Daddy issues. Due parole che bastano ad evocare una lunga serie di immagini e sottointesi, dai meme di scarsa qualità sulle ragazze promiscue ai complessi teorizzati da Freud il secolo scorso. Se alla teoria secondo la quale le figlie, in assenza di una forte figura paterna nella propria vita, cercherebbero continuamente conferme esterne – sotto forma di attenzioni, cibo, droghe, sesso – prestiamo molta poca attenzione al rovescio della medaglia.
La ricercatrice Katherine Angel, specializzata in storia della psichiatria e della sessualità, nel proprio libro più recente, Bella di papà (Blackie Edizioni, 2021), li chiama “i daughter issues dei padri”. Nell’arco di un centinaio di pagine, balzando di esempio in esempio tra film, libri e attualità, Angel tratteggia il ritratto di una società in cui la possessività paterna nei confronti delle figlie e la conseguente ostilità nei confronti degli uomini che “competono” con lui per le loro attenzioni sono talmente naturali da non meritare discussione.
Che si tratti dei commenti apertamente sessuali di Donald Trump nei confronti di Ivanka o di commedie come Il padre della sposa, in cui il padre non riesce ad immaginare la vita senza la figlia prediletta e non la vuole vedere crescere, Angel si assume allora il compito di osservare al microscopio una questione relegata, altrimenti, alla sfera privata. Ne abbiamo parlato con lei.
Come scrivi nel libro, il concetto di patriarcato è tornato al centro del discorso femminista – e, sempre più, del dibattito pubblico – negli ultimi anni. Questo ha influenzato la tua decisione di scrivere un libro sui rapporti padre-figlia?
Scrivo di femminismo da un po’ di tempo ormai, ma non avevo pensato di scrivere di padri e figlie fino al movimento #MeToo del 2017-2018, quando ho iniziato a notare quanto poco si parlasse del ruolo paterno degli uomini che abusano del loro potere sul posto di lavoro come padri. È stato allora che ho iniziato a chiedermi se il femminismo negli ultimi cinque o dieci anni stesse a sua volta restando in qualche modo in silenzio sui padri. Come se i legami tra il pubblico e il privato, a cui il femminismo si è interessato per tanto tempo, fossero stati interrotti.
Pensi che questo ritorno a una concezione più sistemica dell’oppressione abbia, in un certo senso, dato un po’ di tregua alla figura del padre? In altre parole, sta distogliendo l’attenzione dal buon vecchio “il personale è politico”?
Non ne sono sicura, ma di certo penso che, se si vuole evitare di pensare specificamente agli individui, parlare in termini di strutture può aiutare a farlo. Tuttavia non è inevitabile: credo fermamente che si possa al contempo pensare alla disuguaglianza strutturale e agli individui in tutta la loro specificità. Penso, tuttavia, che sia difficile pensare alla propria parte all’interno di strutture più grandi – è difficile pensare alla propria famiglia, al proprio ruolo di genitore, figlio, padre, figlia, madre. Anche il mio libro in un certo senso non parla realmente di singoli padri, ma delle narrazioni che culturalmente raccontiamo sui padri.
Nel tuo libro esplori l’evoluzione della figura del padre nella cultura – che si tratti di letteratura, film o TV – nel corso dei decenni da una prospettiva psicologica e femminista. C’è qualche archetipo storico che potresti dire con sicurezza che abbiamo superato? Quali, invece, sono ancora particolarmente rilevanti?
Penso che le forme più evidenti di paternalismo siano più difficili da ritrarre di quanto non lo fossero in passato: penso ai padri che vietano in maniera assoluta alle figlie il diritto di scegliere un partner sessuale, o una carriera, e così via. Ma penso che questa struttura sia ancora presente, in modo più sottile, in tutti quei tipi di narrazione in cui l’ostilità di un padre verso il partner sessuale di una figlia è data per scontata. Un archetipo che trovo estremamente inquietante perché, sebbene i padri possano voler proteggere le loro figlie, questa posizione consente loro anche di esprimere una proprietà delle figlie. E ignora i desideri, l’autonomia e le scelte di una ragazza. Naturalizzando, nel processo, una rappresentazione dei ragazzi come sfruttatori, rapaci, coercitivi. Non dovremmo cercare di non mostrare questi archetipi come inevitabili?
Nel libro dedichi molto spazio e riflessione sul modo oggettivamente strano in cui noi, come società, abbiamo normalizzato l’idea che i padri abbiano il diritto di provare gelosia sessuale nei confronti delle loro figlie, specialmente quando non è inserita all’interno di una storia di incesto o abuso. Quella del padre che protegge sua figlia è una dinamica estremamente comune – ma cosa dice di noi come società?
Capisco che i padri si sentano protettivi nei confronti delle loro figlie – e ovviamente sappiamo tutti che il mondo non è un posto sicuro per le donne, che nel peggiore dei casi rischiano di essere aggredite e nel migliore di subire pressioni e invadenza. Pertanto, vogliamo tutti trovare modi per proteggere donne e ragazze, e questo ha assolutamente senso. Quello a cui penso che dobbiamo stare davvero attenti è che, con il pretesto della protezione, possiamo finire per normalizzare una restrizione sul comportamento delle donne e una censura dei loro desideri. Le donne devono gestire il rischio di violenza sessuale; ma spesso, i modi in cui le incoraggiamo a farlo – a fare attenzione nelle loro scelte – si intrecciano con un disagio rispetto alla sessualità femminile; con il desiderio di esercitare un controllo sulle donne. Penso che per i genitori la questione della sessualità emergente dei loro figli sia inevitabilmente complicata. Ma ho scritto il libro anche in parte perché desideravo distogliere l’attenzione dalle scelte sessuali delle donne – che, culturalmente, siamo molto incoraggiate a scrutare e giudicare – e di pensare alle norme sulla sessualità femminile che vengono codificate attraverso le nostre storie su comportamento dei padri nei confronti delle figlie.
Negli ultimi dieci anni, una delle forme che ha assunto l’anti-femminismo è quella dei “movimenti per i diritti degli uomini”, che spesso si concentrano ossessivamente sul maltrattamento e sull’impotenza dei padri all’interno dei nuclei familiari eteronormativi contemporanei. Cosa ne pensi?
Penso che ci siano due cose da dire al riguardo. In primo luogo, le narrazioni che gli attivisti per i diritti degli uomini raccontano sui loro maltrattamenti e il senso di impotenza si attaccano alle questioni sbagliate. Gli uomini esercitano ancora un potere sociale, culturale ed economico di gran lunga maggiore rispetto alle donne, e le donne sopportano in modo sproporzionato il peso della violenza, della privazione, della vulnerabilità economica, della precarietà, del lavoro a basso salario e così via. In secondo luogo, tuttavia, il fatto che gli uomini si sentano offesi in questo modo è importante, in quanto ci indica qualcosa su cui sarebbe importante riflettere. La loro rabbia si scaglia contro le donne perché le donne sono sempre state il capro espiatorio delle infelicità nelle società e perché può essere allettante individuarle come fonte di tutti i problemi. Ma i loro sentimenti di impotenza e maltrattamento potrebbero riguardare altre questioni cruciali: il deterioramento delle condizioni di lavoro, gli effetti delle crisi economiche, la precarietà salariale, il declino della qualità della vita e così via. Penso che dovremmo prendere sul serio questo tipo di rabbia maschile, ma non dovremmo prenderla in termini di ciò che questi uomini stessi considerano la colpa della loro infelicità.
All’altra estremità dello spettro, come scrivi nel libro, i “bravi padri” sono costantemente elogiati per aver fatto il minimo indispensabile, che si tratti di “aiutare” con i bambini o di “fare da babysitter”. Le politiche che garantiscono i congedi di paternità possono aiutare a superare questa retorica?
Le aspettative per uomini e donne in termini di lavoro di cura differiscono enormemente. Il lavoro delle donne, spesso estenuante, e il doversi giostrare tra genitorialità, lavoro e cura dei parenti sono visti come una parte naturale dei loro ruoli di genere. Questo lavoro è spesso sentimentalizzato e romanticizzato, senza essere adeguatamente sostenuto dallo Stato. Penso che le politiche dovrebbero assolutamente supportare e facilitare i ruoli genitoriali degli uomini attraverso il congedo di paternità, oltre a fornire supporto alle donne per combinare la genitorialità con il lavoro. Gli individui possono e devono essere sempre in grado di fare scelte su come allevare i figli, ma dovrebbero essere in grado di fare tali scelte all’interno di una struttura di sostegno e investimento statale.
In conclusione, c’è qualche aspetto chiave del libro su cui vuoi soffermarti?
Ho scoperto che Bella di papà può essere una lettura piuttosto inquietante per le persone! Me l’hanno detto in molti, sia uomini che donne. Penso che sia davvero importante esaminare degli aspetti della cultura che sono quasi scontati, a cui non pensiamo consapevolmente. Questo non è un libro sui singoli padri, o qualsiasi tipo di istruzione o consiglio o ammonimento. È il mio modo di pensare alle storie culturali su uomini e donne, padri e figlie, e quali conseguenze non intenzionali o effetti imprevedibili potrebbero avere.