«Volevamo fare la maglietta della nostra compagnia. E siamo finiti a fatturare mezzo milione di euro».
Fa quasi paura detta così, ma se a 15 anni decidi che vuoi disegnare le t-shirt per i tuoi amici, probabilmente sei abbastanza testardo e ostinato da arrivare quasi dove vuoi. È la storia quasi da sogno di Dolly Noire, marchio di streetwear nato quasi per scherzo dall’idea di quattro amici. «Siamo tutti di Buccinasco, alle porte di Milano. Abbiamo fatto una prima collezione per i nostri amici, con il ricavato ne abbiamo fatta un’altra. E poi è diventato qualcosa di più di un gioco».
Il bello di Gioele Castelvetere, Daniele Crepaldi, Alessandro Malandara e Federico Ferrero è che non si sono fatti dividere da niente. «Ci siamo fermati un anno prima di finire il liceo, poi abbiamo aperto una ditta individuale, mentre continuavamo con gli studi. Chi ha fatto design, chi economia, chi marketing, tutti ci siamo specializzati in qualcosa. Con quello siamo andati nel 2008 e abbiamo provato a entrare nei primi punti vendita. Siamo partiti da Amedeo D., che per noi era un punto di riferimento, ma ci ha rimbalzato. Regalandoci però qualche consiglio. Siamo tornati un anno dopo e abbiamo piazzato una collezione in conto vendita».
Ma per iniziare davvero, serve il supporto di qualcuno. Così i quattro partecipano a un concorso per start-up, rientrando tra i selezionati. «Per mesi siamo andati avanti a fare lezioni e corsi nel fine settimana. Alla fine di questo percorso ci hanno portato a fare una presentazione davanti ad alcuni investitori, ma niente. Tutti puntavano sulla tecnologia, nessuno su di noi. Secondo noi è la moda del momento, ma non ti dà un ritorno immediato. Un business come il nostro però è meno attrattivo, ha delle barriere all’ingresso più alte, ha un percorso di crescita più lungo, a meno che tu non abbia un proprietario iper famoso. Bisogna farlo crescere con calma».
Quindi i soldi dovevano arrivare da un’altra parte. E alla fine vincono ancora i rapporti personali. «Una delle nostre forze era quella di non fare solo la distribuzione classica, am di trovare dei piccoli venditori, che legalmente potessero vendere ai loro amici, per guadagnare qualcosa e intanto attivare una distribuzione iper capillare. Questa idea sai a chi è piaciuta? Al padre di un ragazzo a cui davo ripetizioni. Non sto scherzando, i primi soldi li abbiamo presi da lì. Ci ha dato 15mila euro, prendendosi il 20% della società. Ci ha guadagnato, adesso. In due anni abbiamo fatturato mezzo milione di euro».
E come? Piazzandosi addosso, o meglio, in testa alla gente. «A livello di prodotto abbiamo fatto una scelta interessante che ci ha fatto crescere tanto, puntando sul cappellino. Le magliette le avevano tutti, non potevi farti riconoscere con una maglietta. Poi l’hip hop italiano stava crescendo, quindi tutti hanno iniziato a mettersi i cappellini. Abbiamo differenziato i materiali con un disegno molto semplice e sono piaciuti a tutti. Adesso, invece siamo quasi un total look, l’anno prossimo amplieremo la gamma».
Ma la differenza è anche dal punto di vista grafico, per ogni stagione un tema diverso, che viene reinterpretato da una manciata di artisti vari, writer, illustratori o designer che siano. «Dal punto di vista creativo questa è una delle cose più belle, diamo un valore all’arte, a come vogliono esprimersi i vari nomi che coinvolgiamo. Diamo un tema e loro si muovono attorno, con i loro stili, quindi c’è qualcosa per tutti i gusti. Poi diventano collezionabili, come le sorprese dell’uovo Kinder: una volta che ne compri una poi le vuoi tutte».
Adesso i loro prodotti sono addosso a un sacco di gente conosciuta del mondo musicale. Dai rapper ai deejay, Dolly Noire ha conquistato una marea di gente. Come? «La qualità, essenzialmente. Ti serve a battere i competitor mondiali, senza dover pagare. Siamo maniaci per questa cosa, sappiamo che dobbiamo creare qualcosa, dare un’esperienza. Abbiamo un prodotto di qualità, ricercato». Un discreto salto, dalle maglie della compagnia di Buccinasco.