Scaviamo cunicoli circolari su Instagram premendo il + ai piedi della nostra foto profilo. Ci inoltriamo nel sottosuolo dei social, le storie, e da lì combattiamo segretamente la battaglia per la nostra individualità a colpi di foto, filmati e scritte in sovraimpressione di cui dopo un giorno non rimarrà traccia. Attacchiamo e ci ritiriamo. Attacchiamo e ci ritiriamo. È la nostra guerriglia per l’imperfezione. Siamo i vietcong del cyberspazio.
Nel suo libro Bianco (Einaudi), Bret Easton Ellis analizza il conformismo della società digitale. “La new economy dipende dal fatto che ciascuno mantenga un atteggiamento reverenzialmente cauto e assai pratico: tieni chiuse la bocca e le gambe, sii umile e non avere altre opinioni se non quelle espresse in quel momento dal pensiero di gruppo più diffuso, cazzo. L’economia della reputazione è un altro esempio di come la nostra cultura venga resa insipida.(…) Ciò che le persone sembrano dimenticare (…) è che l’autoaffermazione non deriva dal mettere un “mi piace” a questo e quello, ma dall’essere fedele al tuo incasinato e contraddittorio io (…) Il crimine più grande commesso in questo nuovo mondo è quello di stroncare la passione e ridurre al silenzio l’individuo”.
Sui social network, così come nei programmi comici o in qualsiasi espressione creativa, non si può più scherzare, smitizzare, osare, offendere. Sembra che la gente non aspetti altro, che offendersi. Per muoversi nel consorzio umano bastano ormai due dita: il pollice per scorrere la bacheca e l’indice che si tende piccato. La permalosità elevata a valore supremo. Ma un’opera che non offende nessuno è un’opera inoffensiva. Mentre l’arte, secondo l’autore, dovrebbe proprio sconvolgere certezze individuali e status quo generale.
Rispetto a dieci anni fa le persone non sono realmente più positive, giuste, buone, tolleranti. Recitano. Recitano la commedia della positività e della giustizia per essere accettate dagli altri commedianti. Lo dimostra il fatto che non appena venga espressa un’opinione contraria all’etica dominante in un certo gruppo, in una certa bolla, questa opinione è subito criminalizzata. Là dove solo lo sforzo di mettersi nella testa degli altri e di pensare a oltranza contro se stessi ci abitua all’empatia, e quindi alla tolleranza. “Ma oggi come oggi la gente scambia di continuo i pensieri e le opinioni per veri crimini. I sentimenti non sono fatti e le opinioni non sono crimini e le scelte estetiche contano ancora (…). Ma le opinioni possono anche cambiare, sebbene, stando ai social, pare debbano essere eterne”.
E qui l’autore di American Psycho dimostra la sua distanza dalla Generazione Inetti, come definisce i Millennial: non tutti i contenuti dei social sono eterni, non tutti fluttueranno nello spazio virtuale anche quando lo spazio fisico si sarà completamente raffreddato e l’entropia regnerà sovrana e ogni commentatore permaloso si sarà estinto da miliardi di anni. Nonostante i suoi 36.500 seguaci su Instagram, Ellis non ha capito il perché del successo delle stories, evidentemente architettate dai demiurghi dei social per evitare una fuga di massa dal loro mondo presidiato dalla psico-polizia (anzi, dalle psico-guardie-volontarie). Le storie hanno successo perché sono impermanenti. Questa transitorietà ci libera dalla paranoia: non saremo esclusi a vita dal gruppo di cui vogliamo far parte anche se commettiamo ciò che quel gruppo ritiene un imperdonabile errore. Immagini e brevi video destinati a scomparire nel nulla dopo 24 ore, dove si è tutto tranne che reverenzialmente cauti, dove la bocca e le gambe si aprono eccome. La propria autentica visione del mondo è per forza di cose il frutto non clonabile delle innumerevoli contingenze che costituiscono la biografia individuale. Il conformismo è dunque una violenza contro se stessi. Ma, per quanto scodinzoliamo, non possiamo essere ammaestrati fino in fondo a furia di biscottini marca Like.
Instagram ha spazzato la polvere d’individuo sotto il tappeto della volatilità. Per scongiurare la schizofrenia, abbiamo a disposizione un palcoscenico in cui muoverci e parlare senza maschera. Le storie di Instagram sono le prove generali del grande spettacolo dei social network. Nelle storie, almeno in potenza, possiamo improvvisare, andare a braccio, esprimere quello che ci passa per la testa davvero. I successivi commenti, badate bene: privati, misureranno la tollerabilità dell’immagine che stiamo offrendo di noi. Una battuta che trasgredisce il più o meno tacito codice etico della nostra particolare rete di contatti, una scorrettezza, una bestemmia contro il dio che troneggia nel nostro sistema di amicizie virtuali, una provocazione, uno spillo che minaccia di bucare la bolla. Poi decideremo se uscire allo scoperto nel campo di battaglia dei post ed esporci ai carri armati della morale.
In questa guerra fredda tra diversi conformismi, i loro rispettivi guardiani potranno sempre scattare una foto alla storia – screenshottarla – e calcificare l’impermanenza. Diffonderla urbi et orbi per provare quanto noi siamo mostruosi, trasformare la leggerezza di un contenuto destinato al seppuku, che nasce mettendo un solo piede sulla terra, in un’immortale testimonianza di abiezione. Eppure ciò capita di rado. È come se ci fosse un accordo sottinteso: almeno qui possiamo darci tutti una calmata, cazzo. Almeno qui possiamo ridere. Anche i talebani del Bene (ogni fazione piazza la B maiuscola dove diavolo gli pare, naturalmente) preferiscono forse lasciare aperta una via di fuga, un altrove dell’ideologia, un cunicolo nel caso vogliano spogliarsi dell’uniforme. Dopo tutto, a quanto pare, pure loro sono esseri umani venuti al mondo dopo la cacciata dall’Eden, che hanno addentato il frutto del bene e del male, creature che possono essere amate proprio perché fragili e fallibili quanto un ricordo.