tutto il rancore accumulato in decenni di vita

Foto: Getty Images

«Se è vero che Dio è morto, dev’essere morto a Milano» è l’esordio perfetto per un libro dal titolo Milano di Merda.

Pubblicato di recente dalla casa editrice underground Agenzia X, è il romanzo autobiografico di Alessandro “Kresta” Pedretta, scrittore-operaio dal talento cristallino. Milano di Merda è una sorta di seduta di terapia di coppia, in cui Milano è il partner su cui sputare tutto il rancore accumulato in decenni di vita, non lesinando dettagli, episodi coloriti, mappe dettagliate di percorsi dolorosi. Ma soprattutto, è un romanzo sull’eroina, sui drammi quotidiani della dipendenza, su un modo unico di vivere la strada.

Con uno stile visionario e talvolta orrorifico, senza rinunciare a una punta di ironia, Kresta ci guida in un viaggio spazio-temporale tra gli anni novanta e oggi. Passato e presente, a contrasto, svelano alcuni retroscena della Milano di oggi, come in quelle foto degli scorci prima e dopo. Ho fatto qualche domanda ad Alessandro sul suo romanzo.

Visto che sei un incensurato, ti presenti, se ti va? Che lavoro fai? Da quanto tempo scrivi?
Ho 48 anni, da circa dieci lavoro come pulitore in Stazione Centrale a Milano e sono sindacalista: ho questa forse utopistica speranza di far apprendere un’odierna coscienza di classe. Scrivo non da prestissimo, penso di aver cominciato a vent’anni, scribacchiando poesie, buttando giù considerazioni strampalate, ricalcando episodi bizzarri. Scrivevo di tutto, come una macchina impazzita. Avevo come muse ispiratrici Henry Miller, Bukowski, William Burroughs, Céline, autori che continuo a rileggere e che adoro tutt’ora.

Questo è il tuo terzo romanzo. Gli altri due di cosa trattavano?
Il primo È solo controllo è una novella in cui uso un linguaggio direi fumettistico per esplorare i temi dei condizionamenti, a cui tutti siamo soggetti, volenti o meno. Livello 49 è un romanzo che etichetto come cybersplatter, ambientato in un mondo postatomico in cui i lavoratori sono obbligati a svolgere mansioni h24 in immense fabbriche come deliranti panopticon, dediti ossessivamente al raggiungimento di promozioni dai termini oscuri – praticamente una metafora del lavoro salariato.

Sei tra i fondatori della casa editrice La nuova Carne, ce ne parli?
La nuova carne nasce come rivista online in cui pubblicavamo racconti, articoli e recensioni, dedicandoci più che altro agli aspetti estremi dell’arte. Poi siamo diventati un’associazione culturale e quindi editori. Pubblichiamo quella che ci piace definire letteratura insolita, fantascienza radicale, cyberpunk, horror, ma anche controcultura. Abbiamo anche una rivista che si chiama Massacro, sulla quale esploriamo l’arte estrema, le sottoculture e la controcultura con articoli, brevi saggi e racconti anche di noti autori stranieri che traduciamo.

Veniamo a noi. Quanto c’è di autobiografico in Milano di Merda? come hai “camuffato”, se lo hai fatto, personaggi e luoghi?
Il romanzo scorre sui binari di due piani temporali ben distinti, il presente e la fine degli anni ’90. Il presente è un pretesto per poi andare ad esplorare tutti gli ambienti e la topografia tossica degli anni ’90 tramite la ricerca di un amico che si pensava scomparso. Nel presente c’è di vero il lavoro che Kresta (cioè il sottoscritto) esercita, il pulitore in stazione; nel passato oserei dire che tutte le scene sono veritiere, i luoghi sono esattamente quelli, i protagonisti anche. Ho solo mischiato certe dinamiche. Per il colore e i fatti grotteschi, ti assicuro che non ho dovuto inventare nulla, tutto puro succo di vita tossica.

Io vivo a Milano mio malgrado, per lavoro. Non so spiegare perché non mi sento a casa, so solo che non mi sento tranquilla – e forse il tuo libro mi dà finalmente una spiegazione. Cosa ti ha spinto, negli anni, a restare? Sei nato qui?
Sono nato a Como per sbaglio ma sono praticamente sempre vissuto qui. Forse sono diventato una persona abitudinaria, soffro anche di attacchi di panico, i cambiamenti un po’ mi spaventano, quindi ho deciso di mettere radici in questa città, almeno per adesso. Il fatto è che quando vivi per tanto tempo in un luogo, anche se con sentimenti ambivalenti, si vive una specie di nostalgia permanente: i muri, gli odori, le strade che assumono un certo aspetto a una certa ora della sera o del mattino presto, ti regalano sensazioni che sanno di casa, anche se quella casa a volte la paragoni a un girone infernale. Ma come diceva Mark Twain: “Scelgo il paradiso per il clima e l’inferno per la compagnia.” Nel tempo è diventata una città per ricchi e asservita alla morale del consumismo ma non manca, forse ancora per poco, la varietà di caratteri.

Non posso dire di essere un’esperta di letteratura su Milano. Ho amato La vita agra di Bianciardi e anche questo ritratto della città non era idilliaco. Pensi che sia un po’ nella sua natura prestarsi alle critiche? Perché?
Come ho detto è una città per ricchi. Il costo della vita è tremendamente alto, se si pensa a Milano si pensa alla finanza, alla moda, al caffè preso di corsa al bar, a un certo modello di bauscia col danè in tasca e la puzza sotto il naso. Il centro sembra allargarsi sempre di più e la periferia trasformarsi sempre più in hinterland, la gentrificazione fa passi da gigante ma spesso è solo apparenza, frutto di speculazioni. Milano spesso non è amata neppure dai milanesi, e la maggior parte dei milanesi ormai da anni sono immigrati interni che si sono trasferiti solo per lavoro. Non ha luoghi estremamente affascinanti, tranne forse nel centro più centro, e anche le cose belle sono nascoste. Bisogna lavorare duro con Milano, possedere la qualità del pioniere.

L’eroina. Dal tuo punto di vista, come è stata affrontata la questione nella cultura italiana? Negli anni è cambiato qualcosa?
Secondo me non è stato affrontato abbastanza. I tossici sono stati più che altro relegati ai Ser.T di quartiere. Nel libro ne parlo: officine che producono droga di Stato e che lasciano i ragazzi allo sbaraglio con medici che non possono sostenere un lavoro specifico, anche e soprattutto psicologico. Personalmente penso che l’assunzione sia comunque diminuita, c’è stata anche la tragedia dell’AIDS come deterrente. Ora anche i tossici mi sembra che si siano adeguati alla città, come se fossero stati manipolati dall’etica di Milano: fai come ti pare ma non dare fastidio, e non sporcare per strada. Ora i tossici la fumano l’eroina, più che bucarsi, fa più bon ton.

Mi ha colpito molto che nel romanzo parli spesso di freddo, gelo, neve. Sicuramente erano altri tempi a livello climatico, ma c’è qualcos’altro?
Certo. Il freddo è una caratteristica che il tossicodipendente conosce bene. Nei momenti di astinenza è il primo sintomo che ti affligge diabolicamente. L’eroina diventa una coperta che ti scalda dalla punta dei piedi alla testa. Trovo anche che l’inverno sia la stagione più affascinante e consona per la storia che ho scritto. Si parla di luoghi oscuri mimetizzati nelle strade della città che solo i tossici conoscono, fabbriche abbandonate, giardini malmessi, campi di pannocchie marcite, strade abbandonate per lavori in corso, ponti che finiscono nel nulla, la nebbia e il gelo sono il perfetto contorno.

Domanda forse intima, ma tu come ne sei uscito? Lo chiedo perché da quando tutti hanno visto Sanpa quello delle comunità è un tema piuttosto sentito, ma non se ne parla mai bene abbastanza.
Io ho fatto una comunità, tre anni circa a Varese, Progetto Uomo. Ci andai perché mi era sembrato l’unico modo per uscire da quel circolo infernale. Alla fine il tossico non si sballa neanche più, si fa solo per non stare male, non sei più una persona ma un circuito di vene e capillari. Ho fatto la comunità ma devo essere sincero: rispettavo le regole ma non seguivo certi rituali terapeutici e comportamentali che mi parevano innaturali e insensati. Le comunità sono molto cambiate dai tempi di Sanpa dell’inizio, che poi era prettamente lavorativa e non si avvaleva di psicologi. Io ho usato la comunità come luogo di distacco, la convinzione di non continuare con l’esperienza della droga era già forte in me. Senza contare anche la dipendenza del metadone, lì ho potuto eliminarlo dalle cellule con tutta calma.

Siamo su Rolling Stone, chiudiamo con la musica. Nel libro citi Lou Reed – «la prima cosa che impari è che devi sempre aspettare» – ma qual è stata la colonna sonora di quegli anni? O la musica era molto in secondo piano?
In verità la musica ha avuto un forte impatto in quegli anni, anche tra il gruppo di disperati che eravamo. Molti di noi frequentavano i rave illegali e i centri sociali, ho visto centinaia di concerti punk e hardcore al Laboratorio Anarchico, che stava in via De Amicis, vicino alle colonne di San Lorenzo. Sicuramente di quei tempi ricordo i CCCP che poi nei 90 divennero CSI, come potevamo non canticchiare: “non studio, non lavoro, non guardo la tv”, oppure “produci, consuma, crepa”? Di quegli anni poi mi è rimasto impresso l’album “American Caesar” di Iggy Pop. È stato anche il periodo del grunge, che però non prediligevo. Ho visto i Bad Religion e i Ramones al City Square, ci entravamo sempre a sbafo caricando le porte di emergenza. Si ascoltavano gli Skiantos e poi c’erano i Sepultura, come scordarsi album come Chaos A.D e Roots. La musica buona era tanta ed eterogenea, begli anni da quel punto di vista.

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