È iniziata ieri sera – con il giuramento in Quirinale – l’avventura del Governo guidato da Paolo Gentiloni. L’ex Ministro degli Esteri ha sciolto la riserva presentando al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella la lista dei ministri che comporranno quello che sarà, dopo il voto di fiducia del Parlamento, il terzo governo della legislatura dopo quelli presieduti da Enrico Letta e Matteo Renzi. L’esecutivo, formato in tutta fretta per rispondere alle esigenze politiche contingenti, soprattutto in sede europea, si distingue per una forte continuità con il governo di Matteo Renzi (senza, però, le minacciate e minacciose presenze di ALA, la componente dell’ex colonnello berlusconiano Denis Verdini), con alcune sostanziali differenze. Tra queste: Angelino Alfano (spostato dagli Interni agli Esteri), Marco Minniti (da sottosegretario a Ministro degli Interni), Valeria Fedeli (neo-ministra all’istruzione in quota CGIL), Luca Lotti (che passa da sottosegretario a Ministro dello Sport) e Maria Elena Boschi (la madrina del referendum diventa la nuova Sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio). Restano al loro posto esponenti fondamentali come Pier Carlo Padoan – indicato da più parti come papabile presidente del consiglio – Graziano Delrio e Carlo Calenda.
Nelle prospettive del nuovo governo non c’è, però, solo la gestione degli affari correnti, ma l’incarico di fare una legge elettorale coerente per Camera e Senato per andare al più presto alle elezioni (al momento ci sono due leggi elettorali), anche se da ambienti parlamentari comincia a filtrare il timore che questo esecutivo possa addirittura arrivare alla fine naturale della legislatura, e cioè febbraio 2018.
Il pesante risultato della recente consultazione referendaria, con il “No” che ha polverizzato il “Sì” 60-40, non è stato solo una risposta a una domanda implicita (che non era sulla costituzione, ma su Matteo Renzi), ma anche la richiesta – confusa, ma sicuramente da ascoltare – di rappresentanza da parte di una cittadinanza che da anni si sente lontana dalle dinamiche della politica. In molti chiedono di tornare a votare il prima possibile sia per ridare voce ai cittadini – non vogliamo entrare qui nella noiosa diatriba sui “governi non eletti” – sia perché dal 2013, anno delle ultime elezioni politiche, sembra passata una vita. Ve lo ricordate, il 2013? Giorgio Napolitano Presidente della Repubblica; Pierluigi Bersani candidato Premier non-vincitore; Silvio Berlusconi autore di un recupero fenomenale dopo essere stato dato per morto un po’ ovunque; il Movimento 5 Stelle che, zitto zitto, riempie prima Piazza San Giovanni e poi prende quasi 9 milioni di voti entrando a gamba tesa nella vita pubblica del paese; i 101 del Pd che votano contro Romano Prodi alla successione di Napolitano. Oggi è cambiato tutto, eppure tutto sembra essere rimasto uguale. Se non di più: benvenuti nell’eterno ritorno della Prima Repubblica.
Il Governo Gentiloni gestirà gli affari correnti portando avanti l’agenda senza rivoluzioni copernicane. La discussione si sposterà via via su quello che succederà non al Parlamento, non a Palazzo Chigi, ma qualche isolato più a ovest, in largo del Nazareno, alla sede del Partito Democratico. Lì, infatti, nei locali che furono della Margherita, erede della Democrazia Cristiana, il principale partito di governo, ferito e azzoppato, scalda i motori per il nuovo congresso: c’è chi la legge come la vendetta di Matteo Renzi (che vuole tornare a votare il prima possibile per non perdere l’abbrivo e rilanciare), chi come la possibilità di fare finalmente i conti dopo non aver mai digerito il risultato del 2013 (la “minoranza” bersaniana che si è sempre sentita scippata del partito), chi come l’unica soluzione per definire obiettivi, programmi e alleanze prima di tornare a votare. House of Cards non ha inventato niente. In Italia, per questo, siamo dei maestri assoluti. Si chiama Prima Repubblica. Il Governo si scioglie e si riscioglie (sono oltre sessanta in settant’anni di vita repubblicana) perché le decisioni e gli accordi vengono presi altrove: in piazza del Gesù, sede storica DC, a palazzo Grazioli, residenza romana di Berlusconi, al Nazareno. Le maggioranze si sfaldano e rinascono; amicizie storiche si rompono, ma mai del tutto. Schemi, posizionamenti, conta interna, gestione del potere con il manuale Cencelli – il capolavoro dell’ingegneria politica per spartire nomine e deleghe – messaggi trasversali sulla pelle di politici esaltati e poi sacrificati, voti di fiducia o della non-sfiducia (con le opposizioni che escono dall’aula al momento del voto: si vocifera che Forza Italia per il Governo Gentiloni farà esattamente così). E infine, il capolavoro assoluto, la legge elettorale proporzionale pura e senza sbarramenti: aperta a tutti e a favore di nessuno, con alleanze strategiche che si fanno in parlamento ed eleggono governi strutturalmente deboli, che gestiscono crisi momentanee per poi cadere, riciclarsi, passare altrove. In Italia, il governo, è quell’incidente che succede tra una crisi parlamentare e l’altra.
Da questo Governo non possiamo aspettarci niente, quindi le critiche che si leggono in queste ore sono tra il pretestuoso e il prepolitico. Il vero focus va cercato altrove. Va cercato nelle direzioni in streaming del Partito Democratico e nelle dichiarazioni pubbliche di Alessandro Di Battista, Luigi Di Maio e Beppe Grillo. Va cercato analizzando il comportamento di Sergio Mattarella, guardiano silenzioso ma implacabile della dinamica politica. Va cercato prevedendo le mosse di Matteo Renzi, giocatore ferito ma non sconfitto, che ha perso una mano e sta solo aspettando il momento giusto per rimettersi al tavolo per il suo nuovo all in. Parafrasando Frank Underwood: Welcome to Rome.