“L’unico luogo in America dove, ancora oggi, ricchi e poveri si incontrano”. Al netto delle epoche, delle mode o degli stili, questa rimane una delle migliori definizioni per descrivere l’hip hop, ovvero quel movimento culturale nato nel sud del Bronx nella metà degli anni ’70. L’undici agosto del 1973 per essere precisi, cosa che lo rende un fresco, splendido, 50enne che continua imperterrito a festeggiare il mezzo secolo di vita in una miriade di situazioni ed eventi sparsi per il mondo. Fra cui Cortona On The Move, prestigioso festival internazionale di fotografia diretto da Veronica Nicolardi e organizzato dall’associazione culturale ONTHEMOVE, che quest’anno ha scelto il tema More or Less – inteso come questione di accesso alle risorse così come della loro distribuzione, passando per il doppio polo della ricchezza e della povertà – come vettore artistico della propria edizione 2023.
“Io penso – afferma Paolo Woods, direttore artistico del festival – che in un momento storico come questo sia importantissimo raccontare che ci troviamo in un mondo che non è mai stato così ricco ma che non è mai stato così disuguale. La disuguaglianza è aumentata negli ultimi anni e lo ha fatto ancor di più negli anni del Covid: un festival di fotografia deve raccontare il mondo in cui ci troviamo, soprattutto uno come questo le cui radici affondano nella fotografia documentaria. Non è la prima volta che la fotografia affronta questo tema, ma solitamente lo ha fatto focalizzandosi sulla povertà: i ricchi erano spesso semplicemente adulati, in una sorta di agiografia. Quello che a me interessa è come la fotografia abbia raccontato il more or less, la ricchezza e la povertà, l’abbondanza e la scarsità, questi due estremi che ho scelto come filtro attraverso il quale osservare il mondo”.
Tra le tante declinazioni che il festival ha deciso di dedicare al tema troviamo, appunto, anche i cinquant’anni di questa cultura che in America, ma non solo, rappresenta e continua a rappresentare un vero e proprio ascensore sociale, una via d’uscita dal ghetto in alcuni casi, una vera e propria rivoluzione umana in altri.
“La cultura hip hop – prosegue Woods – è fatta da alcune fra le persone più svantaggiate degli Stati Uniti, spesso fra i più ignorati da un punto di vista culturale, che creano una musica che ha, fra i suoi valori, la promozione di un successo rapido. I rapper sin da subito, portano catene d’oro, hanno macchine incredibili, donne bellissime. Questi simboli di una ricchezza che molti all’epoca non avevano ma a cui tanti ambivano, viene sbeffeggiata inizialmente: le grandi marche – ad esempio – si vergognavano che i rapper indossassero i loro capi, oggi farebbero qualsiasi cosa perché Jay-Z indossi un loro accessorio a favor di camera. Raccontiamo quindi quelli che sono i segni esteriori della ricchezza: tu non puoi sapere quanti sono i soldi in banca di una persona, lo percepisci da questi elementi esteriori. I rapper, i padrini della cultura, esibivano i segni della ricchezza, aspiravano ad una fama veloce e questo elemento è diventato parte dell’iconografia di questa cultura”.
Dopo Ultima Chance, la mostra fotografica di Marco Garofalo (ne abbiamo parlato qui), allestita dentro un autobus e nata anche grazie all’idea e al contributo di Autolinee Toscane, che ha permesso all’artista di viaggiare in alcune grandi città italiane e condurre la sua personale indagine sul potere della musica trap e dedicata alle periferie – sia italiane che estere – il festival toscano ha dedicato una seconda esposizione, collettiva questa volta, proprio ai 50 anni della cultura hip hop ed alla sua naturale connessione ai temi della ricchezza e della povertà. La mostra, dal titolo Get Rich or Die Tryin’ (come il titolo del celebre esordio del rapper 50 Cent, passato nel giro di poche settimane dall’esser pusher di strada ad imprenditore milionario) è curata dallo stesso Paolo Woods assieme a Lars Lindemann. Fra i tanti fotografi protagonisti di questa collettiva – assolutamente impossibile non citare Jamel Shabazz – spicca sicuramente l’olandese Dana Lixenberg, autrice di alcuni scatti diventati talmente iconici da aver assunto vita propria, sotto forma di graffito per strada, ad esempio, o di meme virale sui social.
Cosa ti affascinava dei rapper e qual era l’idea dietro alla tua prima collezione di ritratti?
Non ne ero affascinata, inizialmente. Sono volata a Los Angeles un anno dopo i disordini del ’92 e ho raccontato quel che ho visto per un magazine olandese. Un anno più tardi sono voluta tornare per capire cosa ci fosse dietro a un certo sensazionalismo dei media, ed ho cercato quindi di inserirmi in quella community per realizzare una serie di ritratti dal tono elegante e calmo che uscisse dagli stereotipi del genere. Non sapevo cosa ne sarebbe venuto fuori, credevo che molti avrebbero potuto trovare i miei scatti noiosi. Ero a New York e avevo lasciato in giro un po’ dei miei portfolio, non era facile farsi notare in quella città, spesso neanche rispondevano alle mie richieste di pubblicazione. Questa invece funzionò subito, Vibe (storico magazine statunitense dedicato a rap e hip hop) iniziò a pubblicare i miei lavori a partire dal loro terzo numero e mi chiesero se volessi contribuire a mia volta: il mio primo scatto per loro fu 2Pac, era la fine del ’93 e mi diressi ad Atlanta. Seguivo il mio gusto: non ero una fotografa musicale e non venivo dall’hip hop, avevo iniziato ad ascoltare rap solo in occasione del lavoro sui riot di Los Angeles, fu l’anno in cui esplose The Chronic di Dr. Dre. 2Pac era già in rampa di lancio come artista: mi resi conto che avrei dovuto andare oltre il suo staff ed il suo entourage per portare avanti la mia visione. L’idea è di realizzare un ritratto che valga il tempo dell’artista, ma anche il mio. Mi piace aggiungere della piccola magia alle mie foto, dettagli inaspettati, non mi interessa esaltare la ricchezza o lo status di una persona. 2Pac aveva una bella anima, era sensibile, aveva delle belle ciglia, quasi femminili, aveva molte caratteristiche femminili, era molto diverso da Biggie.
Come reagivano i rapper alle tue richieste?
Non c’erano richieste. Non chiedo a nessuno di fare niente. Nel caso di Puff Daddy e della sua foto nel letto, ad esempio, ho avuto la possibilità di passare molto tempo con lui, ben due giorni. Inizialmente abbiamo fatto molte foto posate, erano quelle che voleva lui, alcune anche ‘sciocchine’, se vogliamo, ma sai in questi casi è un dare e avere: anche con Prince accadde lo stesso, iniziò a fare tutte le sue pose ma io non gli dissi da subito che non ero interessata a quel tipo di risultato. Cerco di creare una relazione per poi portare gli artisti dove interessa a me. La foto con Puff Daddy è realizzata durante una pausa dello shooting vero e proprio: non c’erano ancora i cellulari, o comunque eravamo solo all’inizio del fenomeno, e ho scattato una foto a Puff con tutti i suoi telefoni e l’accappatoio bianco. Io non sono una fan di queste persone, non ho quel tipo di attitudine: io non devo diventare loro amica e loro non devono diventare amici miei. Non ci frequentiamo e non dobbiamo farlo.
Alcune tue foto sono state replicate, modificate e riprodotte una miriade di volte, anche su media molto diversi diventando – di fatto – parte dell’immaginario collettivo ma forse, per certi versi, meno ‘tue’. Come ti fa sentire questa cosa?
Da una parte ne sono orgogliosa. Penso, ad esempio, al murales di 2Pac. Doveva essere la copertina di Vibe ma non fu così: la rivista scelse un’altra foto, più hardcore se vogliamo, mentre quella che poi è diventata celebre è finita dentro il magazine, nell’articolo. Ed è interessante che l’immagine che poi in molti hanno associato a 2Pac sia quella dentro la rivista e non quella di copertina. Poi attorno al 2014/2015 quell’immagine ha cominciato ad essere usata per vari tipi di merchandise, senza la mia autorizzazione: ne venni a conoscenza grazie a Google Search e la cosa si tradusse in un grande processo. Questa parte del lavoro è quindi meno piacevole: nel corso degli anni mi è stato chiesto il permesso per l’utilizzo di alcune mie foto a scopo commerciale, ma solitamente sono molto gelosa del mio lavoro, non ho quel tipo di scopo. Al giorno d’oggi, anche per via di internet, è diventato molto più complicato avere il controllo delle proprie opere: non passo le giornate ad inseguire chi utilizza il mio lavoro senza permesso, nella maggior parte dei casi si tratta di cose fin troppo piccole perché abbia senso perseguirle, ma col mio staff stiamo molto attenti a cosa fanno i grandi brand. Detto questo, sono felice che altre persone siano ispirate dalla mia arte per produrne di nuova: il mio ritratto ad un’icona è divenuto un’icona a sua volta, qualcosa che oggi probabilmente non è più legato a me, ma la cosa mi piace, mi piace molto.
La mostra collettiva Get Rich or Die Tryin’, e tutte le altre mostre del festival, sono visitabili fino al prossimo primo ottobre: per ulteriori informazioni www.cortonaonthemove.com.