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Scoprire Neil Young a 14 anni ti cambia la vita

Cristiano Godano racconta il primo incontro coi dischi del canadese, l’incedere malinconico della musica, l’affascinante figura di solitario conclamato, l’intransigenza. Oggi ne interpreta il repertorio folk con Alessandro “Asso” Stefana. L’arte di suonare in modo intenso con note appena sfiorate

Foto: Michele Piazza (1), Frazer Harrison/Getty Images (2)

Neil Young è stato il mio primo idolo rock in assoluto. L’ho scoperto intorno ai miei 14 anni quando con la mia mamma si andava a trovare la sua, che era la mia nonna. Vivevo a Fossano (CN) e la mia nonna viveva a Canale d’Alba (sempre in provincia di Cuneo, capitale del Roero, regione collinare al di qua-al di là del Tanaro che da sempre patisce la competizione, perdente, con le sontuose Langhe, patrimonio dell’Unesco. Se i roerini si vantano del loro Arneis, i langaroli esibiscono sul tavolo da gioco – o per meglio dire della sala da pranzo – una cinquina imbattibile: Dolcetto, Barbera, Nebbiolo, Barbaresco, Barolo).

L’ho raccontato molte volte, ma è per me sempre intenso il ricordo di quell’istante preciso in cui, entrati a casa della sorella di mia nonna (la mia prozia) per il solito momento rituale della visita a tutti i parenti da parte di mamma, mi fiondavo nel salone per dirigermi al mobile piuttosto alto dove due file di 33 giri stavano in piedi uno addossato all’altro e tutti insieme addossati alla parete. Era la piccola collezione dei cugini di mia madre, giovani contestatori dell’epoca (così venivano chiamati gli alternativi in quel periodo, fine anni ’70, ragazzi che manifestavano per la famosa accoppiata peace and love, cantavano le canzoni di protesta contro la guerra in Vietnam, e giravano a piedi nudi nell’erba fresca, con fiori colorati fra i capelli o nelle canne delle pistole e dei fucili dei militari schierati).

In quelle due file c’era tutto quel che serviva a definire etica e estetica di appartenenza alla categoria sopraddetta: non c’erano chicche underground o tesori di nicchia sconosciuti, ma, per quel che ricordo, tutti quei nomi che andavano per la maggiore fra i giovani non mainstream dell’epoca, fra cui la West Coast americana e, più in generale, la musica di protesta (Jefferson Airplane, Grateful Dead, Buffalo Springfield, Byrds, James Taylor, Joan Baez, Joni Mitchell, Jackson Browne, Eagles, Dan Fogelberg, gli immancabili Inti-Illimani, Bob Dylan…), altre band di vario tipo e estrazione (i Jethro Tull, i fantastici Who, i Rolling Stones, i Genesis e chissà quali altri), e i cantautori d’obbligo italiani (Pierangelo Bertoli e Claudio Lolli più marcatamente contestatori, insieme a De Andrè, Guccini, De Gregori, Rino Gaetano che sporadicamente affrontavano temi sociali. Non ricordo fra questi, incidentalmente, la presenza di Ivan Della Mea, super politicizzato, ma magari mi sbaglio). E poi per l’appunto Lui, nella sua versione solitaria o insieme a Crosby, Stills e Nash, in quel disco da brivido che è Déjà Vu. Era un momento rituale nella ritualità delle varie visite, lo ripetevo costantemente, e non so immaginare quante volte io abbia visto e rivisto quelle copertine così suggestive e ricche di possibili immagini a sostegno di una fantasia vergine, vogliosa di farsi impressionare da più input possibili. Stava nascendo il me appassionato di musica da cercare e non da subire, che è quella destinata a tutti coloro che non nutrono un particolare amore nei riguardi di quest’arte se non nei termini di un gradimento generico, in virtù del quale si ascolta ciò che passa il convento (un tempo le radio, ora le playlist).

Cosa mi fece innamorare di lui in questo modo così intenso al punto di diventarne precocemente un fan? Tanti altri musicisti o band scoperti grazie ai preziosi cugini mi piacevano, ma di lui subivo il fascino, quel non so che che la sua figura di solitario conclamato mi rendeva eccezionale. Mi viene in mente una foto in particolare di mio padre: una foto curiosa in cui simulava con la nocca dell’indice il toc-toc che sembrava star per fare a una porta (curiosamente la porta di ingresso nella casa di mia nonna di Canale!). Era vestito con un efficace abito nero (il bottone superiore abbottonato, l’inferiore no), la camica bianca e una cravatta anch’essa nera. Alto, magro, capelli corvini, corti e impomatati, occhiali da vista con spessa montatura, in un ritratto in b/n che inscenava un possibile mistero. Quello che mi procurava suggestioni potenti era il fatto che mi sembrasse una figura solitaria: tanto mi affascinava quanto mi immalinconiva, quella sua espressione apparentemente perduta di un essere abbandonato a se stesso. Non era così nella realtà, ma alla mia immaginazione piaceva vederla in questo modo, ed evidentemente, tornando al grande Neil, la condizione del loner mi era congeniale (per chi ha voglia e non la conosce consiglio di guardarsi la copertina di On the Beach, uno dei tre album album della cosiddetta trilogia del dolore: una spiaggia con di fronte un mare appesantito da un cielo bianco malato, due poltroncine dal tessuto floreale e un ombrellone nel mezzo, dominati dal colore giallo, il culo – giallo anch’esso – di una cadillac insabbiata, un quotidiano sulla sabbia, una sdraio vicino alla battigia (pendant con le poltroncine), e di fianco alla sdraio lui di schiena con le mani in tasca a contemplare il mare, giacca gialla e pantaloni bianchi. Esattamente come nella fotografia di mio padre, un uomo apparentemente dimesso e solitario comunica una sensazione di introversione e introspezione, confermando appieno una mia evidente fascinazione).

Mi ritrovo ora con la memoria sui miei 16 anni, intento a costruire uno di quegli aeroplanini di plastica sminuzzati nelle sue piccole componenti raccolte nelle confezioni dei modellini (i kit di montaggio): era il mio hobby del momento. E quanta delizia mi procurava la colonna sonora di Rust Never Sleeps, che in sottofondo accompagnava le mie premure di assemblatore dilettante! Ancora ora Pocahontas pare risuonarmi dentro con quell’incedere malinconico che è un tratto fondante della poetica del canadese.

Da lì in avanti mi accaparrai molte sue cose fino a quando la scoperta mozzafiato di Rockerilla (con tutti quegli incredibili nomi a me sconosciuti della new wave, del punk e del post-punk che divennero gli eroi del mio nuovo percorso immaginativo) mi distolse l’attenzione senza riuscire però a scalzarlo dal podio sul quale risiede tuttora insieme ai Sonic Youth e a Nick Cave. I miei suoi dischi preferiti divennero, oltre al già citato Rust Never Sleeps, Harvest, Comes a Time, After the Gold Rush, Zuma, America Stars ’n’ Bars, On the Beach, Hawks and Doves (piuttosto maltrattato dalla critica, secondo me ingiustamente, contiene alcune perle – The Old Homestead, Captain Kennedy, Little Wing – che condensano il suo sound a me preferito, con quel bpm di trascinata malinconia ottenuto da una mano destra dalla ritmica prodigiosa), e tutto il resto a seguire dei suoi must del periodo più creativamente florido (sia chiaro: non l’ho quasi mai mollato, cercando di seguire anche la sua folta produzione recente, a volte approssimativa dal punto di vista della produzione… Ma Neil Young è anche e soprattutto questo, un artista che mai si è piegato alle regole più vincolanti del commercio, preferendo la naïveté della parte emotiva dell’espressività al calcolo delle mosse strategiche pensate per non essere mai sbagliate. Non che non gli piacessero i soldi – penso ne abbia guadagnati a caterve, e penso gli sia piaciuto eccome – ma mai è parso essere ingordo e votato a una sete di accumulo morbosa. Prima la sua arte, poi i soldi).

Asso è un chitarrista italiano, di Brescia per la precisione. È in pianta stabile con Vinicio Capossela da tempo, e ha al suo attivo altre collaborazioni notevoli: su tutte un tour intero nella band di PJ Harvey, quello di The Hope Six Demolition Project. Vidi lui e Enrico Gabrielli, anch’egli nella band, al Todays Festival di Torino, quando la Harvey fece un concerto di memorabile precisione e raffinatezza. Parlammo qualche secondo dopo la fine del set, e poi ebbi il piacere di perdermi in chiacchiere con Mick Harvey (omonimia del tutto accidentale), piacevolmente simpatico e piacevolmente ebbro, prodigo di amabili racconti e aneddoti che a un certo punto riguardarono l’altro mio mito, Nick Cave, di cui Mick fu sodale per almeno una trentina d’anni.

Asso poi me lo ritrovai nel team di produzione del nostro ultimo disco, Karma Clima, insieme con Taketo Gohara e Nick Fornabaio (a livello cronologico siamo a due anni e mezzo fa circa). Passammo finalmente più tempo insieme, e venne la volta in cui io e lui, di rientro dal relax post-sessione quotidiana, ci mettemmo a confabulare dei nostri amori in musica. Scoprii che anche lui era un super fan di Neil Young, e da lì nacque un inviluppo di emozioni crescenti nel condividere gli stessi gusti sulle sue canzoni preferite.

Fu lui a un certo punto ad avere l’idea brillante: perché non mettiamo in piedi qualche suo pezzo e non li suoniamo una sera di queste al bar dei locali del Baladin? (Eravamo a Piozzo, in provincia di Cuneo, dove è nata la birra artigianale che porta quel nome). E il giorno seguente eravamo già lì, a sfruttare l’oretta di pausa e a tirar giù Comes a Time, Goin’ Back, Heart of Gold, Harvest e Out on the Weekend: tre sere dopo avremmo fatto quell’esibizione pubblica per alcuni amici coinvolti. Grazie a quella non ci volle molto a immaginare un tour nei teatri con una scaletta più densa. Ed è così che ci siamo ritrovati questa estate, non nei teatri ma nei luoghi all’aperto, a fare una dozzina di concerti entusiasmanti.

Ed è così che in questo inizio 2024 una appendice di tre date in teatro (il 1° febbraio, giovedì, a Prato, al Teatro Garibaldi, il 2 a Piangipane in provincia di Ravenna, al Teatro Sociale, il 3 a Perugia all’Auditorium San Francesco al Prato: tutti e tre bellissimi) ci permette di riagguantare quel feeling abbandonato a settembre con l’ultima data della dozzina, guarda caso proprio al Baladin di Piozzo, dove tutto era cominciato.

Suoniamo pezzi scelti in un arco di tempo fra il 1970 e il 1992, ovvero tra After the Gold Rush e Harvest Moon, perché la sua produzione è letteralmente sterminata e fare delle scelte è un atto quasi doloroso che contempla rinunce capitali (c’è anche che, semplificando il concetto, la produzione degli anni 2000 – che contempla una ventina di titoli… avete letto bene – è molto poco cagata dai più, che dunque non la conoscono). Sono tutti pezzi provenienti dal lato folk del canadese, accantonando dunque la sua produzione elettrica per motivi pratici di allestimento set e per gusto estetico, perché alla fin fine io e Asso amiamo un pelo di più il suo lato intimista.

Lo scopo principale di questo concerto, che è un atto d’amore verso di lui, è provare soddisfazione estetica nel suonare in quel certo modo che è nelle nostre dita, nelle nostre menti e nei nostri cuori, e che ci scalda e regala soddisfazioni. Nonostante quello che possa sembrare, anche il suo timbro vocale mi è “dentro”, incluso quel suo simil-falsetto – che secondo me non lo è, ma la questione tra chi ne parla è apertissima e a quel che ne so irrisolta – e ci sono i cantati di alcune canzoni dei Marlene che a ben ascoltarle dovrebbero far intuire la provenienza delle mie fascinazioni (penso in questo momento a Ineluttabile e a La canzone che scrivo per te). È un elemento di maturità il saper generare forti intensità con note appena sfiorate: quando hai passato una fetta importante del tuo percorso di performer scaricando sulla gente energia elettrica isterica, non hai facilmente a disposizione gli strumenti per sprigionare potere con l’opposto dell’isteria, che è la calma della consapevolezza e la sicurezza di saper emozionare anche sussurrando. Che poi, a pensarci bene, un sussurro recepito nel modo giusto è pura, erotica emozione: pensate a voi stessi in qualità di partner in un amplesso, e ditemi se certe soffuse parole nelle vostre orecchie non sono inebrianti!

Io penso che noi si riesca a donare quel tipo di emozioni che cerchiamo anche per noi stessi: un brivido di eccitazione implosiva che percepiamo assimilato dagli ascoltatori e dai loro silenzi assordanti, complici in questa ricerca di assoluta densità estetico-spirituale.

Lascio qua alcuni essenziali estratti, e rimarchevoli, dai testi di alcuni pezzi che sono in scaletta, senza dirne il titolo: un modo giocoso per spoilerare con garbo e mistero nei confronti di chi si stesse lasciando incuriosire dall’idea di venire al concerto (due o tre, direi, sono facili, gli altri forse no…).

– “Sono sceso giù per la strada, avevo fame di solitudine… A un certo punto mi fermerò, troverò delle uove fritte e del buon prosciutto e cercherò un luogo dove a nessuno importi chi sono”.
– “Pensavo ai giorni passati insieme: alcuni furono ottimi, altri pessimi. Chitarre in lotta contro la tv… Bastava guardarti la scorsa notte mentre ballavi nelle luce serale: il vero amore conquista tutto”.
– “C’è chi è destinato alla felicità, chi alla gloria. Alcuni invece vivono con poco… Cosa si potrà dire a proposito di te?”.
– “Viene il tempo in cui vai alla deriva, e viene il tempo in cui ti calmi. Giunge una luce, i tuoi sentimenti si accendono”.
– “Indifeso, sono indifeso: piccola puoi sentirmi ora? Le catene sono serrate e strette alla porta: amore, canta con me in qualche modo”.
– “La ami così tanto e ancora sai che non la lascerai andare via, a meno di non lasciarla per primo tu, per risultare il vincitore. Ma c’è una cosa che ancora ti manca: la pace interiore, come quando la trattavi bene”.
– “Ancora sfolgorante delle luci della città salii fino in paradiso, incapace di scendere per ragioni che avevo ignorato”.
– “Vecchio, guarda la mia vita, somiglio molto a te. Ho bisogno di qualcuno che mi ami tutto il giorno. Un solo sguardo nei miei occhi e capirai che è vero”.
– “Così tutti voi critici sedete da soli: non siete meglio di me per quello che avete fatto”.

E per chiudere un link per i più curiosi e zelanti: provate a leggervi il suo contenuto con attenzione, e lasciatevi impressionare dalla mole abnorme di cose fatte in vita da quest’uomo inarrestabile, anche contro le assurde avversità subite. E complimenti all’autore dell’articolo: ci vuole una certa amorevole dedizione per raccogliere e ordinare – aggratis – tutte quelle informazioni…

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