Un professore di un ipotetico Paese del Nord riceve una notizia inaspettata. Una sua ex studentessa lo accusa di violenza sessuale ad anni di distanza. Quella che un tempo era stata una storia d’amore tra i due, oggi viene rivista dalla ragazza come una forma di abuso. L’attuale compagna del professore è chiamata tra i testimoni della piccola comunità, per giudicare il caso. Non è la trama di un film scandinavo, né una delle ultime rivelazioni post-Weinstein. È la premessa dell’ultimo, romanzo di Veronica Raimo, Miden (Mondadori). Sorprendente come lo scenario in cui si svolge la vicenda: un distopico Stato-modello che, sopravvissuto a un’imprecisata catastrofe globale, ha dato vita a un governo “della gente”, una democrazia diretta organizzata su commissioni di cittadini. Un romanzo italiano di respiro internazionale, come vorremmo leggerne di più.
Il tuo romanzo sembra doppiamente puntuale: non solo per il risveglio femminista in atto, ma anche per le prospettive di un partito “di gente comune”, come il M5S, che punta a diventare una forza di governo.
È vero, sembra studiato apposta per uscire di questi tempi. La verità è che ho iniziato a scriverlo quattro anni fa. Il modello non è il Movimento 5 Stelle, ma l’Islanda, che qualche anno fa riuscì a reagire alla crisi economica grazie alla partecipazione dei suoi cittadini. Ma quella forma di resistenza autarchica, in realtà, era anche motivata da una spinta molto protezionista e nazionalista.
In molti vedranno un parallelismo tra la vicenda raccontata nel romanzo e quello che è successo ad Asia Argento e altre attrici in era #metoo.
Si può vedere un parallelismo ma c’è anche una differenza sostanziale. Se creare aggregazione intorno a un hashtag può essere funzionale a un movimento, in letteratura non è così. Non m’interessava affrontare un “tema”, anzi ogni volta che uno scrittore si propone qualcosa di simile o vuole sentirsi un “testimone del suo tempo”, non mi viene molta voglia di leggerlo.
Miden è raccontato da più punti di vista: quello dell’uomo accusato di violenza, quello della sua compagna e quello dei testimoni coinvolti dalla commissione che indaga sul reato. È stato difficile entrare nella testa dell’uomo?
Mi interessava il suo punto di vista. Volevo capire che impatto potesse avere un’accusa simile in un contesto di violenza apparentemente consensuale. Il professore è un uomo razionale, dialettico, consapevole, e, di fronte a quell’accusa, sono i suoi stessi strumenti retorici che cominciano a vacillare. In questo senso ho provato a mettermi nei suoi panni: e se succedesse a me? Non era un pensiero impossibile, non siamo così in controllo della violenza che esercitiamo sugli altri.
Miden mi ha fatto venire in mente autrici come Margaret Atwood o James Tiptree Jr. (a.k.a. Alice Bradley Sheldon, in assoluto uno dei migliori autori di racconti di fantascienza, nda).
In realtà l’influenza principale è J.M. Coetzee, e in particolare Tempo d’estate. Ma più per quanto riguarda la struttura e il punto di vista, che per l’ambientazione o la storia.
I cittadini di Miden hanno a cuore un concetto, quello di rendere tutto il più possibile “accogliente”, che sembra richiamare l’hygge danese che va tanto di moda oggi.
Sì, è una parodia di quello. Nel romanzo questo porta a degli estremi, come il tentativo di rendere “accoglienti” anche posti come il cimitero, la discarica, la terapia intensiva.
Lo slogan di Miden è “Siamo la gente”. Da dove viene questa idea?
Da un festival organizzato due anni fa alla Funkhaus di Berlino da Bon Iver e The National. Il pubblico veniva chiamato “PEOPLE”. C’era uno striscione, gli sticker, un magazine, il merchandising. Mi sono chiesta: chi sarebbe questa “Gente”? Noi privilegiati bianchi, fichetti, che sentiamo la musica giusta?
Senza fare spoiler, il finale mi ha sorpreso.
Non era programmato. Mi è venuto in corsa, a partire da un’immagine precisa.