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Sanremo e la fine dell’idea tradizionale di canzone

La sparizione dell’armonia, il trionfo del sound design, la prevalenza della ritmica sulla melodia, le basi scarnificate, la voce al centro, l’uso pigro dell’orchestra. Un rocker alternativo alla ricerca del bello e del meno bello nei pezzi dell’ultimo Festival

Foto: Gabriella Vaghini

Il suono che gira in molto del mainstream attuale gode di un certo rispetto nei luoghi elitari dello chic-pensiero intorno alla musica. A dire il vero non son sicuro che l’effetto sbornia che ho cominciato ad avvertire una decina di anni fa o forse più sia ancora inebriante o non stia provocando più che altro un lento distacco post-hangover dei più attenti a stare sempre un passo avanti rispetto al prendere corpo di un trend ritenuto cool.

Fatto sta che ancora oggidì se uno si fa un giro nella playlist di fine anno di un sito importante e influente come Pitchfork (sempre in primo piano nel chiacchiericcio ozioso, anche e soltanto per giudicarlo male), si rende conto dalla sua mostruosa ignoranza al cospetto di almeno un 70% di nomi a lui del tutto sconosciuti e appartenenti alla sfera del pop (perlopiù mainstream) internazionale, considerati come dischi dell’anno. Lo sdoganamento di questo tipo di musica nelle élite ha fatto sì che anche fra i molti che provengono da una impostazione rock-alternative come il sottoscritto vi sia chi “ne sa”. E credo che per parlare dei pezzi di Sanremo in termini seriosi, dall’alto di qualche tipo di pulpito, serva essere un po’ attrezzati: se lo si è, si sa trovare il bello dove c’è, se c’è.

È un bello che risiede principalmente nelle sfumature che certe produzioni sanno prendere confluendo in questo piuttosto che in quello dei tanti sottogeneri che popolano il mondo dell’elettronica (sento che potrebbe non essere il termine più appropriato), e tanto più queste sfumature luccicano per qualche ingrediente ritenuto cool tanto più la valutazione sarà positiva se non ossequiosa. Per sfumature intendo nulla che abbia a che fare con la musica per come è comunemente intesa, perché nella più parte dei casi in certe produzioni (quelle sentite a Sanremo nello specifico, un buon numero di esse) l’armonia e la melodia raramente spiccano come elementi ragguardevoli o predominanti (affermazione che vale per quel che è, senza voler essere valutativa).

Armonia e melodia (quest’ultima è anche in correlazione con la forma e la struttura) sono gli elementi quintessenziali della musica, e quanto più sono poco rilevanti tanto meno, deducendo, si potrebbe parlare di musica. O meglio: certo che si potrebbe parlare di musica, perché è musica, ma non è Musica nell’opinione dei più (se la maiuscola appare altisonante potrei mettere “vera musica”, che però mi suona presuntuoso). In genere chi disprezza certe cose (tipo il rap) “argomenta” parlando di vera musica (o di Musica): ma per chiamare in causa “la vera musica-Musica” bisognerebbe saper dire qual è e perché. Tralasciando questo aspetto, che potrebbe valer la pena affrontare in un saggio di centinaia di pagine, chiedo: cosa intendo quindi con sfumature? Intendo quel non so che afferente all’ambito della coolness e del sound design.

I musicisti alternative degli anni ’80 e ’90 si ponevano in connessione con altre potenziali influenze, ma non certo con l’R&B e il soul (le eccezioni ci sono sempre). Per quel che mi riguarda, come ascoltatore rock, con l’inizio dell’avventura new wave e noise intorno ai miei 18 anni, quello che mi interessava era il rock nelle sue varie declinazioni in chiave punk e, soprattutto, post punk. Tutta la mia educazione sentimentale gravita intorno a queste atmosfere, e dell’R&B e del soul non me ne è mai fregato nulla. Però alla gente piace ballare, anche nel rock: e come biasimarla? E dunque non poteva non averla vinta alla lunga distanza questa attitude “movimentosa”, che ora impera nel mainstream internazionale con l’urban col cantato che va in direzione r&b (ovviamente non direi che questo vale per i rapper “puri”, che non cantano) e le musiche che si lasciano influenzare dal mondo del rap, con l’utilizzo sempre più connotante delle drum machine e dei campionamenti che scandalizzano molto certi musicisti o ascoltatori di impianto tradizionale. La musica diventa sempre più un fatto elettronico, e la costruzione dei pezzi passa più per campioni e breakbeat (aspetto ritmico) che non per l’ideazione di successioni di note in accordi (aspetto armonico-melodico).

Un cambio difficile da digerire da tutti coloro che sono affezionati all’idea tradizionale della musica, fatta della ricerca di una qualche armoniosità – sempre più spesso tutt’altro che originale, va detto – fra una serie di accordi in successione, e, ponendo mente alla musica classica, si può fare un paragone ragionando per estremi: da una parte la sontuosità della composizione di un pezzo di quell’area – centinaia di accordi e cambi e armonizzazioni ardite e strutture elaboratissime, talmente difficili da seguire che a apprezzarle bene servirebbe conoscere la musica al punto tale da poterne leggere e giudicare la partiture – dall’altra il “nulla musicale” dell’accordo (a volte due, raramente tre) portato avanti ostinatamente da una base che si muove solo tramite le sfumature sopraddette (colori e dinamiche) e su cui poi si innestano le voci dei performer che ci cantano sopra: strofe e ritornelli su basi sostanzialmente uguali a se stesse dall’inizio alla fine (in questo senso parlo soprattutto del mainstream di questo tipo fatto in Italia: non conosco l’analogo internazionale che impera su Pitchfork, e non credo mi interesserà mai approfondire più di tanto, avendoci già provato parecchie volte e non avendone tratto particolare beneficio). Le strofe attitudinalmente rappate, e il ritornello che cerca l’esplosione melodica, secondo uno schema ripetitivo.

Da qualche parte in cima a queste parole dicevo del bello che c’è da trovare. In questo ambito il bello non risiede più nell’originalità di una composizione che spicca per soluzioni melodiche irresistibili o per armonizzazioni non banali, ma nel modo più o meno cool di “far suonare” una base con tutti i suoi orpelli e le sue caratteristiche (spesso semplici ma significative micro-variazioni di attitude possono far nascere addirittura sottogeneri): direi che per certi versi (ragionando in termini tradizionali e rischiando di apparire come un povero vecchietto retrogrado) questo da un punto di vista creativo potrebbe sembrare un gioco al ribasso, perché si tratta di alchemizzare con le macchine i due o tre elementi portanti (gli accordi della base e la loro grana) anziché avere pensieri “geniali” intorno alla scelta degli accordi, alla loro quantità, alla loro successione, alla loro evoluzione, alla loro varietà.

Per “saperne di più” dunque, e poterne parlare in modo non dozzinale, quel che serve è avere un gusto estetico fortificato da decine di ascolti (di per sé questa frase è addirittura banale), che permetta di discernere fra i sottogeneri e cogliere la quintessenza cool di una tavolozza di piccoli ingredienti che messi insieme espongono il sound della base. I producer che creano il suono di quei due/tre accordi sono i Re Mida della riuscita di un pezzo destinato a funzionare, e il resto lo farà la voce giustapposta alle basi (strofa rappata, ritornello che cerca la melodia e mediamente alza di tono – o di un’ottava – il cantato. Poi ritorno alla base rappata e poi di nuovo ritornello che cerca la melodia. In moltissimi casi nemmeno uno special a rompere lo schema dopo il secondo ritornello).

Ora: questa appena esposta è una generalizzazione che meriterebbe tantissimi se e ma in sede di elaborazione dei distinguo. Impossibile metterli tutti: io qua sto solo cercando di analizzare un fenomeno – in che senso e per quale motivo certe produzioni mainstream internazionali e italiche piacciono anche a certe élite del giudizio critico sulla musica? – e di interpretare un mondo musicale che lascia mediamente perplessi molti fra coloro che, da ascoltatori, provengono da mondi ben diversi, in sintesi quelli che considerano la “vera musica” il rock e affini (non ci si potrebbe quasi mai mettere d’accordo per davvero su chi far star fuori e chi far star dentro in questa generica categoria, e relativizzare parlando di musica, abolendo le sentenze, è sempre cosa buona e giusta).

Se in linea astratta scegliere fra le note (nonostante siano “solo” 7, e “solo” 12 siano i semitoni), gli accordi e le armonizzazioni possibili, offre la possibilità teorica di imbattersi in numerosissime combinazioni (chiedere a Schoenberg e ai suoi tentativi di apparecchiare un mondo nuovo con la dodecafonia), e dunque, sempre in linea astratta, offre più chance di risultare “originale” rispetto al manipolare effetti su due o tre accordi per risultare fighi nel sound design (e spesso fighi lo si è veramente: io adoro ad esempio la techno. Zero Musica, e quintalate di sound design, a volte fighissimo. Azzeramento radicale delle pretese di fare canzoni, e unica volontà di far girare la testa e il corpo in un vortice tribale di rapimento alienante e affascinante), è pur vero che l’originalità compositiva in termini di scelta accordi e armonizzazioni in ambito rock e pop-rock di questi tempi è ormai quasi sempre ai minimi termini (Marlene Kuntz inclusi, ma con estrema dignità: le nostre canzoni non si fermano mai ai soliti 3/4 accordi degli standard attuali, e la loro forma la più parte delle volte non è mai realmente prevedibile dall’inizio alla fine a un primo ascolto. E poi Riccardo Tesio è un ottimo armonizzatore e tessitore di intrecci e fraseggi…), e se volete qualcosa che sia Musica realmente originale (dove il sound design non predomina e la combinazione melodia/armonizzazioni è imprevedibile) provate ad ascoltarvi The Drift di Scott Walker, primo disco “serio” che mi viene in mente: lì c’è la tanto ricercata originalità della Musica. Ma attenti: è una esperienza probante…

Tutto ciò per dire che il primeggiare del sound design rispetto alla scelta di melodia/armonizzazioni potrebbe essere semplicemente l’unica soluzione possibile per uscire dall’impasse della prevedibilità delle composizioni rock attuali (ma anche qui quanti distinguo… Che dire degli Smile e dei Radiohead? E che dire della annichilente potenza della spiritualità di Skeleton Tree e Ghosteen di Cave, che non molto hanno da offrire lato accordi/armonizzazioni, ma tantissimo hanno da dire in termini di intensità imparagonabile a tutto ciò che gira al giorno d’oggi? E sto solo accennando ai nomoni… Nel cosiddetto sottobosco ce n’è a bizzeffe per tutti i gusti e le esigenze: basta saper cercare. Ma qui stiamo girando intorno all’urban e a Sanremo, e al mainstream che spesso risulta figo anche per gli ascoltatori elitari e fighetti, cercando di capire perché: un ginepraio. Difficile uscirne senza le ossa rotte).

Ho anche utilizzato la parola pulpito intendendo alludere a una qualche competenza che serve avere se si vuole parlare dei pezzi del festival di Sanremo, la più parte figli di questo sound predominante. Il mio a tutti gli effetti non è un pulpito autorevole, anzi: non è affatto un pulpito. Non mi sono mai sentito attratto dall’R&B, e dunque per me tutto ciò che ne deriva è qualcosa che non mi accende e non mi scuote dentro. Quando le cose stanno così uno si disinteressa: ragionevole no?

E allora perché ho scritto questo articolo che si prefiggeva di parlare di Sanremo? Non lo so di preciso: ho guardato il festival quasi tutti i giorni (mai dall’inizio alla fine, e spesso annoiandomi e dunque cambiando o facendo altro) e mi è venuto voglia di capire qualcosa in più, esattamente come ho fatto guardando tutto X Factor nella sua ultima edizione. Quello che so è che di queste cose so poco, e non mi accendono. Ma so anche che fra i migliori nella folta schiera dei partecipanti il livello della performance è molto alto. È un mondo musicale votato alla competizione, Sanremo o non Sanremo, e quando è la competizione a farla da padrone l’asticella si alza.

Nell’urban sempre più spostato verso le produzioni così come ho cercato di descriverle, la specializzazione alla voce – quanto meno in quelle internazionali, dove a volte, non spessissimo, la musica non è in verità semplice e ripetitiva – diventa elemento discriminante, e il livello dei cantanti si fa qualitativamente alto: se le basi si essenzializzano in un linguaggio scarnificato nella struttura (e spesso anche negli ingredienti sonori, sempre più calibrati e ridotti al minimo), serve avere una prestazione vocale ineccepibile, perché la voce diventa molto più che un colore o quel di più aggiunto alla musica come il corpo esterno che sappiamo (per quanto decisivo, sempre), trasformandosi in un elemento che contribuisce alla natura cool della base stessa, ovvero del pezzo, il quale diventa l’occasione per mettere in mostra queste doti acquisite con abnegazione e, verosimilmente, lezioni di canto.

I cantanti che mi hanno formato come cantante a mia volta, influenzandomi (ma io so che più che un buon cantante sono un ottimo interprete delle emozioni che metto in versi), si chiamano Jeffrey Lee Pierce dei Gun Club (sentitevi se vi va un pezzo minore e magnifico dei Gun Club: Lucky Jim, cifra stilistica del mio lamento in musica), Nick Cave, Neil Young, Thurston Moore e Lee Ranaldo e Kim Gordon dei Sonic Youth, Giovanni Lindo Ferretti, Guy Kyser dei Thin White Rope, Guy Picciotto e Ian MacKaye dei Fugazi, PJ Harvey, J Mascis dei Dinosaur Jr, Simon Bonney dei Crime and The City Solution, Bob Mould degli Hüsker Dü, Paul Westerberg dei Replacements, Michael Gira degli Swans, e quello che realmente conta (o contava) nelle loro prestazioni vocali è la qualità dell’enfasi, del pathos, dell’espressività, dall’intensità, dell’attitudine rock, della rabbia, del disincanto, con un occhio non proprio di riguardo alle ricorrenti o sporadiche stonature (fra i nomi che ho messo in elenco direi che uno solo è al riparo dagli errori di questo tipo: riuscite a immaginare chi è?), e non è questa certamente la miglior scuola per imparare la pulizia e la ineccepibilità di una resa vocale che in un luogo come Sanremo si fa rilevante, se non addirittura decisiva. Non sto con questo cercando di sdoganare l’idea che il rock debba essere impreciso: troppi sono i cantanti mostruosamente bravi che mi smentirebbero, ma tanti sono anche quelli che hanno saputo imporsi per doti altre. Nel mio percorso formativo sono sempre state molto più importanti queste doti altre, e sono quelle che ho appena citato.

Io di stonature a Sanremo ne ho sentite poche, e ho visto alcune performance notevoli. Ho percepito il potenziale di macchina da guerra che si sprigiona alla creazione di questi pezzi, che hanno la sola mission di andare a prendere milioni di stream, dunque di funzionare. E funzionano (le classifiche Spotify parlano chiaro). È una competenza tutt’altro che banale, e se ce l’avessi probabilmente proverei a sfruttarla per guadagnare di più, magari anche solo scrivendo pezzi per altri.

Sottende una malizia che non ho mai saputo né voluto avere, perché idealmente quando penso (io e i Marlene) alla creazione di un pezzo, do priorità al gradiente artistico della questione, e non a quello di resa commerciale (è presente in me la consapevolezza che è meglio non commettere errori, sia chiaro, ma è più urgente il movente artistico: penso i pezzi affinché siano belli, non che funzionino. Sempre), e mi impegno a cercare le migliori soluzioni fra quelle che il mio talento mi concede, cercando se possibile l’originalità espressiva (fra i pezzi a Sanremo al giorno d’oggi credo si possa dire che l’originalità non è un valore utile: tutto converge verso un’idea di suono, di testo e di canto che sia la più funzionale possibile, sostanzialmente omologata a quello che va, e l’elemento artistico se c’è è in secondo piano).

Le performance spesso mi hanno divertito e intrattenuto, e in due occasioni mi sono emozionato. Detesto l’idea di parlare dei singoli: non lo farei di tutti, e gli esclusi potrebbero intuire (ma ovviamente non mi leggeranno) che non mi sono piaciuti. La cosa in sé non mi va: nessuno mi ha chiesto nulla, e lo stile per me non è un optional. Ma realmente in alcuni momenti ho goduto dell’abilità innegabile di certuni di mangiarsi il palco e le telecamere non solo fregandosene della loro presenza (a quello ci arrivo anche io: sono un rockettaro, e il dito medio aleggia nella mia testa sempre, se necessario), ma sfruttandoli per rendere spettacolare la propria esibizione. In diretta televisiva, davanti a una decina di milioni di ascoltatori: non male, niente male davvero.

Lato musicale ho forse lasciato a intendere che c’è poco di interessante. Ci sta, ma non ne sono sicurissimo, e molte cose sanno acchiappare senza avere la sensazione di essere al cospetto di certe merdate. Posso semmai azzardare che l’utilizzo dell’orchestra (a Sanremo è ineludibile: è una regola del gioco), su queste produzioni con uno o due accordi risulta creativamente pigra: sarebbe molto più efficace per l’originalità se si consegnassero all’orchestra partiture alternative rispetto alle solite campiture sontuose di archi che danno sì il loro colore affascinante, ma appiattiscono e uniformano la possibile originalità del sound design insito nella composizione originaria, quella che poi si sentirà nelle piattaforme.

Per chiudere non posso esimermi dal parlare di un solo evento circostanziato: Il ballo del qua qua. Penoso momento di humor italiota basico, non ricevibile da un anglosassone di analoga “levatura” in termini di successo, relativamente parlando. Anzi, ne dico un altro tornando all’orchestra: il Bolero di Ravel sotto Roberto Bolle mi è piaciuto enormemente. Anche in televisione è arrivato tutto il travolgente crescendo della partitura originale coi suoi preziosissimi colori timbrici, e mi ha fatto venir voglia di sentirlo prima o poi dal vivo.

PS: Questo articolo è stato scritto tra venerdi e ieri. A metà della sua redazione, domenica, ho mollato e sono andato a vedermi Anatomia di una caduta di Justine Triet, l’ultimo splendido vincitore a Cannes lo scorso anno. E… beh… la presenza dell’arte lì è palpabile e necessaria, primeggia, rapisce, intriga, commuove, emoziona, e la differenza con l’idea di una produzione votata a funzionare (musica o cinema che sia) mette fra l’uno e l’altra, sette-otto volte su dieci, un abisso concreto di differenza di valore. Così come se uno si va a vedere Perfect Days di Wenders, per dire. Arte a un livello più alto, molto più alto.

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