“Imparare giocando”, era lo slogan di una marca di giocattoli con cui siamo cresciuti noi millennials. Uno slogan che è anche un po’ il riassunto delle nostre vite, delle nostre lauree in discipline umanistiche, della generazione più acculturata di sempre ma allo stesso tempo di quella schiera di partite iva, precari, non idonei al mutuo, talvolta disoccupati che siamo diventati. Della serie: e ora che so tutte ste cose, come le trasformo in uno stipendio? Come lo faccio in un paese che parla tanto di cultura e turismo ma non offre lavoro o prospettive a chi si specializza in questi settori?
I social sono stati l’ultimo abbaglio. Puoi partire da zero e diventare influencer, avere decine di migliaia di follower, ma al tempo stesso arrancare. “Si ma ora che posso fa’ swipe-up, a me che me cambia? Rimango pur sempre un fallito”, dice in romanesco il nuovo volto del tormentone web, ovvero Mario De Lillo, diventato popolare con la sua filosofia dell’arte povera.
Per chi non frequentasse molto i social (esistono ancora queste persone?) spieghiamo di chi stiamo parlando. Una settimana fa circa è diventato virale il video di un attore e creator (padri della lingua perdonateci) romano girato nel bagno della casa popolare di sua nonna. La forza del video sta nel fatto che non è una messa in scena, anzi è probabilmente pura improvvisazione. Mario interpreta se stesso, o il personaggio che ha modellato a partire da se stesso. L’orecchino, la barba, l’accento romano: “Ma che ne sapete voi che fate tanto i fighi coi vostri bagni moderni, le docce con lo stereo? Ma beccateve ‘sto bagno delle case popolari, tié! Arte povera!” e si vedono le piastrelle verdognole, le mensole scassate, le vecchie mutande stese. Poi la perla del video. Un’anziana signora, la nonna di Mario, fissa lo specchio assente. “Guarda mi nonna che è rimasta incastrata co’ la spazzola in mano. Te li pettino io i capelli nonna, daje nun mollà!”.
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La nonna forse affetta da una patologia mentale, la forza comica di uno sfottò agli influencer che ci hanno sfracassato le palle con il loro successo basato sul nulla, il ribaltamento di prospettiva di fronte al brutto che diventa bello perché “vero”, sono la base di tutta la comicità di De Lillo.
In massa sui social si sono messi a taggarlo nelle stories emulandolo. Tutti a cominciare le frasi con “ma che ne sapete voi?” e a concluderle con «arte povera, tiè!» per mostrare il loro scooter scassato, la macchina vecchia, la casa scrausa. Più che un successo una riscossa, anche alla luce dei fatti di questi giorni in cui abbiamo imparato che dietro agli influencer sempre più spesso c’è il vuoto abissale.
Scorrendo a ritroso tutti i video di De Lillo su Tik Tok e Instagram (91k e 50k schizzati alle stelle in questi giorni) si scopre una comicità che parte dalla borgata romana, dalla parlata sforzata e fintamente becera, per far pura filosofia. De Lillo ha dato vita a un personaggio verdoniano, un 35enne disoccupato che va a fare la spesa col bancomat della compagna e che si chiede come fare a fregare il sistema per prendere il reddito di cittadinanza come tutti gli altri. Un trentacinquenne che quando scopre che sta diventando padre scappa terrorizzato come Homer Simpson.
In questi giorni, all’apice del suo successo mediatico, invece che a bordo piscina a gustarsi cocktails lo vediamo impegnato con un’impresa di traslochi, che incita a ritmo di “daje non mollà!” il collega. Fa ridere perché è vero, perché somiglia alla vita di tutti i giorni, perché ricorda come se la può passare un over 35 disoccupato in uno stato senza lavoro, nei centri dell’impiego in cui non crede più nessuno, uno che “spizzica qua e là”.
Rivoluziomario, come si chiama su Instagram, è veramente il portavoce di una classe di oppressi. Quelli non troppo fighi per diventare influencer belli, quelli troppo intelligenti per svendersi a fare marchette a prodotti inutili, quelli che nonostante le porte in faccia e gli insuccessi di ogni giorno a cui non siamo più abituati vanno avanti a forza di “non mollà” e riescono a fare delle botte che la vita gli ha dato la loro forza. Marione è una bel vaffa a quel “per 80mila euro non mi alzo nemmeno la mattina” di Chiara Biasi.
Quest’anno il web ci ha fatto due regali, il primo è Khaby Lame con la sua storia perfetta per superare in seguaci pure Zuckerberg, la sua comicità muta che mette d’accordo tutti, la sua espressività d’altri tempi e il suo passaporto incasinato che dice tanto del nostro paese. Beh l’altro regalo è De Lillo, che dice ancora di più del nostro paese e ci riporta in quel territorio di comicità che abbiamo perduta annacquata in una tinozza di LOL e scenette flosce. Marione è vicino a Verdone, a Brega, a Thomas Milian e Proietti al tempo stesso ricorda lo scattoso e pericoloso Vincent Cassel ne L’odio, porta addosso un’incazzatura sociale legittima di tutta una generazione di uomini e donne che hanno assistito allo sfacelo e fanno finta di non ricordarselo cancellandosi i pensieri con ore e ore di social network in cui vivono mondi finti. Freud diceva che il motto di spirito è liberatorio, che ridiamo proprio perchè ci alleggeriamo di qualcosa di proibito da dire. Grazie a De Lillo non è più probito sfottere gli influencer inutili con un bel: “ma che ne sapete voi?”. Ah, che goduria.