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Muhammad Ali e i quattro modi in cui ha cambiato l’America

A 76 anni dalla nascita del campione, la sua eredità non accenna a spegnersi. Dal concetto di "potere nero" allo sdoganamento del rap, ecco come un pugile è riuscito a plasmare il corso della storia
Foto tratta da "Muhammad Ali: fighters Heaven 1974" di Peter Angelo Simon

Foto tratta da "Muhammad Ali: fighters Heaven 1974" di Peter Angelo Simon

Muhammad Ali ha senza dubbio trasformato il mondo dello sport. Vincere il titolo dei pesi massimi per tre volte – a cominciare dalla vittoria scioccante contro Sonny Liston del 1964, che lo ha reso il pugile più giovane a scalzare un campione dei pesi massimi in carica – Ali è considerato, insieme a Joe Louis e Sugar Ray Robinson, uno dei migliori pugili mai saliti sul ring. Anche se il suo stile pugilistico non era ortodosso, veniva anzi considerato un affronto dai puristi della boxe dell’epoca, la sua abbagliante combinazione di velocità e potenza hanno rivoluzionato lo sport e la maggior parte degli appassionati di boxe hanno finito per dare ragione ad Ali, il quale si è sempre vantato di essere “il più grande pugile di tutti i tempi”.

Mentre i suoi successi sul ring gli hanno fatto guadagnare il titolo di “Sportsman of the century” conferitogli da Sports Illustrated nel 1999, è stato l’appeal di Ali al di fuori del tappeto a renderlo una delle figure più riconoscibili ed amate del pianeta. Ad eccezione di Jackie Robinson, che nel 1947 fece crollare la barriera razziale nel baseball, nessuno può competere con il suo impatto in quanto figura d’eccezione dello sport americano del XX secolo. Le uniche cose più veloci dei sui pugni e dei suoi piedi erano la sua mente e la sua bocca: dicendo verità scomode per coloro che erano al potere, il loquace Ali era solito parlare in modo polemico, arrogante – parole che l’America tradizionale non era ancora pronta ad ascoltare, soprattutto dal momento che provenivano dalla bocca di un giovane nero.

Esprimendosi con forza e schiettezza – per non parlare della quantità di fascino e carisma che sprigionava – Ali è diventato un simbolo magnetico di dignità e autodeterminazione per tante generazioni di afroamericani, un titano degno del titolo onorifico di “The People’s Champ”, il campione della gente. Di seguito, quattro modi in cui la sua eredità ha contribuito a plasmare l’America moderna:

La nascita del concetto di “potere nero” nell’America dei bianchi

Quattro anni prima che James Brown registrasse Say It Loud – I’m Black and I’m Proud (1968) e due anni prima che Adam Clayton Powell Jr. e Stokely Carmichael utilizzassero per la prima volta la definizione Black Power a poche settimane di distanza l’uno dall’altro nella primavera del 1966, Ali era già diventato la manifestazione fisica del concetto. Poco dopo aver sconfitto Liston il 25 febbraio del 1964, il nuovo campione dei pesi massimi annunciò che stava cambiando il suo “nome da schiavo”, Cassius Clay, in Muhammad Ali, quello scelto per lui dalla setta separatista di Elijah Muhammad, la Nation of Islam. Molti giornalisti sportivi (e anche alcuni dei rivali di Ali) si rifiutarono di rivolgersi a lui con il suo nuovo nome, continuando a chiamarlo Cassius Clay. “So dove sto andando e so la verità e non devo essere quello che voi volete che io sia”, ha detto Ali alla sua prima conferenza stampa post-campionato. “Sono libero di essere quello che voglio”.

Nei mesi e negli anni che seguirono, parlando delle ingiustizie e delle disuguaglianze razziali, Ali passò dall’essere semplicemente un campione di pugilato a divenire il campione del suo popolo. Muhammad Ali è stato spesso frainteso dal mondo dei media, che a quel tempo era composto quasi esclusivamente da bianchi. Al culmine dell’era dell’affermazione dei diritti civili, la sua aperta condivisione dei principi della Nation of Islam, che includevano il rifiuto all’integrazione razziale, venne interpretata da molti come un’altra forma di bigottismo – il N.o.I. era decisamente temuto all’epoca, tanto da essere bersaglio dell’FBI – e per tutto il resto la sua vita venne chiamato a fare da ambasciatore della sua religione nei panni del più famoso americano musulmano della storia, ad eccezione forse del suo mentore Malcolm X.

Nel 1975, Ali lasciò la setta Nation of Islam per abbracciare la più tradizionale corrente sunnita, dedicando da quel momento gran parte della sua vita ad opere di carità. Dopo l’11 settembre, si schierò contro gli attacchi terroristici: “Questo mi ha fatto veramente male, perché l’Islam è pace, non violenza” e ancora “I pochi che operano in questo modo mettono in cattiva luce la religione nel suo complesso”. Il suo impegno per la libertà di parola e di religione incarna profondamente le libertà costituzionali dei padri fondatori, qualcosa che è reso ancora più risonante dall’attuale clima politico in cui domina una pericolosa demagogia.

L’introduzione del movimento contro la guerra degli anni sessanta

Nel marzo del 1966, dopo che lo status di Ali venne riclassificato rendendolo idoneo al servizio militare, il campione fece notizia in tutto il mondo quando rifiutò di essere arruolato nelle forze armate degli Stati Uniti, invocando il suo diritto costituzionale a rifiutare il servizio come obiettore di coscienza. Al tempo, la guerra in Vietnam era ancora sostenuta dalla maggioranza degli americani; di conseguenza la decisione di Ali di schierarsi contro di essa fu estremamente controversa, fu infatti messo alla gogna da politici e media come un vigliacco traditore. “Non ho niente contro i Vietcong”, dichiarò Ali spiegando le sue motivazioni. “Come posso sparare a quella povera gente? Portatemi semplicemente in prigione.”

La scelta di Ali non fu dettata dalla paura, ma dalla forza delle sue convinzioni, e lo costrinse a pagare un prezzo pesante. Nel marzo del 1967, venne spogliato del suo titolo dei pesi massimi e, nel giugno dello stesso anno, fu accusato di renitenza alla leva e condannato a cinque anni di carcere. Venne inoltre escluso dalla boxe per tre anni e mezzo, privato del suo passaporto e gli fu proibito di ottenere la licenza di pugile in qualsiasi stato. Sacrificare tutti questi anni nel pieno della sua carriera gli costò milioni e milioni, lasciandolo sommerso dai debiti e costringendolo, anni più tardi, a combattere ben oltre il momento in cui sarebbe dovuto andare in pensione, assorbendo colpi dannosi che molti credono lo abbiano condotto al morbo di Parkinson, di cui ha sofferto per gli ultimi tre decenni della sua vita.

Ma la presa di posizione di Ali diede essenzialmente il via al movimento contro la guerra degli anni sessanta e contribuì ad incoraggiare Martin Luther King a schierarsi contro il conflitto in Vietnam nell’aprile del 1967. Durante il suo esilio dal ring, il pugile diventò un oratore popolare nei campus universitari e, nel 1971, la sua condanna venne annullata dalla Corte Suprema con voto unanime. Agire secondo coscienza ha trasformato Ali nel modello dell’atleta politicamente impegnato per eccellenza e la sua influenza si è fatta sentire anche su Tommy Smith e John Carlos, che alzarono i loro pugni guantati di nero in segno di protesta alle Olimpiadi del 1969. Il loro coraggio rimane una fonte di ispirazione per chiunque agisca per principio a dispetto dell’opinione pubblica prevalente.

Il nome dell’atleta come brand

Icona della cultura pop al pari di Frank Sinatra e Elvis Presley, Ali aveva anche un enorme impatto sul mondo dello spettacolo. Pubblicò il suo primo album nel 1963, quando era ancora Cassius Clay, un disco parlato distribuito dalla Columbia e intitolato I Am the Greatest! (con note di copertina scritte dalla poetessa Marianne Moore), che includeva anche la sua cover di Stand By Me. L’album raggiunse la posizione 61 della classifica degli album più venduti in America e fu nominato per un Grammy, anche se Ali avrebbe poi dovuto aspettare fino al 1976 per guadagnarsi la sua candidatura successiva ( “Miglior disco per bambini” per la canzone pro-igiene dentale The Adventures of Ali and His Gang vs. Mr. Tooth Decay).

Ali, ad oggi, è stato il soggetto di 10 film: da eccellenti documentari come When We Were Kings (che ha vinto l’Oscar per il miglior documentario nel 1996) e The Trials of Muhammad Ali (incentrato  sulla sua posizione contro la guerra in Vietnam), passando per vari film drammatici in cui è stato interpretato da Terrence Howard (come nel film King of the World del 2000), Will Smith (nel film di Michael Mann del 2001 che ha fatto guadagnare a Smith la sua prima nomination agli Oscar come Migliore Attore) e, forse più opportunamente, da Ali stesso (nel film The Greatest  del 1977).

Ma il contributo più duraturo di Ali ad Hollywood nasce probabilmente dalla lotta contro un operaio bianco di nome Chuck Wepner, conosciuto anche col nome di “The Bayonne Bleeder”. L’incontro ispirò Sylvester Stallone durante la stesura della sceneggiatura di quello che sarebbe diventato Rocky (anche se Stallone negò il collegamento diretto per anni). Nel 2002, ad Ali è stata assegnata un stella sulla Walk of Fame dell’Hollywood Boulevard, ma la sua è l’unica sul muro e non sul marciapiede: Ali ha insistito affinché la sua placca non fosse a terra, cosicché nessuno potesse calpestare il nome del profeta Maometto.

Il padre spirituale del rap

Anche se Ali è venuto alla ribalta più di un decennio prima che la musica hip-hop cominciasse a diffondersi nel South Bronx, uno dei lasciti meno celebrati ma più durevoli del campione è quello di padre spirituale del rap. Soprannominato “il labbro di Louisville”, Ali ha portato il giocoso trash-talking della tradizione afro-americana fuori dal campo di basket e dagli angoli delle strade, per farlo entrare ufficialmente nel mainstream. Dotato di notevoli capacità di freestyle, le prime apparizioni di Ali sui media mettevano in scena le rime e il flow che un giorno sarebbe diventati tipici di MC old school come Run DMC e LL Cool J. Guardate il filmato dei momenti che precedono l’incontro con Liston e vedrete uno spirito libero che dà in incandescenza, come se Chuck D dei Public Enemy e Flava Flav fossero rinchiusi in un unico pacchetto, un griot rivoluzionario e burlone: “That they’d witness the launching of a black satellite? / Yes the crowd did not dream / When they put up the money / That they would see a total eclipse of the Sonny”.  (“Chi, tra quelli che sono venuti a vedere l’incontro, avrebbe mai immaginato che stava per assistere al lancio di un satellite nero? / Sì, la folla non sognava / Quando ha tirato fuori i soldi / Di vedere un’eclisse totale di Sonny.”)

Con le sue bizzarre poesie, Ali aggiunse un tocco di gentilezza alla più brutale delle attività atletiche. Con l’età, divenne più malinconico, e le sue dichiarazioni non in rima presero spesso la forma d’ispirati epigrammi, un esempio: “Un uomo che, a cinquant’anni, guarda il mondo così come faceva a venti, ha sprecato trent’anni della sua vita”. Nonostante il suo relativo silenzio degli ultimi tre decenni – il morbo di Parkinson lo ha derubato della sua lingua argento vivo – Ali è rimasto un grande esempio per le future generazioni di rapper, il senatore in ombra dell’hip hop. L’ego fuori misura di Ali ha prefigurato gli eccessi vanagloriosi di Kanye West, mentre la sua coscienza afro-centrica e la sua onestà hanno aperto la strada a bardi moderni come Rakim, Nas, Jay-Z e ​​Kendrick Lamar – per non parlare del fatto che la rivalità del campione con Joe Frazier è stata un dissing epico per l’epoca. Sono passati oltre cinquant’anni dalla prima volta che Muhammad Ali ha agitato il mondo, ma la sua presenza resta nel cuore dell’hip hop: un filosofo e un poeta nascosto dietro la feroce espressione di un guerriero.

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