La guerra dello Stadio di Roma è finita. Ha vinto una mediazione che sulla carta soddisfa tutti in uguale misura: il presidente americano della Roma, James Pallotta, che si felicita quando a Roma è ancora notte, «Comincia un nuovo capitolo», la sindaca Virginia Raggi, arrivata alla trattativa finale dopo un malore e ore di accertamenti in ospedale, «Questo nuovo accordo lo potremmo chiamare 2.0», e Beppe Grillo, che ha gestito la fase finale delle trattative, quasi fosse lui il vero primo cittadino della Capitale.
Il risultato in parità è più apparente che reale, dovuto alla scelta salomonica di dimezzare le cubature di cemento previste dal progetto iniziale. Ma a conti fatti, il nuovo accordo è più una vittoria del fronte critico che non della società e del suo proprietario. Spariscono infatti i tre grattacieli che dovevano affiancare lo Stadio. Decurtato del 60% il “Business Park” che è la fetta forse più appetitosa per gli investitori, tra cui la parte del leone la fanno Goldmann Sachs e Rotschild. Portati al livello A4, il più alto possibile, gli standard di sicurezza. Stabilita una convenzione con i costruttori in base alla quale dovrebbero avere la priorità assoluta le opere davvero utili alla cittadinanza, come il potenziamento della ferrovia Roma-Lido. Questo però è il versante più delicato. In base all’esperienza, infatti, i costruttori, nella Capitale, largheggiano sempre in promesse salvo poi ripensarci al momento di mantenerle.
Di certo, la guerra dello Stadio è il primo risultato positivo ottenuto da una giunta che sin qui aveva solo seminato delusione. La soddisfazione della sindaca, che rivendica l’aver «rivoluzionato il progetto tasformandolo in un’opportunità per Roma è legittima», è legittima. Come lo è quella di Pallotta e del costruttore romano Luca Parnasi: sono andati a un millimetro dal vedere sfumare l’affare e senza neppure la possibilità di rivalersi chiedendo un risarcimento miliardario. Poche ore prima dell’accordo l’avvocatura capitolina aveva stabilito che il consiglio comunale, ma non la giunta, poteva annullare o modificare la delibera della precedente amministrazione Marino che dichiarava il progetto “di interesse pubblico” senza incorrere in penali. Un asso nella manica che probabilmente ha convinto Pallotta e Parnasi ad accontentarsi di un progetto più che dimezzato.
Sono comprensibilmente soddisfatti anche i tifosi romanisti, che avevano già fatto rullare i tamburi di guerra anche se in realtà lo Stadio, nonostante la discesa in campo diretta sia di Francesco Totti che dell’allenatore Spalletti, li entusiasma sino a un certo punto. Si chiama infatti “Stadio della Roma” ma in realtà è di Pallotta, dal momento che la proprietà resterà sua.
L’arena ispirata al Colosseo progettata da Dan Meis, con una capienza di 52.500 posti tutti coperti ed estensibili fino a 60mila, aveva diviso proprio tutti: urbanisti, commentatori, partiti e giunta. Aveva visto contrapporsi i verdetti di due sovrintendenze ai Beni culturali, quella romana favorevole al progetto purché vengano salvate le tribune dell’ippodromo di Tor di Valle progettate nel 1959 dal grande architetto Julio Lafuente, e quella del ministero, che ha avviato la procedura di vincolo il cui esito potrebbe essere l’annullamento dell’intera opera.
La vicenda è stata travagliata sin dagli esordi. Quando Pallotta propose l’opera nel 2012, un anno dopo aver acquistato con tre soci la Roma, fu subito chiaro che non si trattava di un optional. L’acquisto della squadra era propedeutico alla costruzione dello stadio e non viceversa. Il quale stadio, a sua volta, non era affatto il cuore del progetto, del quale rappresentava in realtà una porzione modesta, pari al 14% circa delle cubature di cemento. Il grosso, in termini di cemento e di profitti previsti, doveva crescere intono all’arena: un mall con tanto di ristoranti bar e negozi vari, un parco, tre grattacieli progettati da una delle principali star mondiali dell’architettura, Daniel Libekind.
Pallotta incarica una società privata, la Cushman &Wakefield, di individuare l’area in cui edificare il polo, senza consultare il Comune, che pure è inevitabilmente parte in causa anche se gli investitori si assumono per intero l’onere delle spese. La società indica i terreni di Tor di Valle, appena acquistati da Luca Parnasi, figlio di Romeo, il fondatore di Parsitalia scomparso l’anno scorso che da stagnaro comunista si era costruito un impero di cemento, incaricato anche di costruire materialmente la faraonica opera.
L’area selezionata, Tor di Valle, si presta a a critiche di diversa natura. Si tratta di una zona a rischio di dissesto idrogeologico. L’ippodromo di Tor di Valle è considerato un bene culturale. Ma il punto davvero dolente riguarda l’impostazione di fondo. Si tratta infatti di permettere per l’ennesima volta ai palazzinari di costruire una cattedrale nel deserto, in una zona molto fuori mano e in deroga al Piano regolatore, in cambio dell’impegno a costruire a proprie spese servizi che dovrebbero essere utili per la popolazione: quella che Gianni Alemanno, allora sindaco, definiva “moneta urbanistica”. Nel caso specifico la proposta era la costruzione di un grande ponte e del prolungamento della Linea B della metropolitana.
Il sindaco Marino, dopo una resistenza iniziale, s’innamora del progetto. Nel dicembre 2014 la giunta stabilisce che l’opera è “di interesse pubblico”. Le cose però non vanno come previsto. La progettazione procede con fatica, tanto che Pallotta si trova costretto nel gennaio 2016 a sostituire alla guida dei lavori Mark Pennes con David Ginsberg. Parnasi è in guai anche peggiori, esposto con Unicredit per 450 milioni di debito e con Mps, per una cifra totale che si aggirerebbe sui 700 milioni. A salvare la situazione garantendo liquidità interviene un colosso dell’edilizia come il gruppo Pizzarotti.
Il resto è storia recente. Lo scontro sullo Stadio, sostenuto ora dall’assessore allo Sport Daniele Frongia, da sempre vero braccio destro della sindaca Raggi, e l’assessore Berdini è il vero motivo della detronizzazione dell’urbanista. Il Comune esprime parere tecnico negativo, ma con l’obiettivo di trattare più che di bloccare davvero i lavori. Il risultato è una revisione iniziale del progetto che lo ridimensiona in proporzione pari al 25% delle cubature. Ma una parte di M5S non si accontenta. La palla passa così a Grillo, che propone lo spostamento dell’opera solo per sentirsi rispondere da Pallotta che non se ne parla nemmeno. Replica accompagnata dalla minaccia di affossare sia la società, disinvestendo alla grande, sia il Comune, pretendendo un risarcimento salatissimo.
La pace firmata venerdì notte evita il prolungarsi di una guerra avrebbe lasciato comunque cicatrici profonde e forse, per una volta, ha vinto Roma.