Il film che io dedico alla Scala vede nel cast artisti fra i più grandi del pianeta. Arriva il momento in cui presento uno di questi artisti: «È nata a Milano, si è formata alla scuola della Scala, ha esordito alla Scala, ed è diventata un’étoile, una delle più grandi danzatrici del mondo». Una definizione che potrebbe essere attribuita, come un copia-incolla, all’ultima protagonista della mia rubrica, Carla Fracci. In realtà trattasi di Luciana Savignano. Mi è capitato di frequentarla più volte e dico che il suo talento di artista è tattile anche se ti sta accanto senza muoversi. Così come il suo charme di donna. La storia iniziale delle nostre magiche danzatrici può essere la stessa, ma il loro stile è molto diverso. E siamo comunque nella parte più nobile della danza, che “queste due” milanesi hanno trasferito nella dimensione del sortilegio e della grazia un po’ al di là dall’essere umana.
È proprio Luciana, nel film, a raccontare se stessa. E dunque… chi meglio di lei? «Io sono un essere che ha avuto la fortuna di nascere a Milano, soprattutto ha avuto la fortuna di far parte del mondo del teatro, in quel meraviglioso teatro che è la Scala. Ho amato la Scala, ho amato le persone che ne facevano parte e ce n’è una in particolare verso la quale ho un affetto incredibile. È Paolo Grassi, una persona straordinaria, un sovrintendente che ha diretto la Scala in una maniera magica, irripetibile oserei dire. Con lui la Scala ha toccato dei livelli altissimi, questo almeno è come la penso io. Ha creduto molto in me e io a mia volta ho sempre cercato di essere all’altezza della situazione, all’altezza del compito che mi proponeva. Ho avuto la fortuna di ballare Il lago dei cigni, belletto che forse non tutti pensavano che fosse adatto a me, ma Grassi ha detto no, Luciana deve ballare questo balletto, e io lo feci ed è stato per me un trampolino di lancio perché mi ha fatto conoscere altre persone, ne cito una fra le tante: Béjart. Ho conosciuto tanti artisti. E il mio percorso è sempre continuato sulla scia della Scala. Mi allontanavo, ma tornavo sempre a casa, perché per me era importante avere un punto di riferimento, un punto che mi sentivo di non dover tradire mai. Molti mi dicevano: ma perché non te ne vai? No, io non sono mai andata via dalla Scala».
Béjart, citato dalla Savignano, non è nome casuale. È stato lui a intuire nel profondo le impressionanti possibilità della danzatrice e a perfezionarne i registri e il temperamento. Luciana trasmetteva un’immagine indecifrabile, misteriosa, sensuale, sostenuta da una plasticità che era un unicum e continua a rappresentare il modello della danzatrice moderna, lontana dall’archetipo romantico della Fracci, per intenderci. Memorabile è la sua Nona sinfonia firmata dal coreografo marsigliese, che fece di Luciana il suo testimone e la sua eroina.
Le scrisse addosso spettacoli come Symphonie pour un homme seul, La luna, Romeo e Giulietta. Soprattutto il magico Bolero che Savignano avrebbe fatto suo, assumendone la paternità come nessuno prima e dopo di lei. Ma non solo Béjart. Tutti i grandi coreografi l’hanno chiamata e tutti i maggiori teatri l’hanno ospitata, dal Bol’šoj al Metropolitan al Pier Lombardo. E poi i partner: tutti i più grandi, da Nureyev a Baryšnikov.
Fra i miei ricordi più belli c’è l’inaugurazione a un’anteprima della Scala. Sul palco Lucia Savignano e… io. L’orchestra intonò il valzer di Verdi del Gattopardo. Quello che ballano Burt Lancaster e Claudia Cardinale. Luciana mi disse: «Balleresti con me?». C’era tanto pubblico e non mancavano alcuni miei editori. Dissi: «A costo di una figura devastante, come posso rifiutare…. Magari qualcuno qui in platea non mi rinnoverà il contratto. Ma che importa. Sul mio epitaffio chiederò di scrivere: egli danzò con Luciana Savignano».