Può un videogame servire per raccontare la realtà? Per rivivere in prima persona un evento storico, e quindi comprenderne le ragioni e le dinamiche? (Secondo questo principe saudita i videogame non solo hanno la capacità di descrivere il mondo, ma addirittura di cambiarlo.)
Riot, in uscita questa estate, è un videogame che si presenta come un “simulatore di rivolte”, ed è prodotto da un team di sviluppo prevalentemente italiano. Già questa è una (bella) notizia. Al momento abbiamo un trailer (che potete vedere qui sopra) e alcune .gif, di cui possiamo ammirare la bellissima grafica pixelosa. Gli sviluppatori annunciano che molta importanza avrà l’intelligenza artificiale che gestisce le azioni dei gruppi di personaggi, sia poliziotti che manifestanti.
Riot appartiene a un genere di videogame che sembra ispirarsi più a celebri capolavori del passato, come SimCity, che ai moderni titoli incentrati sul controllo di singolo personaggio: un ambiente di gioco come sistema, controllabile fino a un certo punto, e dalle dinamiche non sempre prevedibili. Abbiamo fatto alcune domande a Leonard Menchiari, ideatore e anima del progetto.
Riot sta per uscire in un momento storico in cui la tensione tra cittadini e polizia è costantemente sotto gli occhi dei media – vedi Baltimora in questi giorni e Ferguson qualche mese fa negli Stati Uniti, o gli scontri tra ultrà e polizia negli stadi italiani ed europei, e ancora i timori di proteste violente in occasione dell’Expo che sta per iniziare a Milano. In che modo un “simulatore di rivolte” in forma di videogame può aiutarci a capire meglio le dinamiche di questi eventi?
È paradossale, ma spesso molti di questi eventi non vengono discussi a fondo (o addirittura menzionati) dai media standard come televisioni, giornali, ecc. Non so quanto veramente potrà aiutarci un progetto come questo, ma l’obiettivo è che Riot in qualche modo possa dare ad alcuni – o magari anche a molti – la possibilità di scoprire eventi di cui poco si era sentito parlare.
Negli ultimi tempi molti sviluppatori di videogames, soprattutto indie, hanno deciso di raccontare temi adulti e delicati come la depressione, l’ansia, la violenza sui minori, la morte. Non trovi che termini come “gioco” e “giocatore” suonino un po’ troppo leggeri per un prodotto come Riot? È giusto che questo media ambisca a essere considerato “arte”, o non ne ha bisogno?
Sono decisamente d’accordo. Per questo motivo la maggior parte delle volte cerco di chiamare Riot “progetto” anziché “gioco”. Il mondo videoludico è talmente vasto che non ha quasi più senso categorizzarlo tutto quanto sotto uno stesso nome. Chiamare questo media “arte” è quasi necessario a mio parere, vista la sua capacità di comunicare qualunque tipo di esperienza e sensazione anche a livelli incredibilmente profondi.
Non c’è un rischio di banalizzazione, nell’equiparare eventi storici così diversi tra loro come gli scontri NoTav e la rivoluzione di piazza Tahrir? Il motore di Riot si potrà applicare anche a eventi futuri?
Spero di no. Di sicuro il mio obiettivo non è quello di banalizzare questi eventi, ma considerando che questo rimane comunque il mio primo progetto, non posso prevedere al 100% cosa succederà una volta uscito. Io ho replicato una serie di eventi con meticoloso dettaglio, e ricreato delle forme di intelligenza artificiale abbastanza accurate in modo da poter ricreare una serie di scontri realistici. Le mappe successive verranno influenzate da come verranno affrontate queste situazioni. Per il resto, siamo altrettanto curiosi di vedere cosa ne uscirà fuori, in modo da poter comunque imparare anche noi qualcosa dal nostro progetto.
Non capita tanto spesso sentire parlare a livello internazionale di un videogame indie prodotto in Italia, anche se qualcosa ultimamente sembra finalmente muoversi (Fotonica, Murasaki Baby). Riot è stato finanziato grazie al crowdfunding. È ancora così indietro l’industria dei videogames nel nostro paese?
L’Italia è incredibilmente indietro su troppe cose, incluso purtroppo il mondo dei videogiochi. Se solo ci si rendesse conto del potenziale che questa forma d’arte è in grado di possedere, credo che molti dei problemi di questo paese potrebbero essere tranquillamente risolti. Ovviamente, vista la situazione attuale, per i finanziamenti ho dovuto gestire un crowdfunding (Indiegogo, N.d.r.) fuori da questo paese, e al momento il team di sviluppo è finanziato da producer provenienti dal Regno Unito. In Italia, come in quasi ogni altro ambito, ci sono le possibilità grazie a persone che si dimostrano incredibilmente talentuose; realizzarle queste possibilità, però, è decisamente più difficile. Fortunatamente siamo in un periodo storico in cui la locazione fisica ha poca importanza vista l’esistenza della Rete. Finché esiste conviene sfruttarla a fondo, soprattutto in paesi come come l’Italia.