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RIP

È morto Oliviero Toscani

Da tempo malato, il grande fotografo era ricoverato da venerdì nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Cecina. Aveva 82 anni. Non è mai stato uno schiacciabottoni: «Se l’arte non provoca, a cosa serve?»

Foto: Catherine Cabrol/Corbis via Getty Images

È morto oggi Oliviero Toscani. Il grande fotografo aveva 82 anni. Da tempo malato, era ricoverato da venerdì nel reparto rianimazione dell’ospedale di Cecina. La moglie aveva detto che si trattava di «una strada senza ritorno».

Toscani soffriva di amiloidosi, malattia rara che lo ha colpito un anno e mezzo fa. «In pratica», diceva la scorsa estate al Corriere della Sera descrivendo la malattia, «le proteine si depositano su certi punti vitali e bloccano il corpo. E si muore. Non c’è cura». Aveva perso 40 chili in un anno. «Vivere così non mi interessa», diceva. «Vengo da una generazione, quella di Bob Dylan, dove eravamo Forever Young. Il pensiero di invecchiare proprio non c’era. Fino al giorno prima di essere così lavoravo come se avessi 30 anni. Poi una mattina mi sono svegliato e all’improvviso ne avevo 80».

Milanese, nato il 28 febbraio 1942, era figlio d’arte. Il padre Fedele Toscani è l’autore della celebre foto del 1940 di Indro Montanelli con la macchina per scrivere sulle ginocchia, ma anche dello scoop di Edoardo d’Inghilterra e Wallis Simpson sul Lago di Como, nonché di alcuni filmati dei cadaveri di Benito Mussolini a piazzale Loreto, a Milano. Sua anche la foto del Duce che piscia nel mare di Rimini.

Dal 1982 e per quasi vent’anni, Oliviero Toscani ha creato l’identità di United Colors of Benetton. Le sue campagne pubblicitarie veicolavano l’identità aziendale unitamente a messaggi di tipo sociale, dalla tolleranza all’antirazzismo, gli stessi che stavano alla base della rivista Colors nata nel 1990. Aveva incontrato e fotografato grandi del Novecento, da Andy Warhol a Muhammad Ali, affrontato temi come anoressia e incidenti stradali, scioccato per le immagini crude e diviso per gli slogan taglienti. «La provocazione» ci ha detto quando lo abbiamo intervistato per i suoi 80 anni «è una cosa molto positiva. Vuol dire provocare interesse, cambiamenti, evoluzione, pace, amore… Se l’arte non provoca, a cosa serve? Perché deve avere una connotazione negativa? Non l’ho mai capito».

È stato un maestro nella concezione autoriale delle fotografie, prefeririva la parola “scatti” a “foto”. «Essere fotografo non è fare le foto. Si tratta solo dell’ultima azione che compi. Prima di tutto bisogna essere autori. Tanti fanno i fotografi, ma sono in realtà degli “schiacciabottoni”, come diceva mio padre. Degli operatori alla macchina. Per me la macchina è soltanto una tecnologia che mi permette di esprimere quello che penso. Uno scrittore usa la scrittura, un musicista la musica, e io uso la fotografia. Per essere considerato un autore devi essere uno sceneggiatore, uno scenografo, un regista, un direttore della fotografia e alla fine un cameraman. È un insieme di professionalità, “l’essere fotografo”. Quelli che eseguono gli ordini degli altri sono esecutori con macchina fotografica annessa».

Ha raccontato la sua storia nell’autobiografia Ne ho fatte di tutti i colori. Vita e fortuna di un situazionista. «Non ho paura di morire, basta che non faccia male», diceva ad agosto. «Vivere vuol dire anche morire, eppure nessuno parla della morte. Si vive come imbrogliandosi, perdendo tempo».

A Rolling diceva che gli interessa essere ricordato come una persona onesta. «Che non vuol dire uno buonino a cui va bene tutto, ma anche come una persona con delle prese di posizione, che ha portato avanti delle battaglie, ma che nello stesso tempo ha sempre creduto fino in fondo a quello che faceva».

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