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Per tradurre una poetessa nera serve una traduttrice nera?

Il caso della traduttrice olandese Marieke Lucas Rijneveld, bianca, scelta per tradurre la poetessa afroamericana Amanda Gorman, ha sollevato polemiche. Abbiamo chiesto al poeta Mattia Tarantino e alla scrittrice e traduttrice Viola Di Grado cosa ne pensano

Rob Carr/Getty Images

“La poetessa afroamericana Amanda Gorman non può essere tradotta da una donna bianca”. O meglio, da una “troppo bianca”. È l’incredibile ondata di indignazione che ha spinto la scrittrice e traduttrice olandese Marieke Lucas Rijneveld (non certo una qualsiasi) a dover rinunciare all’incarico nonostante l’avesse già annunciato con orgoglio su Twitter.

La casa editrice Meulenhoff aveva scelto la poetessa 29enne per tradurre la nuova raccolta di poesie di Amanda Gorman, dopo che nel 2020 aveva vinto l’International Booker Prize con il romanzo Il disagio della sera. Ma quando ha postato su Twitter la notizia del suo incarico moltissimi utenti hanno avuto qualcosa da ridire. Perché scegliere una persona bianca per tradurre delle poesie che parlano di discriminazione razziale? Perché non cogliere l’occasione di dare voce a delle poetesse olandesi di colore? Magari qualcuna ancora poco conosciuta, no? E così si è scatenato un tale polverone che Rijneveld ha deciso di rinunciare all’incarico. “Sono scioccata dal clamore intorno al mio coinvolgimento nella diffusione del messaggio di Amanda Gorman” ha precisato su Twitter “ma capisco le persone che si sentono ferite dalla scelta della casa editrice Meulenhoff”.

L’eco di questa incredibile vicenda è arrivato anche in Italia e così abbiamo chiesto il parere di due giovani scrittori, ma già quotatissimi nell’ambiente della letteratura, della poesia e della traduzione. Questo il pensiero di Viola Di Grado, che recentemente ha tradotto Non morire della premio Pulitzer Anne Boyer: “La questione è grave e nasce da un bug culturale davvero goffo: da un’idea molto confusa su cosa sia la letteratura. Non ho letto la poesia in questione, e non lo faccio ancora perché mi interessa dare un parere neutrale: a prescindere dal valore di un testo la letteratura è un’operazione di trascendenza, che sdogana il sé dello scrittore dalla sua soggettività per comunicare delle realtà universali – altrimenti non è letteratura”, spiega di Di Grado.

“Non c’è bisogno di leggere Orlando di Woolf per capire che la letteratura non ha genere, e nemmeno colore della pelle, e che chiunque provi ad assegnarglielo non sa cosa sia un libro. Sarebbe come ridurre un’operazione artistica a un’operazione anagrafica, che è una forma di omicidio artistico, e la cui possibile deriva è che si comincerà a scrivere solo delle proprie private paturnie come nei temi di terza elementare”, continua. “È bello scrivere di sé e si può fare in modo geniale, ma solo ricordando che il sé narrato acquista valore solo nell’essere portavoce di un sé collettivo, che come tale nel suo risultato artistico è autobiografico quanto la Metamorfosi di Kafka. Per fortuna che Flaubert è morto, altrimenti alla sua genuina esclamazione ‘Madame Bovary c’est moi’ chissà quanti si sarebbero indignati: un uomo che si finge donna, inaccettabile! Facendolo rivoltare nella tomba”.

Sulla stessa linea anche il poeta e traduttore, Mattia Tarantino: “Ci troviamo di fronte a un problema che riguarda la collocazione del poeta nelle società, innanzitutto. Il radicamento e lo sradicamento della figura, la funzione politica della parola poetica: la forma di discorso poesia esce dallo spettro della propria trasversalità e si ricolloca nei corpi e nelle trame sociali. Questo implica una riflessione sulla traduzione della poesia, che andrebbe ampliata: se tradurre da una lingua all’altra implica indovinare e riconoscere le tensioni e le possibilità di una lingua e la parola poetica recupera la propria tensione politica, allora chi può tradurre quella tensione, senza neutralizzarla?”, spiega.

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