In altre situazione avrei pensato che un festival del fumetto non fosse l’ottimale collocazione per una mostra di Andrea Pazienza, perché le forme della creatività quando decidono di rimanere nei propri contesti rischiano di ghettizzarsi. Però questa esposizione organizzata nell’ambito dell’ARF! Festival è bella e giusta, forse anche perché l’Ex Matattoio di Testaccio è uno dei posti più suggestivi di Roma. «Trent’anni senza» è il titolo della mostra e sembra impossibile che sia passato tutto quel tempo dalla sua morte, il 16 giugno 1988. Non tanto per il ricordo vivo che la società ha della sua presenza, ma per l’attualità di quelle tavole che hanno catturato una generazione e ne hanno sconvolta un’altra. E forse sta proprio lì il primo segreto del successo di Pazienza, nel fatto che sia riuscito a disegnare uno spartiacque prima che un’opera su carta, quello di una generazione che cercava il movimento e l’apertura e che i fumetti di Pazienza negli anni ’70 e ‘80 doveva leggerli sotto le coperte, nasconderli ai genitori. E spero che a questa mostra partecipino soprattutto i nati negli anni 2000, che stanno crescendo nebulosi e giù di tono a causa della più grave delle carenze, proprio quella di non avere più nulla da nascondere ai genitori.
120 tavole che ci danno un assaggio di Pazienza, che è nato a San Benedetto del Tronto nel 1956 ed è cresciuto in Puglia, per poi fare il Liceo a Pescara e trasferirsi infine a Bologna per iscriversi al DAMS, che non finirà mai: «Mi mancano due esami, se ci sarà ancora il DAMS li farò quando avrò 60 anni. Più che altro, chissà se ci sarò io quando avrò 60 anni». Era pigro, Pazienza, e anche i lavori li finiva quando era il tempo che mancava a mettergli pressione. Il primo a essere pubblicato fu Pentothal, nel 1977 su Alter Alter, un fumetto che offriva la possibilità di capire o almeno fiutare quel movimento che in Italia, ma a Bologna in particolare, buttava all’aria le regole dell’ideologia rifiutando ogni sponsor politico, e che ancora oggi è impossibile da decodificare. Negli anni successivi sarebbero poi arrivati Francesco Stella, l’investigatore senza nome, Pertini, ma soprattutto Zanardi. Dal punto di vista somatico il personaggio più celebre di Andrea Pazienza è la miscellanea di tanti suoi conoscenti e il nome è quello di un suo amico tassista che si chiamava proprio Massimo Zanardi, mentre il carattere è quello di un cinismo che evolve col passare del tempo in un liceale riottoso, dagli occhi bulbosi e il volto tagliente. E quell’intreccio di spigoli che compongono il volto di Zanardi e che si acuiscono man mano, sono la cifra del suo carattere: all’inizio la cattiveria è solo un passaggio inevitabile della vita, perché «un treno che passa in galleria fa buio per un po’», diceva Pazienza, ma nelle ultime storie invece è il punto di partenza. Poi c’è Pompeo, l’ultima opera, che racconta quanto ci si possa sentire nullità dopo aver consegnato la propria vita al disagio.
Pazienza era amato e odiato dai suoi colleghi, e visse come un tradimento il fatto che a Bologna lo isolassero, fino a scappare a Montepulciano. Persino Hugo Pratt, che bloccò una segretaria della casa editrice Milano Libri che stava liquidando Pazienza, dicendole che il ragazzo meritava e andava lasciato provare, a un certo punto rispose a un «ci vediamo Hugo» con un «Andrea, con parsimonia». Era istrione, esibizionista, narciso. Se lo poteva permettere perché oltre a essere talentuoso, era anche bello. Però non parlo del fascino da bello e maledetto, ma di una bellezza da ritorsione, che usava come arma di rivalsa per completare l’identikit perfetto della rock star con chi cercava di negargli la patente di eccellenza. In mostra incontro un giovane fumettista, che alla mia domanda su cosa avesse Pazienza di diverso dagli altri mi risponde «che in un solo disegno riesce a usare dieci tecniche diverse, è un fuoriclasse, perché così non ci riesce nessuno. E poi in poche pagine riesce a farti ridere e piangere». Subito mi sembra una risposta banale e invece poi mi accorgo che è l’unica possibile quando mi trovo davanti a Cenerentola 1987. È una storia di una crudezza e violenza senza pari che però, non so come, riesce anche a divertire: Zanardi attira un amico con l’inganno in una specie di orgia, invitandolo a fare sesso con una ragazza nascosta da una coperta. Proprio mentre i due lo stanno facendo, Zanardi toglie la coperta e questo ragazzo scopre di avere un rapporto sessuale con sua sorella. Subito dopo si suiciderà per la vergogna, e se questa storia non la leggete dalla penna di Pazienza, vi comprendo perfettamente se mi prendete per pazzo o perverso, quando vi dico che c’è anche una sottotrama comica.
Tra i tanti fumetti in mostra è esposta anche un’opera inedita, un dipinto composto da otto tele, alte più di due metri, che rappresenta Zanardi a cavallo e che appartiene a Matteo Garrone, che lo tiene in camera del figlio e lo ha prestato per l’esposizione.
Durante la visita incontro anche Marina Comandini, la moglie di Pazienza, che mi racconta tanti aneddoti e particolarità, come il fatto che ogni storia la scriveva prima a macchina, della tanta musica italiana che ascoltava, di quando Fellini gli disse che la locandina che aveva creato per il suo film Città delle Donne sembrava un “manifesto di una parrucchiera”, della volontà di dirigere un film e della terribile paura di invecchiare che aveva.
Non voglio dire che si sia fatto del male perché non sopportava di non essere più un ragazzo, ma di sicuro la sua morte gli ha evitato di dover fare i conti con qualcosa che non aveva affatto risolto. Alla mostra del Testaccio, curata dai bravissimi Stefano “S3Keno” Piccoli, Mauro Uzzeo e Alino, due dei quali sono anche fumettisti e hanno dato garanzia di sensibilità, si può notare anche quel lato un po’ ingenuo di Pazienza, legato alla condizione di bambino candido e impertinente che viveva anche da adulto. E non parlo di una semplificazione del messaggio, ma della sincerità di un autore che non solcava il terreno del lessico intellettuale, ma di quello intimo, personale, sconvolgente e carnale che usiamo quando vogliamo essere davvero capiti.
La sua fine prematura per overdose, dovuta a una dose di eroina di troppo, lo ha congelato nel mito, e sono 30 anni che il suo lavoro è stato stato consegnato alla storia dell’arte. E in quella fine non leggiamo solo la morte di una leggenda che se ne va da rock star, ma anche la vita dell’uomo Andrea Pazienza che si spegne bambino.
«Andrea Pazienza, trent’anni senza»
25 maggio / 15 luglio 2018
MATTATOIO di Roma (ex MACRO Testaccio)
piazza Orazio Giustiniani 4, Roma
Orario: 12:30 – 19:30 (chiuso i lunedì).
Biglietti: intero € 12 – ridotto € 10
Info: 060608 www.arfestival.it – info@arfestival.it