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Come la Brexit sta rovinando la politica inglese

I politici maggiormente implicati nell'uscita della Gran Bretagna dall'Europa Unita si sono dimessi, ultimo l'antieuropeista Nigel Farage dell'UKIP. E Winston Churchill si rivolta nella tomba
Manifesto pro-leave durante la campagna per il referendum Brexit. A sinistra David Cameron, a destra Nigel Farage

Manifesto pro-leave durante la campagna per il referendum Brexit. A sinistra David Cameron, a destra Nigel Farage

Se pensate alla politica inglese vi immaginate dibattiti di alto livello, uno stile da invidiare e, soprattutto, una serietà e una responsabilità di fondo impossibile da paragonare al teatro permanente di casa nostra. Immaginate un leader politico per antonomasia e vi apparirà, come per magia, Winston Churchill. L’Inghilterra non è stata costruita in un solo giorno, ma quello che sta succedendo in queste ultime settimane ha del clamoroso. Il voto sulla Brexit dello scorso 23 giugno è stata la palla di neve che ha dato il via alla valanga. Come sapete, ha vinto il fronte del leave sull’onda di una campagna molto aggressiva sull’idea di un’Europa matrigna, cattivissima e capace di mettere sotto scacco la Gran Bretagna che, se liberata dai lacci di Bruxelles, potrebbe invece tornare a essere l’Impero della Regina Vittoria. Il giorno dopo il voto la sterlina è crollata a livelli mai visti e le borse hanno registrato perdite decisamente imponenti. Sul fronte politico, la situazione è più o meno riassumibile nella frase che apre Panic degli Smiths: «Panic on the streets of London».

Il primo ministro David Cameron – che ha rappresentato il fronte del remain ma ha indetto il referendum promesso in campagna elettorale per strappare consensi alle destre euroscettiche – ha rassegnato le dimissioni per ottobre, indicendo nuove elezioni e non partecipando, di fatto, ai negoziati della Brexit con l’Unione Europea (che adesso ha il vantaggio di poter dettare ogni condizione per le trattative). Boris Johnson, l’ex potentissimo sindaco di Londra e “falco” del leave ha dichiarato di non avere intenzione di correre per la leadership del partito conservatore (mentre veniva visto da tutti, da anni, candidato naturale alla successione di Cameron). Oggi, poi, la quadratura del cerchio definitiva. Nigel Farage, leader dell’Ukip, un politico che dal 1993 vuole la Gran Bretagna fuori dall’Unione Europea, si è dimesso da capo del partito perché “Ho raggiunto il mio obiettivo. Volevo indietro il mio paese, ora rivoglio indietro la mia vita”. Come se un Umberto Bossi degli ’90, ottenuta la Padania libera, avesse lasciato la guida della Lega Nord prima di iniziare il processo costituente dello Stato Padano. Winston Churchill si rivolta nella tomba con tutto il suo carico morale di responsabilità. Ma chi è Nigel Farage?

Nigel Farage è un politico conservatore da sempre contrario all’idea stessa di Unione Europea. Ha lasciato il partito conservatore nel 1992 – primo ministro di allora il conservatore John Major – proprio dopo la firma dei trattati di Maastricht per fondare l’Ukip, acronimo di UK Independence Party. Praticamente un comitato di scopo che ha un unico obiettivo: minare i fondamenti dell’Europa per far tornare la Gran Bretagna libera, florida e potente (sì, i dati ci dicono che la Gran Bretagna è sempre stata centrale per le sorti dell’universo, ma la politica sta diventando sempre meno razionale). La strategia della goccia cinese ha funzionano. Anno dopo anno, azione dopo azione, parola dopo parola, tanto si insiste fino a creare la breccia. Una breccia, però, che agita tutta l’Europa: dopo la crisi del 2008, infatti, i cosiddetti “populismi euroscettici di destra” sono cresciuti un po’ in tutto il continente (consigliamo a riguardo la lettura di Europa Anno Zero di Eva Giovannini). Dall’Ungheria alla Francia passando, ovviamente, per l’Italia, attaccare Bruxelles è ormai argomento del dibattito. Le dimissioni di Farage possono essere viste, a un primo impatto, come un gesto dovuto dopo che l’obiettivo di una vita è stato raggiunto. Ma la realtà è diversa.

L’Ukip, infatti, continuerà ad esistere, ed è già partita la gara alla successione del leader. Farage non smetterà con la politica (non ha annunciato dimissioni da membro del Parlamento Europeo, ad esempio) ma non vuole intervenire nella scelta del nuovo capo, nonostante pensi che l’Ukip, ora, debba avere un forte ruolo nazionale per dare man forte al governo nelle trattative con Bruxelles. La Gran Bretagna, infatti, non è ancora uscita dall’Unione. Ci vorranno almeno due anni di trattative e questo caos politico rischia di allungare ulteriormente i tempi al punto che c’è già qualcuno che pensa come alla fine tutto si risolverà in un niente di fatto. Come se il referendum fosse stato indetto con l’idea di perderlo perché nessuno dei “falchi” avrebbe voluto prendersi la responsabilità delle trattative (e infatti si stanno dimettendo tutti, scomparendo come i dieci piccoli indiani di Agatha Christie). Come se si fosse giocato con la democrazia per un po’ di consenso in più con la certezza che cambi tutto affinché niente cambi. Senza accettare appieno la responsabilità e la dimensione della sfida. Se ci pensate, è una storia che conosciamo benissimo. Se qualcuno dovesse chiamarci dall’Inghilterra, potremmo fornire un’approfondita consulenza.

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