Le proteste infiammano l'America dopo l'elezione di Trump | Rolling Stone Italia
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Le proteste infiammano l’America dopo l’elezione di Trump

In tutto il paese si contano a migliaia i manifestanti scesi in strada contro il neoeletto Presidente Trump, per protestare contro un voto elettorale che nei numeri premierebbe la Clinton

Proteste anti-Trump a Los Angeles, California. Il 9 novembre 2016 - Ronen Tivony/NurPhoto/Getty Images

Proteste anti-Trump a Los Angeles, California. Il 9 novembre 2016 - Ronen Tivony/NurPhoto/Getty Images

Dopo una delle campagne elettorali più snervanti che la storia politica statunitense ricordi, i risultati delle elezioni presidenziali hanno messo a nudo quanto parte dell’opinione pubblica e – soprattutto – mediatica temeva come l’uomo nero: la possibilità, mai del tutto esorcizzata, che la retorica da ring di Donald Trump spuntasse da sotto il letto, pronta a risvegliare dal sogno del politically correct “stronger together” della Clinton e della sua politica ragionata, alla luce dei fatti inerme davanti al Super-Uomo trumpiano che alla ragione preferisce l’istinto viscerale, che al messaggio calcolato ha scelto quello “de panza”.

Dati alla mano, quello del neoeletto Presidente Trump è stato un approccio vincente, anzi, devastante, tanto da permettergli di portarsi a casa l’intero jackpot, tra Casa Bianca, Congresso e Senato, tutti assegnati alla valanga repubblicana. Tuttavia, nonostante il trionfo elettorale di Trump abbia indubitabilmente segnato – letteralmente parlando – il tramonto quantomeno politico dell’Occidente, una grossa fetta della stampa rimane ancora incredula davanti all’infangarsi di statistiche e algoritmi andati in fumo contro il voto democratico, così come incredula, e decisamente arrabbiata, rimane una parte degli americani che, volenti o nolenti, avranno Trump alla Casa Bianca per i prossimi quattro anni.

Nella notte di ieri a migliaia sono scesi per le strade delle maggiori metropoli degli Stati Uniti per manifestare contro Donald Trump. New York, Washington, Chicago, Los Angeles, Oakland, tutte immobilizzate dall’onda umana che ha bloccato il traffico, incendiato bandiere a stelle e strisce, automobili e bidoni della spazzatura al grido: «Abbasso Trump, abbasso il Kkk, abbasso i fascisti». Non limitate alle sole grandi città, le proteste hanno contagiato tutti gli Stati Uniti giacché, a detta dei manifestanti, il nuovo Presidente degli Stati Uniti non sarebbe legittimato dal voto popolare.

E così è, dato che, se si conta il numero dei voti Democratici rispetto a quelli Repubblicani, il risultato delle elezioni sarebbe del colore opposto, premiando la Clinton piuttosto che Trump con un 47,7% contro al 47,5% del Tycoon. Uno 0,2% che corrisponde alle circa duecentomila preferenze in più che tuttavia non sono bastate a Hillary Clinton per raggiungere gli almeno 270 grandi elettori su 538 necessari per ottenere la Casa Bianca. È finita 228 a 279 per Trump, secondo la logica del “winner takes all“: non importa con quanti punti un candidato ottenga la maggioranza, basta anche uno scarto infinitesimale perché in saccoccia vadano tutti i grandi elettori di uno Stato.

In California, per esempio, la Clinton ha ottenuto il 61,5% dei voti contro il 33,3% di Trump – circa 2,6 milioni di preferenze di scarto; lo stesso nello stato di New York, dove è finita 58,8% contro 37,5%. Al contrario, in alcuni Stati decisivi come Florida o North Carolina, Trump ha raggiunto una maggioranza tirata per i capelli con un 2,7% da una parte e il 3,8% in più dall’altra.

Nella storia degli Stati Uniti questa è la quinta volta che un candidato, pur vincendo al voto popolare, rimane con un pugno di mosche davanti al sistema elettorale dei grandi elettori rimediando, oltre al danno, anche la beffa. Buffo sapere che era stato proprio lo stesso vincitore delle elezioni a contestare quello stesso metodo elettorale senza il quale ora sarebbe tornato a gestire il suo impero finanziario.