Qualcosa gli manca: «Nessuno può avermi visto fare sport negli ultimi cinque anni». Tutto il resto, invece, se non lo ha già, è pronto a conquistarlo: «Ora vado a fare la spesa con mia moglie così, quando Salvini mi chiederà il prezzo del latte, saprò cosa rispondere». Dopo esser rimasto a lungo sospeso tra due mondi, cinque anni fa, il ministro dello sviluppo Carlo Calenda dal vertice delle aziende private passò al governo della Repubblica («finora senza pentimenti», dice). Candidato con la lista di Mario Monti, scelto come viceministro da Enrico Letta, promosso ministro da Renzi, confermato da Gentiloni, Calenda è riuscito a trasformare quello che poteva essere il proprio peccato originale – il lavoro a fianco di Montezemolo, l’esperienza nell’Interporto campano con Gianni Punzo, la frequentazione dei poteri cosiddetti forti – in una barricata sulla quale salire per piantare la bandiera della sua ascesa politica: «Non ricevo più questa gentaglia», è sbottato lunedì contro i vertici dell’Embraco, multinazionale pronta a delocalizzare in Slovacchia, licenziando quasi cinquecento dipendenti: «Ne ho avuto fin sopra i capelli di loro».
Assai dentro, ma anche po’ fuori, Carlo Calenda combatte ogni giorno la propria battaglia politica senza candidarsi alle prossime elezioni, stessa scelta di Alessandro Di Battista del Movimento 5 stelle, ma interpretata facendo a meno del camper e della pizza al taglio. Seguendo l’esempio di Mao Tse Tung, che prese la città dalla campagna, Calenda punta all’apice delle istituzioni rimanendo fuori dalla Camera e dal Senato, da extraparlamentare. Si definisce liberale: «Dunque, sempre pronto a cambiare idea alla luce dei fatti». E così, quando Alessandro De Nicola, con troppa assertività, dice che «non è un marxista», il ministro subito lo corregge: «Mai dire mai», ha twittato. «I manoscritti economico-filosofici del 1844 sono da rileggere» (trattasi del testo più controverso dell’intera produzione di Karl Marx, che li scrisse a Parigi quando aveva solo ventisei anni, genere archeologia della rivolta).
Mai dire mai. I manoscritti filosofici economici 1844 sono da rileggere. https://t.co/L3Fp9b3eym
— Carlo Calenda (@CarloCalenda) 18 febbraio 2018
Calenda viene dall’alta borghesia romana, ramo colto e di sinistra. È figlio di Cristina Comencini (dunque nipote di Luigi, gran regista della commedia all’italiana) e Fabio Calenda, economista, il cui padre è stato ambasciatore italiano in India e in Libia, nonché consigliere di Sandro Pertini. Ha frequentato il liceo Mamiani, è scappato di casa, è stato bocciato, ha preso la tessera dei giovani comunisti, fatto una figlia a sedici anni, è tornato in famiglia, ha lasciato la politica giovanile. Ha scritto che “un operaio ha diritto di diventare presidente del consiglio” e gli han fatto notare che per dirigere un paese ci vogliono i titoli. Risposta: «Competenza e CV non sempre coincidono». Il suo curriculum dice che si è laureato in Giurisprudenza, con indirizzo diritto internazionale, ha lavorato in una società di trading a Londra, nel dipartimento marketing della Ferrari, poi a Sky, prima di diventare direttore dell’ufficio internazionale di Confindustria, tutte esperienze che l’hanno fatto sentire in grado di consigliare a Virginia Raggi: «Prenditi qualcuno nello staff che conosca l’aritmetica. Ti giuro che è utile per gestire la capitale d’Italia».
La sua teoria è che «non si può negare diritto di rappresentanza a un incompetente: si può non votarlo». Sono tutti enunciati, quelli che abbiamo citato, scritti sulla sua pagina twitter: una raccolta di aforismi, canzonature, giochi, prese di posizione, foto, sprezzature, complimenti, consigli pedagogici come questo: «Parti da Parmenide» suggerisce a un utente che aveva accolto il suo invito ad opporre Platone a Montaigne, un duello del pensiero occidentale in duecento ottanta caratteri. Con i leghisti, è spietato: «Matteo Salvini è andato davanti ai cancelli di #idealstandard a prendere in giro gli operai. Ha mentito due volte e non si è scusato con loro». E anche irrisorio: «Bagnai non parla più di uscire dall’Euro. Prossima tappa dichiarazione di voto a favore di +Europa». Esasperato dalle notifiche del ministro, Claudio Borghi l’ha bloccato. «Mi ha bannato (mi hanno spiegato che si dice così), questi machi leghisti no/si/no euro sono refrattari al confronto», informa i suoi seguaci, a metà tra l’esibizione dello scalpo nemico e l’inopportuna sensazione che il leghista gli manchi.
Va beh tra Parmenide vs Platone e Liberismo vs Liberalismo stiamo volando troppo alto per una domenica mattina pre-elettorale. E mia moglie si è svegliata. Dunque lascio il campo a @cicciocalenda e @CarloCallende
— Carlo Calenda (@CarloCalenda) 18 febbraio 2018
Ha una missione social: «Contrastare la marea di fesserie che vengono dette». La scuola è quella di Roberto Burioni, il medico, professore, virologo del San Raffaele di Milano, che, con i tweet, combatte il movimento no vax e tutti gli altri generi di anti-scientismo. Con una differenza: la politica non è come la scienza: è democratica. E Calenda non può usare il proprio sapere come uno scudo dietro cui ripararsi dagli assalti dei barbari incompetenti. È anzi comprensivo, avvicina gli odiatori che digitano cattiverie indossando il saio dell’umiltà: «Sono persone spaventate dal futuro (spesso a ragione). Parlarci può fare la differenza. Altrimenti, la politica non ha più senso». È un influencer delle istituzioni, un francescano dell’arena virtuale. Fratello hater, sorella troll, venite a me.
Dicono che Matteo Renzi si sia pentito di averlo confermato alla guida del ministero dello sviluppo economico, dopo essere rimasto affascinato dalla singolarità del tipo. Un innamoramento improvviso e sbagliato, per i renziani di stretta osservanza: un abbaglio che gli ha fatto vedere un fuoriclasse al posto del mitomane. Quando il vento del gradimento pubblico è cominciato a spirare a sfavore di Renzi, sussurrano i suoi avversari dentro il Pd, Calenda ha aperto le proprie vele per posizionarsi nella fronda dei critici pronti alla successione. Non ama Luca Lotti e nemmeno Maria Elena Boschi. In generale, ha scritto: «Abbiamo dato l’idea di ritenere che i problemi dell’Italia fossero superati grazie a noi. Abbiamo peccato di superficialità e di arroganza». Poi, il colpo diretto a Renzi all’inizio della campagna elettorale, sull’idea di abolire il canone Rai: «Sarebbe una presa in giro».
Calenda non ha accettato di candidarsi nemmeno con Emma Bonino: «Fare il deputato non è il mio lavoro – ha scritto –. Mi piace gestire. Però faccio campagna elettorale per il centro sinistra. Se andrà male, condividerò la sconfitta». E se andrà bene, invece? Qualcuno è convinto che possa ambire e ambisca – addirittura – alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Impossibile sapere se sarà così. Lui direbbe che è «tutta fantascienza», un altro «capitolo Asimov» della campagna elettorale. Tuttavia, il ministro aveva già negato di fare sport. Poi, l’han visto a cavallo: «Ma lo sport lo fa il povero equino, non io» ha specificato. Un po’ come le elezioni: le corrono gli altri. Ma chi rimane fuori può vincerle.