Un austero avvocato commissiona a un enigmatico maltese un atroce delitto. Un giovane a cui i funerali del papa impediscono di rientrare a casa è costretto, nell’attesa, a ripercorrere la sua vita e a tentare di correggerne gli errori. Un uomo e una donna, incontrandosi per caso all’Elba, intravvedono uno spiraglio di felicità. Dopo un appuntamento mancato a Chicago, una giovane studiosa resta impigliata in un groviglio di incontri e di ricordi di cui non viene a capo. Un magistrato in missione a Parigi torna tormentosamente su un terribile delitto che gli è toccato giudicare e riesamina dentro di sé la giustizia che ha amministrato e in cui non crede. Un letterato di rango viene inaspettatamente invitato a una reunion con compagni di studi che non vede da anni e si ritrova tra persone che non riconosce più. Dal suo letto di ospedale, un uomo dal cognome curioso richiama alla mente un amore perduto e scopre che non tutto era quel che pareva…
Nel suo Jazz Café, pubblicato da poco dai tipi de La Nave di Teseo all’interno della collana Oceani, il linguista e professore emerito dell’Università Roma Tre Raffaele Simone dà vita a una serie di personaggi che hanno, malgrado la diversità dei loro destini, qualcosa in comune: la ricerca inesausta di quella scheggia di felicità e di giustizia forse concessa agli umani. Pubblichiamo un estratto per gentile concessione della casa editrice.
La notte Stanti si girò a lungo nel letto lamentandosi, gemendo, respirando a fatica, lasciandosi sfuggire nomi: Marchetti, Del Miccio, Totti, Parrino! E quell’idea del potere: tu decidi la tua azione, e puoi fregartene della reazione degli altri! Tu te ne sbatti, te ne fotti, e tutte quelle altre cose. Ada tentò più volte di serrarlo a sé come un bambino, come faceva quando voleva placarlo, ma quel metodo ormai non funzionava più: lui la schivò infastidito.
A un certo momento il sonno arrivò, seguito però subito da un sogno premonitore, come quelli degli eroi della Bibbia.
Sognò di un Alessandro Magno piccolo piccolo che conquistava l’Oriente avanzando tra montagne scoscese, pianure desertiche, città, calpestando ogni resistenza, sottomettendo popoli e accumulando immensi bottini.
Però a un certo punto dell’avanzata si era scontrato con la resistenza di un popolo di ragazzini: non adulti nani come nelle favole, ma proprio bambini! Gli adulti erano scomparsi senza che si sapesse perché: eliminati, imprigionati, chissà, comunque spariti, dissolti. Quei mocciosi erano inafferrabili, crudeli, sanguinari, e avevano coperto le mura delle città di orribili scritte in cui accusavano Alessandro di essere un pederasta, un imbelle, un imbecille, e perfino… perfino un vec-
chio! E perciò inadatto a comandare, come fosse un invito ai suoi soldati perché lo rovesciassero! Un vecchio, lui, Alessandro, che non aveva neppure trent’anni! Certo, loro ne avevano quindici: al confronto anche un uomo di trent’anni poteva sembrare vecchio.
Alessandro dovette umiliarsi a ricevere un’ambasceria di quegli orribili bambocci, che ebbero addirittura la supponenza di dettare condizioni. “Noi vogliamo… noi chiediamo…”
Già alle prime parole Alessandro si stomacò e non volle ascoltare avanti, imprigionò i mocciosi e li fece giustiziare su due piedi, lì davanti: imparassero così a opporsi al suo potere. Il giorno dopo, all’alba, i suoi uomini dettero l’attacco a quel popolo di bambini e lo sterminarono. Lui stesso, uscito in campo quando la battaglia era matura, uccise con le sue mani diversi di quegli orribili ragazzini armati e concluse la battaglia vittorioso ma insanguinato e sconvolto…
Stanti si risvegliò sudato e in preda al batticuore, sconvolto come l’Alessandro del sogno, sicuro di essere anche lui coperto di sangue. Si accorse con sollievo che no, non era sangue: era solo sudore che si stava gelando. In quel risveglio confuso gli venne in mente di colpo che doveva parlare con quel Mifsud, l’uomo che risolveva problemi, che aveva promesso di richiamarlo.
Mifsud chiamò dopo poco. Qualcuno gli aveva dato il numero di casa, che dopo il cambio era stato comunicato a pochissime persone.
“Avvocato, eccomi qua. Spero di non aver tardato troppo,” disse.
“Ma no, non è mica una cosa tanto grave,” disse Stanti scusandolo, “non si preoccupi. Non c’è urgenza.”
“I problemi sono tutti urgenti, lei m’insegna. Se qualche cosa diventa un problema vuol dire che dev’essere risolta alla svelta, e…” esitò un istante, “con estrema precisione. Questo faccio io.” Rise a commento di quelle battute.
“Allora?” disse Stanti con tono assente.
“Allora, se vuole che ci incontriamo, vediamoci alle sei al Jazz Café, in via Zanardelli, vicino a casa sua.” Prima che Stanti potesse dire di sì la telefonata fu chiusa.
Stanti non aveva mai dato appuntamento a nessuno in un caffè, se non talvolta in qualche città straniera, a Parigi o a Madrid, dove nei caffè è possibile passare ore, anche leggendo e scrivendo. Ma Roma, una città così scomoda, dove al caffè si consuma in piedi come fanno i cavalli mangiando la biada, per poi togliere il disturbo alla svelta! Come si sarebbe mai potu- to parlare in un caffè, e di cose delicate come quelle, poi! A Roma non si poteva parlare di nulla, se non chiudendosi in un posto blindato con finestre doppie o triple!
Trovò il posto, si rese conto che accanto a quel locale era passato centinaia di volte senza mai accorgersi che esistesse, ed entrò. Era un vasto volume ombroso, che per via dei cristalli scuri le grandi finestre sull’esterno non illuminavano quasi affatto. Si distinguevano appena i tavolini e la testa di qualche cliente: non più di tre o quattro persone. Una musica troppo forte per gli orecchi irritati di Stanti debordava fuori del locale e pulsava ancor più nell’interno. Ma dato il nome non c’era da aspettarsi un posto silenzioso. Si guardò attorno cercando di non dare nell’occhio. Mifsud era già lì? Sbirciò dentro ma non vide nessun adulto, solo giovani: il mondo sembrava ormai invaso e conquistato dai ragazzini. “Dove si riuniscono i vecchi?” si chiese senza trovare risposta. Si lasciò indicare da una ragazza nera che gli sembrò carinissima un tavolino in un angolo e si sedette. Decise di guardarle il didietro mentre lei si allontanava, voleva far l’audace, stare del tutto nella parte birbona in cui si era cacciato: ma lasciò perdere immediatamente, non riusciva a interessarsi.
“Ho pensato che questo ti sarebbe piaciuto,” diceva, a un tavolo a poca distanza dal suo, un giovane porgendo un libro a una ragazza. Stanti non volle continuare a sentire. Piuttosto: qualcuno lo aveva visto entrare lì dentro? Si giocava a pallone di fuori?
C’era attorno qualcuno dei marmocchi? Nulla di simile, in apparenza: dai finestroni del caffè non vedeva né sentiva altro che il traffico di automobili e autobus, rumoroso come barriti di elefanti.
Sentì un brivido. Non gli sembrava di essere nella sua città, ma di trovarsi in un altrove senza nome. Non si sentiva coincidente con la persona che sapeva di essere, aveva una visione doppia di sé stesso: cosa ci faceva l’avvocato Stanti, famoso civilista, con aria misteriosa e vestito da beccamorti in quel caffè di giovani, pieno di musica, aspettando uno sconosciuto che doveva fare per lui chissà quale lavoro? Aveva l’impressione di essere in uno di quei film dove due si incontrano in un bar per scambiarsi soldi contro droga o foto compromettenti, per mettere a punto una rapina, studiare un sequestro o comunque una mascalzonata… In fondo, pensò, il suo “problema” era davvero qualcosa di simile: stava apparecchiando un gesto violento e lo stava facendo quasi di nascosto, incontrando uno sconosciuto specializzato nel “risolvere problemi”, piccoli e grandi, come aveva precisato Parrino: chissà di che risma! “Avvocato! Avvocato! L’avvocato Stanti?” Alzò lo sguardo verso il punto da cui veniva quel saluto. Un uomo alto, di pelle colorita, vestito di scuro come lui, con un paio di baffi importanti, gli veniva incontro nel locale.
“Sono Ernest Mifsud, avvocato,” disse quello a voce bassa, accostandosi senza tendere la mano e facendo un leggero inchino. “Eccomi qua, piacere! A sua disposizione!” Aveva un doppiopetto gessato, da pezzo grosso, ma la riga sottile non era bianca come di solito, bensì rossa. Sedette al tavolino accanto a quello di Stanti, come se non avessero a che fare l’uno con l’altro. Ordinarono da bere e aspettarono in silenzio che le bevande arrivassero. Poi Stanti fece:
“Allora, le racconto…”
“Non occorre lei racconti,” lo interruppe Mifsud, “l’avvocato Parrino mi ha detto tutto e poi mi sono preso la libertà di fare un sopralluogo. Ho visto tutto quel che occorre vedere.”
“Bene,” disse Stanti imbarazzato, “allora sa…”
“È una cosa che pare semplice, solo che… sono ragazzi. Questo rende tutto più difficile. Quel che devo sapere è solo quale soluzione lei preferisce.”
“In che senso, scusi?” fece Stanti, che davvero non aveva capito di che cosa si stesse parlando.
“Guardi, di ragazzi noi non ci siamo mai occupati, non nella professione, intendo.” Rise un istante simulando imba-
razzo: “Quindi siamo relativamente inesperti. Per affrontare il problema dobbiamo trattarlo come una varietà particolare di
quelli che già conosciamo. D’accordo?”
“D’accordo,” disse Stanti, e pensò: “Vuole procedere per analogia,” un concetto che gli era familiare. Per un istante si
compiacque. “Perfetto! Allora possiamo trattare il suo inconveniente come fosse, diciamo, quello di un imprenditore, diciamo…” esitò alla ricerca di una parola che non urtasse, “un imprenditore che non riesce a capire…”
Si fermò di nuovo, temendo di star scoprendo troppo le carte. Ma Stanti aveva capito benissimo, e del resto aveva capito già da un pezzo di che pasta fosse la persona che aveva accanto. Ebbe un senso di disgusto: Parrino gli aveva mandatoun mafioso! Un mafioso! Ecco di che razza erano i problemi che risolveva! Che fare? Alzarsi e andar via? Ma il suo problema? Non aveva deciso di risolverlo? Ma lui era un avvocato notissimo, e anche, diciamolo, una persona onesta, anche se non erano tutti onesti quelli che frequentava per lavoro. All’università, certo, non dedicava il tempo che avrebbe dovuto, anche se prendeva lo stipendio, aveva piazzato chissà quante persone in questo o quell’ateneo e spesso si trovava a far parte di cordate che, guardandole dall’esterno, non avrebbe certo approvato… Ma quello stipendio era una parte così piccola dei suoi redditi! Quasi da non fare effetto, da pagarci più o meno le bollette… Ma, tolta quella piccola menda, che ogni tanto un po’ gli rodeva, era una persona onesta, per bene, specchiata: e adesso era a tu per tu con un mafioso! Maltese, va bene, non siciliano;
benvestito e educato, pensò Stanti sorridendo ironicamente dentro di sé, ma sempre mafioso! Eccome! E magari anche armato…
E il suo problema? Chi gliel’avrebbe risolto? Forse il sindaco Manganiello, che era stato anche lui suo alunno all’università anche se non aveva concluso gli studi e, che malgrado il cognome minaccioso, era mite come il gattino di casa? Sì, con la sua bontà, gli avrebbe detto: “Lasciateli gioca’, so’ ra-
gazzini! Cche cce volete fa’! Magari jje famo un campetto llà vicino!” Il capo dei vigili? Un incapace, che rispondeva sem- pre: “Non abbiamo uomini, non abbiamo uomini, gli adembimendi, gli adembimendi…” Il comandante dei carabinieri? Un procuratore della repubblica? Questa rassegna di autorità impotenti, inerti dinanzi a dei mocciosi, lo lasciò afflitto ed estenuato. La verità era che lui si trovava solo dinanzi a quella masnada di bambini maligni che volevano prendere il potere ed espellere i vecchi dalla vita: prima in piazza Costaguti, poi in tutta la città, poi nel paese intero, magari in combutta con l’orribile presidente Belloni-Chioma che faceva tanto il giovanotto e magari era il capo della congiura! Basta! Bisognava ascoltare Mifsud. Poi avrebbe deciso: poteva sempre prendere le distanze, non aveva detto ancora una sola parola compromettente.
Il suo ragionamento silenzioso era durato non più di due secondi. Mifsud si stava intanto accendendo una sigaretta. Stanti, che non fumava da trent’anni, allungò l’occhio e avrebbe voluto allungare una mano: erano Craven, quasi ne avrebbe voluta una anche lui, data la parte in cui si trovava.
“Allora, dicevamo…” fece Mifsud con tono professionale, “se paragoniamo il nostro caso a quello lì, abbiamo tre soluzioni: codice 1, codice 2 e codice 3.”
“Cosa sono, scusi, questi codici?” chiese Stanti.
“Codice 1 significa ‘segnalazione eloquente’, Codice 2 ‘lezione percussiva’, Codice 3 ‘taglio alla radice’,” disse Mifsud con un sorriso. “Il modo concreto lo scegliamo noi secondo le compatibilità del momento e le disponibilità di risorse, e anche secondo la resistenza del target. A lei sta solo di scegliere il livello di codice. Chiaro? Quale preferisce?”
Stanti era senza parole, ma si fece forza per dar l’impressione che le cose che ascoltava non gli facevano nessun effetto.
Ma che gergo era? Segnalazione eloquente, lezione percussiva, taglio alla radice! Sembrava una di quelle classificazioni per graduare gli interventi delle forze dell’ordine contro la malavita… O un catalogo di merci! E invece si trattava dei gradi di violenza di un’azione mafiosa… E lui stava lì ad ascoltare senza fare una piega!
“Non ha bisogno di dirmelo subito,” fece Mifsud com- prensivo, vedendo che il suo interlocutore restava senza rispo-
sta. “Può anche farmelo sapere dopo, quando vuole! Anzi, guardi: anche per sms!” disse Mifsud con l’aria soddisfatta di uno che ha trovato una soluzione vantaggiosa per tutte e due.
“Cosa?” chiese Stanti, che non aveva capito.
“Per esse-emme-esse,” compitò Mifsud, “col telefonino.”
“Ah, per sms, per sms,” ripeté Stanti smarrito, “per sms!”
“Quando vuole, sì, per sms,” ribadì Mifsud. “Anzi,” gli scrisse su un fogliettino di carta il numero del suo telefonino, “facciamo così: quando ha deciso mi dice qual è il codice che preferisce e noi procediamo. Ora la lascio, va bene? Siamo d’accordo così? A presto, avvocato: qualunque cosa, noi siamo qui!”
Mifsud si alzò prima che Stanti potesse dire alcunché, passò velocemente alla cassa dove pagò il conto e scomparve nel frastuono di via Zanardelli.