Forse la vera notizia è che Sabina Guzzanti è diventata moderata. O meglio, come ci ha tenuto a precisare “meno impulsiva”. Eppure, nonostante rispetto al passato non sia presente con le sue battaglie in tv o sui giornali, il romanzo che ha scritto – e oggi troverete in libreria – ci interroga come ieri sulla direzione che sta prendendo la nostra società. Si intitola 2119. La disfatta dei Sapiens (HarperCollins) e si richiama alla letteratura distopica affrontando temi attualissimi, come il cambiamento climatico, la concentrazione della ricchezza e la dipendenza dalla tecnologia.
La trama è complessa: dopo una lunga serie di catastrofi ambientali, pandemie e sconvolgimenti di ogni sorta i superstiti sono stati costretti a sottomettersi a un regime ingiusto ma stabile, liberamente ispirato al feudalesimo. Vi ricorda qualcosa? E ancora, la società è formata da un centinaio di milioni di arcimiliardari e tre miliardi di migranti ambientali senza diritto di voto, raggruppati in campi di accoglienza su lembi di terra risparmiati dall’innalzamento delle acque. Gli unici che si oppongono sono i giornalisti di Holly, il solo organo di informazione scritto da esseri umani invece che da robot. Ma chi può cambiare il corso della storia non è un supereroe o una figura di particolare spessore (apparentemente), ma una bistrattata redattrice di una rubrica sui gattini.
Vi sembra fantascienza? Non proprio, perché nonostante abbiamo cercato con Sabina Guzzanti di allontanarci dal suo romanzo commentando l’attualità, alla fine ci siamo ritrovati sempre più immersi in queste suggestioni. Dai social “studiati per intrappolarci” con algorismi basati” su un modello di business” all’informazione che ormai “ha più a che fare con l’ordine pubblico”, dalla cultura “che non sappiamo perché sia importante” alla politica in confusione; con il M5s “un esperimento destinato a naufragare” e il Pd che “è come due ossi che sfregano senza cartilagine”; fino a una poco rassicurante constatazione: “Mario Draghi è un passo indietro della democrazia, ma non c’era già più da un pezzo perché non ha chi la difende, ormai non sta nel cuore di nessuno”.
Sabina, dopo tv, teatro, film, documentari e diversi libri questo è il primo nella forma romanzo. Come mai?
È una storia molto articolata che poteva stare solo in un romanzo. E poi ne avevo voglia, ci pensavo da tempo, anche se non ero sicura che ne sarei stata capace. Alla fine, mi sono incaponita ed eccolo qui. È nato anche sulla sensazione ormai di avere una identità digitale completamente indipendente da me che mi fa sentire a disagio. E forse questo è un modo per riprenderne il controllo, riportarla a una dimensione più umana.
Il tutto si svolge in un mondo colpito da catastrofi ambientali, pandemie e sconvolgimenti di varia natura. Avendolo scritto nel 2019, sembra profetico. Speriamo non per tutti i presagi di sventura che contiene.
Effettivamente, la pandemia è stata la cosa più inaspettata. Per il resto, il riscaldamento globale, le catastrofi ambientali e le ondate migratorie un po’ le conosciamo. Non ci vuole la palla di vetro per capire che continuando così gli effetti saranno questi.
Altro aspetto inquietante, ma quanto mai futuribile, riguarda un mondo controllato da un centinaio di milioni di arcimiliardari onnipotenti rispetto a tre miliardi di migranti ambientali senza diritto di voto. Solo che a contrastare tutto ciò non è un supereroe, ma una bistrattata redattrice di una rubrica sui gattini. Perché questo personaggio apparentemente così marginale nella società?
La mia sensazione è che per venire fuori da questa situazione pericolosa in cui ci siamo cacciati, sia necessario tornare a dare importanza a ciò che consideriamo minore o irrilevante. È una società, la nostra, che ormai si è adattata a criteri dettati dagli algoritmi, che sono quelli di un preciso modello di business. È questo l’aspetto nocivo, perché tutto ciò porta al profitto di pochi. Quindi tutto quello che è minoritario, debole e invisibile bisogna imparare a ridargli importanza, mi sembra l’unica via d’uscita da questa forma di estrema arroganza che l’Homo Sapiens porta nella sua definizione.
Dopo tante battaglie che hai portato avanti in passato, sia all’interno della sinistra che contro Silvio Berlusconi, questo è oggi per te il tema dei temi?
Sì, sicuramene è il tema dei temi. Non so se è una battaglia, vorrei superarne il concetto per quanto mi riguarda. Sono argomenti di cui discutiamo poco o in modo fuorviante. Pensiamo a Cambridge Analytica, il cui caso si è concluso con il click “accetta” sui siti in cui navighiamo, che è una protezione minima e anche un po’ ipocrita. Ma la domanda rimane: perché qualcuno si può impossessare dei nostri dati contro il nostro interesse e la nostra salute fisica e mentale?
Ho letto che sui social sei molto critica. In sintesi, non li consideri un mezzo di comunicazione ma di controllo, giusto?
Sono nati per intrappolarci, per tenerci attaccati a loro il più a lungo possibile con gratificazioni fittizie e soprattutto un malumore costante che sono in grado di creare. Ormai c’è una vasta letteratura, consiglio Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social di Jaron Lanier. In pratica i “pentiti” della Silicon Valley ci spiegano in che modo sono stati programmati i social. Tenerti di malumore è funzionale a farti rimanere intrappolato in quel labirinto. Per questo non sono adatti a fare informazione e non sono un luogo di dibattito. È una illusione sterile quella che abbiano un compito sociale, mentre invece è antisociale perché quel “like” è utile solo alla piattaforma, non agli altri.
Tu hai denunciato spesso le mancanze dell’informazione in Italia. Rispetto al passato, abbiamo fatto qualche progresso o invece siamo regrediti?
L’informazione, insieme alla cultura, sono parte integrante della democrazia. Per scegliere sono necessari alcuni strumenti di cui però siamo costantemente privati. I social in particolare ci privano dell’attenzione, che sarebbe essenziale. Questa viene continuamente colonizzata e infatti non siamo più capace di concentrarci. E così, anche il giornalismo è costretto a mettere in rilievo la frase più acchiappa click che però stravolge il senso di quel che è stato detto e lo semplifica fino a farlo diventare fuorviante, con la gran parte di persone che si limiterà a leggere solo quello.
Insomma, mi pare che il quadro descritto non sia migliore rispetto al passato.
No, perché tutto ciò condiziona forse ancor di più delle solite lottizzazioni politiche e degli editori impuri di cui discutevamo un tempo. Oggi siamo prigionieri di qualcosa di ancor più invisibile e dal quale è difficile difendersi. Tutto è impostato su criteri di quantità. Quando sento dire: “Sono i numeri che parlano” è impressionante perché nella vita reale si traduce con il far parlare la demagogia. Per questo il giornalismo e la politica sono in balia della demagogia.
In tutto questo, come vivi i cinema, i teatri e i musei chiusi?
Sono in uno stato di stupore e attesa, per capire fin dove può arrivare questa situazione. Il settore della cultura a mio parere era già molto decaduto, ma spero che ora si possano fare nuovi ragionamenti sulla funzione della cultura in una democrazia. Da una parte sono nate realtà che uniscono gli artisti e gli permettono di avere una rappresentanza per difendere i propri diritti. Ma dall’altra è necessario chiedersi qual è la funzione della cultura. “Non si può vivere senza teatro, senza cinema, senza musei” si dice spesso, ma perché? Lo sentiamo, però facciamo fatica a trovare gli argomenti, come se non ci credessimo fino in fondo o come se la domanda cominciassimo a porcela soltanto adesso.
Fa riflettere che prima della pandemia, teatri, cinema e musei fossero per lo più in crisi di partecipazione e poi sono diventati luoghi pericolosamente affollati, non credi?
Sono tutte le contraddizioni che sono emerse. Perché sull’autobus sì e a teatro no? Ma è perché si segue un criterio di business. In fabbrica si è sempre andati anche in zone duramente colpite dal Covid, mentre a scuola o a tetro no. È soltanto la logica del profitto. Chi ci governa evidentemente è convinto che la cultura sia un orpello, solo che se noi siamo convinti che sia fondamentale dobbiamo chiarirci meglio sul perché.
Da attenta osservatrice del circo mediatico, per caso i virologi hanno colpito la tua fantasia?
Ci ho pensato. La figura dell’esperto in generale è sempre piuttosto umoristica, ancor di più in questo contesto. I virologi hanno dovuto fare i conti con dei “doveri” mediatici. Hanno partecipato per ore e ore a trasmissioni e prima o poi una sciocchezza dovevano dirla per forza. Dal punto di vista scientifico quel che si può dire è sempre poco, però è interessante come è cambiata l’informazione in questa pandemia.
Come?
Mi ha colpito quanto diventi evidente una funzione che ha più a che fare con l’ordine pubblico che con l’informazione. La tv in pratica ha sopperito alle mancanze organizzative attraverso un convincimento per quantità. Infatti, non riesco più a sentire le informazioni sul Covid, dopo che per un anno ogni giorno siamo stati bombardati sulle solite e scarne misure da rispettare, come lavarsi le mani e non assembrarci. È curioso come questa forma di stordimento possa ottenere dei risultati.
In passato hai espresso apprezzamenti per il Movimento 5 Stelle. Dopo vari governi e l’approdo addirittura a Mario Draghi ti senti fra i delusi?
Ho avuto un intenso rapporto con gli attivisti in passato quando si erano messi a distribuire autonomamente il mio film. Ne ho conosciuti tanti, ci ho discusso a lungo, ho cercato di capire cosa avessero in mente ma senza riuscirci. Non ho mai avuto la sensazione che fosse un esperimento che potesse funzionare. Infatti, non li ho mai votati. Raccoglievano alcune istanze che condividevo, ma nel loro insieme mi sono sempre apparsi contraddittori. Dall’atteggiamento verso i migranti alla mancanza di democrazia interna. Mi sembrava già allora un esperimento destinato a naufragare. Ricordo che spesso le discussioni si concludevano da parte loro con l’affermazione: “Mi fido di Beppe” e non credo sia un fondamento democratico.
Non dirmi che non ti ha stupito il segretario del Pd Zingaretti, il quale prima ha difeso Barbara D’Urso per la cancellazione anticipata del suo programma e poi, quando si è dimesso, ha rilasciato proprio a lei la prima intervista?
È un sintomo di grandissima confusione, nel quale si mischiano tanti aspetti che sono più emotivi che strategici. Andare da Barbara D’Urso credo sia stata più una provocazione che la volontà di raggiungere le fasce popolari. Anche perché credo abbia ascolti bassi, da quel che ho sentito. Mi pare che nel Pd siano arrivati a un osso strofina un altro osso senza ormai più cartilagini.
Com’è che la sinistra, alla fine, finisce sempre col dividersi?
Penso ci sia una mancanza di chiarezza totale su cosa significhi essere “di sinistra”. Nel Pd ci si spacca ancora su questo, perché alcuni tentano di costruire una sinistra e altri vogliono un partito di centro. Un dilemma che si trascinano da tempo, in un meccanismo di poteri che si distruggono a vicenda. Da spettatrice è abbastanza lampante la direzione che andrebbe presa, e cioè verso una riconversione ambientalista in grado di conciliare i principi di giustizia sociale in modo contemporaneo. Però la nostra è una democrazia un po’ fradicia. I partiti sono messi male e l’avvento di Draghi è un passo indietro della democrazia. È come se avessimo detto: “Non siamo capaci, proviamo un’altra strada” ma senza sapere se riusciremo a tornare indietro o andare avanti.
Non c’è democrazia in Italia?
La democrazia non c’è da un pezzo. Come la terra che viene sommersa a causa del riscaldamento globale, la democrazia perde terreno e non sembra avere futuro. Perché non ha chi la difende, non sta nel cuore di nessuno e sembra che le priorità siano sempre altre.
Non sarà diventata “moderata” anche Sabina Guzzanti?
Forse meno impulsiva, d’altronde si cerca sempre di migliorare nella vita.
Non c’è qualcosa di cui ti penti delle esternazioni pubbliche che in passato crearono moltissime polemiche?
Mi capita spesso che mi chiedano un pentimento. Tutti quanti sbagliamo, però non credo di essere tra le persone che si devono pentire. Ho girato film, spettacoli e preso posizioni con l’intendo di fare bene e spinta dalla generosità. Perché dovrei pentirmi di aver cercato di capire la trattativa stato-mafia, cosa è accaduto durante il terremoto dell’Aquila e di aver dato un contributo dialettico al dibattito? Non ho mai imbracciato il fucile. E i miei argomenti sono stati difficilmente contraddetti. Se mi pentissi dovrei ammettere che sarebbe stato meglio farmi i fatti miei e non voglio pensarlo.
È un periodo più adatto a ragionare che non a battagliare?
Io ho sempre combattuto facendo il mio lavoro e anche questo libro è un altro modo di esprimermi. Mi si contesta di aver esagerato, ma quando si entra nel merito nessuno mi ha dimostrato dove stava l’errore. Se ci vogliamo pentire tutti mi metto in fila, ma non credo dovrei essere fra le prime.