Un’impresa alchemica: la trasformazione della parola in didascalia. Instagram ci ha messo dieci anni per completare questa reductio ad didam. Non è vero che si legge poco: non si è mai letto tanto quanto adesso. Viviamo con la testa ripiegata sullo schermo, a leggiucchiare e spulciare le parole degli altri. Ma non leggiamo più pagine o capitoli, leggiamo didascalie. La didascalia è il genere letterario più fortunato del ventunesimo secolo. Gli stessi articoli di giornale la scimmiottano, tra le righe si scusano di richiedere più concentrazione rispetto al Nuovo Canone.
Le divoriamo una dietro l’altra. Chi è ritratto nella foto, dov’è stata scattata, quando, gli hashtag di riferimento. Ci siamo disabituati a zuppe e bistecche, le didascalie sono i finger food della cultura. Ne prendi una al volo dal vassoio e intanto continui a blaterare e a guardarti attorno. Non siamo più capaci di digerire un testo che superi le due o trecento parole. Perché poi ce n’è un altro, e poi un altro, e poi un altro. Il testo che ci interessa di più è ogni volta quello-che-viene-dopo. O più in basso – e scrolliamo ancora. Parliamo con la bocca piena, leggiamo con gli occhi pieni.
Già ci aveva provato Twitter, col suo limite di caratteri, a immaginare il verbo a misura di social – il cui nemico resta la complessità. Eppure, nonostante sia l’hobby preferito del presidente americano, Twitter è sempre più una piccola ma presuntuosissima arena in cui si scontrano piccole ma agguerritissime bande. Un ghetto dove si legge Freud. Qui gli utenti devono dimostrare di essere dalla parte del Bene. Non è semplice. Così il limite di battute è passato da 140 a 280. Ora si può analizzare con più dovizia di particolari perché io sono giusto e tu sbagliato. Poi alziamo lo sguardo e vediamo che il mondo va da tutt’altra parte e allora torniamo su Twitter ancora più incazzati ma con i prossimi 280 caratteri costringeremo finalmente il pianeta a girare in senso orario, o almeno a idolatrarci.
Su Instagram non si assiste allo stesso scontro tra bande armate di link. Qui la polarizzazione della nostra società è disinnescata. Perché su Instagram non dobbiamo dimostrare di stare dalla parte del Bene, ma da quella del Bello. Se io ho ragione, tu hai torto. Ma, se io sono bello, nulla vieta che sia bello pure tu. Instagram fa sembrare l’estetica più tollerante dell’etica. L’aforisma è il modello di Twitter, l’autoritratto è il modello di Instagram. E l’autoritratto ha vinto. Perché il selfie è l’essenza della nostra contemporaneità, puro distillato di narcisismo, una tautologia in pixel, io-sono-questo-e-sono-bello. Come scrivere su Twitter, unicamente e ossessivamente: Io ho ragione. Per mostrarci migliori su Instagram non saremmo nemmeno obbligati a pescare una citazione da aforismi.com, basta un filtro.
Il guaio è che l’estetica è magnanima solo in apparenza. Qui lo scontro è indiretto: su Instagram lo scontro è riscontro di like. La guerra di cinguettii diventa guerriglia silenziosa. Ma tanto sfibrante per la nostra quotidianità e tanto invalidante per la nostra psicologia che perfino i gestori del social hanno deciso di oscurare il numero di cuoricini. Come se noi a questo punto non scrollassimo i mi piace dei nostri avversari per confrontare le lunghezze delle rispettive liste. Si va a occhio, un tanto al centimetro. “Vedi? Tre colpi di pollice e i suoi like sono già finiti. Ha comprato dei follower”. L’anatema.
L’introduzione delle storie ha ritagliato una zona franca di onestà. Nelle storie siamo un po’ più autentici. Perché tra 24 ore scompariranno e la nostra autenticità è un vasetto di yogurt con la data di scadenza. I litigi non possono che avvenire in privato, non siamo esposti al pubblico ludibrio, alla gogna, alla metastasi di commenti, al branco tradotto in codice alfanumerico. E dunque, là fuori, nella nostra bacheca, diamo l’impressione di un’identità unanimemente accettata. La dialettica trova la propria pacificazione in un logo che sfuma senza traumi dall’arancione al viola. E la didascalia è l’iscrizione sul piedistallo della statua di noi stessi: il selfie in cui s’incarna lo spirito del mondo.