Per qualche ragione che non so identificare Griffin Dunne e io ci seguiamo reciprocamente su Instagram. Ovviamente non stupisce che io vada a mettere cuoricini alle sue fotografie che ritraggono live di Woody Allen che suona jazz né che io possa essere interessata alle sue storie hollywoodiane di librerie e cene egualmente raffinate, ai suoi statement anti-Trump, al suo personaggio nella serie I love you, Dick o al suo recente viaggio in Italia tra lo Stromboli e le colonne sonore di Paolo Conte. Stupisce un po’ di più, invece, che lui possa essere interessato ai miei dischi della domenica mattina o alle foto scattate a casa dei miei genitori.
Eppure questo è quello che i social generano: lampi di scambi altrimenti impossibili tra qualcuno che non è nessuno e un attore e regista newyorkese che ha lavorato con Martin Scorsese e diretto commedie romantiche ormai storiche. Per quanto mi riguarda, cioè per quanto riguarda il mio cuore, però, Griffin Dunne è soprattutto il nipote di Joan Didion, cioè il figlio di Dominick Dunne, fratello di John Gregory Dunne che nel 1964 sposò Didion da cui, per quarant’anni esatti, non si separò mai, fino al giorno della sua morte per infarto il 30 dicembre 2004.
Joan Didion è la mia scrittrice preferita: una frase facile, si direbbe, per qualcosa di molto difficile da dire e scrivere, una frase solenne, che leva dubbi e stabilisce certezze. Una frase troppo semplice che agli adulti è poco spesso concessa ma che in questo caso mi è inevitabile utilizzare. Da venerdì, la mia scrittrice preferita ha un documentario che racconta la sua vita, si intitola The Center Will Not Hold e a scriverlo e girarlo è stato proprio suo nipote, Griffin Dunne. Quando, dopo la mia prima generosissima estate d’amore in compagnia delle opere di Didion, mi è stata data la possibilità di scrivere di lei, ho rifiutato e ho stabilito una mia regola: non si scrive di Joan Didion, perché scrivere di Didion è per me quasi certamente franare, amoreggiare, sbrodolare e sono cose, queste, che non amo permettermi. Qui è dove sto infrangendo la mia regola per provare a raccontare il curatissimo lavoro di Griffin Dunne e quanto la storia di questa autrice senza paragoni al mondo, questo mostro di lucidità, intelletto in ascolto del cuore e scrittura, andasse raccontata e, ora, vada assolutamente guardata.
The Center Will Not Hold è su Netflix da venerdì 27 ottobre ed è il frutto di anni di lavoro, di ricerca, di raccolta materiali e di scambi tra Griffin e Joan; dalle foto e dai racconti dell’infanzia a Sacramento, al primo lavoro a Vogue e al suo trasferimento a New York, dove tuttora vive, passando soprattutto in rassegna la vita con John Gregory Dunne e gli anni californiani tra ville in prestito sul mare, serpenti a sonagli che sono incubi, party con Janis Joplin, droghe pesanti e Vietnam.
La narrazione, che include momenti intimi di scambio nipote-zia di un’emotività esclusiva, è spesso affidata alla voce della stessa Didion e alla lettura di alcuni passaggi delle sue opere, in particolare stralci dai suoi saggi e memoir: da Verso Betlemme, The White Album, Nel paese del Re Pescatore, L’anno del Pensiero Magico, Blue Nights. La vita dell’autrice si squaderna quasi a capitoli, con un’indagine dei risvolti perlopiù pratici (i trasferimenti, la vita di coppia, l’adozione della figlia Quintana, il successo letterario) cercando di fare luce su di essi attraverso una più profonda lente emotiva che dalle ragioni d’azione della vita sa spostarsi a delineare le ragioni d’azione della scrittura. Scopriamo, tra le molte cose, dati o curiosità che pure, da soli, sembrano aprire a scenari interpretativi facilmente riconnettibili alla scrittura: Didion faceva colazione con nocciole e Coca Cola (verso la quale aveva sviluppato una certa forma di dipendenza mattutina), asserisce di aver sempre desiderato essere una coppia, essere precisamente compagna con John Gregory Dunne mentre per il concetto di innamoramento ha pensieri esplicitamente più vaghi, idee meno chiare, più distanti, “non avrei potuto sposare altri che uno scrittore” o “mi piaceva la sua famiglia e ho pensato: ‘lo sposo’ e così ho fatto”.
Il rapporto con John Gregory Dunne è infatti centrale nel documentario, analizzato abbastanza dettagliatamente nei suoi momenti cruciali, positivi e negativi che siano: un rapporto simbiotico da cui la stessa figlia Quintana è esclusa in modo fisiologico (come raccontò in diverse interviste la stessa Didion anche in occasione dell’uscita di Blue Nights). «Era il diaframma tra me è il mondo» – dice Didion: John e Joan sono due scrittori, reciproci editor confidenziali e, stando alle parole di Didion, nessuna invidia o rivalità li ha mai animati o divisi ma, uno stesso modo di vivere il mondo da autori pur con lenti diverse, ha generato, piuttosto, la costruzione di un nucleo emotivo e creativo comune, coltivato anche nell’assenza di entrate, nelle scelte di abbandonare strade lavorative ordinarie e sicure per vivere ospiti in qualche casa meravigliosa sulla costa Ovest, campando dei pochi soldi delle rispettive collaborazioni con i giornali – tra le quali anche una rubrica insieme.
Il National Book Award for Nonfiction per L’Anno del Pensiero Magico, la Medal For Distinguished Contribution to American Letters nel 2007 l’Evelyn F. Burkey Award, ancora nel 2007, ben due lauree honoris causa in Lettere (Harvard e Yale) non sono neppure citati nel documentario, dove il successo di Didion resta soprattutto testimoniato dal discorso alla Casa Bianca per la National Medal of Arts and Humanities ricevuta direttamente da Barack Obama, per aver raccontato il dolore come mai nessuno prima aveva fatto. Ed eccolo qua, allora, il centro di tutto: quel racconto del dolore, anzi, della vita che ne è attraversata e ne è, a suo modo, il risultato, è la cifra più universalmente nota della scrittura di Didion e anche qui prende, insieme alle storie famigliari e in modo naturalmente intrecciato a esse, un enorme spazio narrativo. La morte del marito e poi della figlia che stabilirono, tra il 2003 e il 2005, la seconda vita di Didion scrittrice e che sembrano, dall’esterno, definire la cesura tra la sua giovinezza e la vecchiaia in termini iconici.
Da una parte la Didion di Ted Streshinsky fotografata a un happening hippie a San Francisco, dall’altra la Didion iconica della campagna Celine ma pure quella che abbiamo visto nelle fotografie, insieme a Griffin Dunne, alla presentazione del documentario all’ultimo New York Film Festival. Nulla sembra esistere tra l’una e l’altra, se non fiume di scrittura, di incursioni e tuffi violenti nell’esperienza, nella pentola bollente del materiale, quello che Didion definisce, come “una manna dal cielo” mostrando una forma di annullamento del trauma esperienziale della vista di scenari estremi – siano essi una bambina in acido in una comune di San Francisco, o la perdita dell’intero suo nucleo famigliare – in pieno favore della scrittura.
Se c’è un difetto di questo film è quello di averci rivelato persino troppo poco, perché chi ama Didion ha già avuto modo di scoprire e costruirne il proprio ‘santino’ personale, in questo senso la sua figura è un concentrato iconico già noto ai fan e a cui il film aggiunge troppo poco: Didion è, insomma, già idolatrata, entrata nel mito degli scrittori di tutto il mondo ma pure – e avercene – entrata nell’immaginario bloggettaro di Tumblr e gallery Facebook alla stregua di una rock’n’roll icon. E allora, diciamolo pure, il lettore innamorato di Didion, costantemente assuefatto alle sue anafore, alla sua cristallina lettura dei fenomeni fisici del mondo – dalle coppie in vacanza a Honolulu, alle voci di una campagna elettorale – avrebbe forse semplicemente voluto che questo raffinatissimo lavoro non finisse dopo soltanto un’ora e quaranta minuti.