All’inizio la Coca-Cola era una miscela di zucchero, foglie di coca, noci di cola e diversi aromi segreti. E non dimentichiamo le bollicine tanto fondamentali per il suo successo, rese possibili dalle Istruzioni per impregnare l’acqua di aria fissa, l’opuscolo del 1772 con cui Joseph Priestley descrisse la produzione di «un’acqua frizzante incredibilmente eccellente» ottenuta attraverso l’aggiunta di anidride carbonica.
La soda fu messa sul mercato nel 1886, pubblicizzata come la spinta perfetta per la «turbolenta, creativa, rumorosa, nevrotica nuova America». Tonica e rinfrescante erano due parole di inevitabile appeal per una generazione immersa in una cultura in rapido cambiamento economico, tecno- logico e sociale… cambiamento che aveva reso gli americani «il popolo più nervoso del mondo», come dichiarava una delle prime pubblicità della bevanda, che poi elencava i malanni («qualunque disturbo nervoso […] esaurimento mentale e fisico, tutte le malattie croniche e i problemi di deperimento fisico…») e i malati («commercianti, banchieri, signore, e tutte le persone i cui impieghi sedentari causano spossatezza dei nervi») a cui il vino di coca poteva dare sollievo.
Il vino di coca da cui ebbe origine la Coca-Cola fu prodotto per la prima volta da John Pemberton, un medico dipendente dalla morfina. «All’epoca non sapevamo esattamente quale fosse il suo problema» scrisse un contemporaneo, «ma poi si scoprì che era un drogato». I suoi tentativi di liberarsi dalla morfina convinsero Pemberton che la coca era «in assoluto il miglior sostituto dell’oppio […] Supplisce alla mancanza della droga, e il paziente che ne farà uso come strumento di cura potrà liberarsi dalla sua rovinosa dipendenza senza alcun fastidio o dolore». Pemberton salutò la Coca-Cola – inizialmente lanciata sul mercato come Vino di Coca Francese – come una «grande benedizione» per «gli sfortunati che sono dipendenti dalla morfina o dall’oppio, o dall’uso eccessivo di stimolanti alcolici» e dichiarò che «migliaia di persone la celebrano come il rinvigorente più straordinario che abbia mai sostentato un organismo debilitato e deperito».
Pemberton studiò la coca a fondo. Era convinto che le foglie più efficaci non fossero necessariamente quelle con il maggior contenuto di cocaina e che, sebbene quello fosse l’ingrediente più attivo, i consumatori di coca preferivano le foglie in cui la cocaina era bilanciata da altre sostanze chimiche. Anche se la Coca-Cola veniva prodotta con le foglie di coca, c’è motivo di credere che il contenuto di cocaina fosse intensificato dalla caffeina contenuta nella noce di cola. E l’effetto della bibita era notevole: ogni bottiglia conteneva l’equivalente di una piccola ma dignitosa riga di cocaina.
Alla fine del secolo, il legame con la cocaina che aveva contribuito alla popolarità di tante bevande stava diventando un peso. La pessima reputazione della droga aveva danneggiato il mercato di tutti i prodotti associati alla cocaina e alle foglie di coca. Tranne, naturalmente, uno: nel momento in cui la cocaina diventò illegale, la Coca-Cola diventò una bevanda immacolata.
La prima proposta di rimuovere la cocaina dalla Coca-Cola inorridì l’azienda, anche perché la coca era parte integrante del suo nome. Ma nel 1902 la Coca-Cola Company cominciò discretamente a usare foglie private del contenuto di cocaina, e la strategia si rivelò un grande successo. La rimozione passò quasi inosservata, e anche senza gli alcaloidi della cocaina, si continuò a vendere la Coca-Cola come un tonico rinfrescante, una panacea che i consumatori avrebbero continuato a volere sempre di più. È tuttora così, e chi la beve non ne ha mai abbastanza. La Coca-Cola è diventata la bibita gassata più famosa del mondo, il nome più riconoscibile, il marchio più importante.
L’azienda simulò un’amnesia riguardo la cocaina e negò che la sua bevanda avesse mai avuto un collegamento con la droga: il nome, disse, era «privo di significato ma fantasioso e allitterante», e non aveva niente a che vedere con la sostanza. Ma la Coca-Cola non sarebbe andata da nessuna parte senza l’apporto stimolante della coca, e quando tutti cominciarono a chiamarla semplicemente Coca, il collegamento non avrebbe potuto essere più esplicito.
Alla celebrazione del centenario della bevanda, la Coca-Cola Company era ormai una delle prime dieci imprese americane per importanza, vendeva quasi la metà delle bevande analcoliche al mondo e spendeva qualcosa come quattro miliardi di dollari all’anno in marketing. E a permettere alla Coca-Cola di sopravvivere senza la cocaina fu la pubblicità, che riempì il vuoto lasciato dalla droga compensando la perdita dell’ingrediente che aveva procurato alla bevanda il suo successo commerciale. Grazie alla pubblicità, la Coca-Cola divenne la prima merce a causare dipendenza pur non contenendo sostanze che causano dipendenza. La bevanda diventò di fatto una cocaina virtuale, una botta simulata, un paradiso molto artificiale. La cultura del consumo del XX secolo ha imparato molto da questo gioco di prestigio della mano invisibile del mercato.
Nelle immagini, le canzoni, i jingle e il famoso logo della Coca-Cola, l’azienda trovò nuovi modi per assicurarsi che la bevanda fosse sempre «il desiderio a portata di mano», e non si fece troppi scrupoli a sfruttare la connessione tra Coca-Cola e sesso. Le immagini di Mama Coca come «una dea dell’amore con le foglie di coca in mano» erano sempre state usate per vendere bibite a base di coca, e molte delle prime pubblicità della Coca-Cola avevano usato variazioni sul tema. Quando la cocaina scomparve dalla ricetta, l’azienda investì sull’immagine osé che la bibita aveva ormai acquisito. In una pubblicità del 1908 compariva una ragazza a seno nudo con una bottiglia di Coca-Cola in mano; un’altra ritraeva «una giovane donna in lingerie nera adagiata su un tappeto di pelle di tigre con un’espressione di esausta beatitudine. Teneva un bicchiere vuoto in mano e sul tavolo accanto c’era una bottiglia di Coca-Cola. La didascalia recitava: “Satisfied”».
Con gli anni le immagini divennero molto più pulite e morali. Il nesso che un tempo univa Mama Coca e l’adulterio era stato sradicato dalla Chiesa cattolica nel tentativo di ridurla a una divinità femminile. La Coca-Cola Company ora impiegava lo stesso stratagemma: le «vergini di Atlanta» – le giovani facce pulite, cloni della ragazza della porta accanto, che figuravano in molte promozioni e pubblicità della Coca-Cola del periodo successivo – evocavano un’immagine di «sesso senza sudore», proprio come vendevano la Coca-Cola senza coca.
Una pausa per rinfrescarsi. La pausa pubblicitaria. Compensando l’assenza di cocaina con l’attrattiva della pubblicità, la Coca-Cola imparò a sfruttare tutti i vantaggi della droga senza finire nei guai con la legge. E da allora la Coca-Cola è leader nel campo pubblicitario. Nel 1914, l’azienda possedeva quasi cinquecentomila metri quadri di muri americani, interamente ricoperti del suo logo dipinto sull’intonaco. Inoltre fu la prima a erigere cartelloni pubblicitari e a creare i primi «spectaculars», le insegne al neon che affollano i centri urbani del mondo. La Coca-Cola spianò perfino la strada ai moderni metodi della ricerca di mercato quando, nel 1927, allettò i consumatori con un premio di diecimila dollari per farsi dire quale fosse la loro varietà di bevanda preferita tra quelle pubblicizzate. Negli anni Trenta, la Coca-Cola veniva reclamizzata alla radio, e le pubblicità al cinema e più tardi in televisione ampliarono ulteriormente il pubblico della bibita.
L’influenza culturale, economica e politica della Coca-Cola è stata immensa. Il logo è onnipresente, e in certi posti del mondo è più facile trovare una Coca-Cola che l’acqua potabile. Le sue insegne sono ovunque: enormi bottiglie al neon che versano Coca al neon a Città del Messico; bicchieri fluorescenti pieni di bollicine fluorescenti a Saigon. La Coca-Cola è divenuta il simbolo dell’America e di tutto ciò che l’America rappresenta. Quando la Coca-Cola cominciò a imbottigliare la bibita in Francia, ci fu una grande resistenza a quella che il Partito Comunista Francese definì una «Coca-Colonizzazione», un termine che condensa perfettamente le tendenze globalizzanti del capitale occidentale.
Un estratto da Scritti sulla/sotto droga di Sadie Plant (edizioni Nero).