Chissà se in molti avete visto queste immagini. Sono in timelapse, ma l’ineluttabilità di ciò che sta accadendo è indiscutibile. Non è che se le vedessimo a velocità normale l’effetto finale cambierebbe: il ghiacciaio si scioglie e la scienza sostiene che questo stia accadendo soprattutto a causa del riscaldamento globale, il famoso global warming. Se togliessimo il timelapse non avremmo purtroppo la certezza che il tutto sia sufficientemente lento da non riguardarci: in realtà ci riguarda eccome. Quello che qui è sintetizzato in pochi secondi sta accadendo in un cumulo quantificabile di ore, giorni, mesi, anni: scegliete la vostra unità di misura preferita. Ma se scegliete gli anni non illudetevi che siano migliaia… sono al massimo qualche decina.
Guardarlo ci procura un senso di impotenza che smaltiamo dentro di noi piuttosto in fretta. Oltre a chi in immagini di questo tipo nemmeno si imbatte, e oltre a chi pur vedendole non se ne cura, imbottito al punto tale da una narrazione negazionista da anteporre il credo immagazzinato alla sua stessa incolumità («tanto il global warming non esiste, e certi cambiamenti ci sono sempre stati», come a dire: «mi interessa di più esserti antagonista, brutto radical chic del cazzo, piuttosto che pensare a me stesso»), ci sono tutti quelli che vedendo un ghiacciaio sciogliersi qualche sentimento impaurito lo provano. Ma per quanti minuti dura in noi un timore in grado di sedimentare e imporsi alla nostra attenzione come terrore crescente? In realtà procediamo con le nostre esistenze dimenticando più o meno volentieri questa minaccia reale e terribile, perché istintivamente la collochiamo in un quando sufficientemente lontano. E forse ciò è nella natura umana. Eppure la lungimiranza, la prudenza, l’avvedutezza sono valori ritenuti di particolare giustezza. Un’azienda che procede bene e cresce non li ha forse a fondamento? E una famiglia cosiddetta sana? E il confronto fra formiche e cicale non parla chiaro? E non è forse appurato che se ci preserviamo e preveniamo i malesseri scongiuriamo spesso il peggio relativamente alla nostra salute? Non dovrebbe dunque essere nella natura umana applicare questi valori e tentare di por fine al processo del riscaldamento del pianeta che porterà l’umanità a innominabili tragedie? O quantomeno risolutamente attenuarlo?
Non ho gli strumenti per descrivere una psicologia di massa, né ho la capacità di sondarne l’anima, ma è evidente che un conto è se un medico guardando i nostri ultimi esami del sangue ci dice «caro paziente, i valori del colesterolo sono altissimi: se lei non cambia abitudini all’istante farà una brutta fine» (e noi sì che cambiamo le nostre abitudini), e un conto è se il problema riguarda sei miliardi di persone, fra cui noi. Gli scienziati ci dicono: «se non cambiamo in fretta le nostre abitudini supereremo il punto di non ritorno», e noi in realtà non facciamo nulla se non un po’ di raccolta indifferenziata e qualche altro bel gesto di responsabilità ecologica (tranquilli: non sto accusando nessuno, e alla coscienza individuale ci arrivo fra poco). Come se ci sentissimo immuni in un bel gregge chiamato “umanità”, non ci curiamo più di tanto di un problema che evidentemente non riusciamo a far coincidere con la nostra vita personale, non in modo decisivo perlomeno. E dunque anche voi che avete (forse) appena visto quelle immagini, quando finirete questo articolo (se arriverete fino in fondo) avrete qualche minuto di smarrita consapevolezza e poi tornerete alla vostre vite con un certo radicale distacco figlio al più di una fatale rassegnazione, lo stesso che non avreste se vi avessero diagnosticato un tumore allo stato iniziale (in tal caso infatti l’apprensione ingenerata all’istante se ne starebbe ben acquattata dentro di voi pronta a disturbare per molto tempo le vostre future notti). Oh, sia chiaro: ho usato un “voi” generico, ma ci sono anche io in quel “voi”.
E sì, rassegnazione, perché in fondo cosa ci possiamo fare? So che qualcuno di voi pensa alle scelte di comportamento individuali, eppure non credo sia la soluzione del problema. Per quelle ormai è tardi. Nel mio libro Nuotando nell’aria, uscito un anno fa, riporto frasi che riassumono ciò che ha scritto Amitav Ghosh, scrittore indiano che vive principalmente a New York, in un suo libro dal titolo La grande cecità. Eccole: «Negli ultimi tempi molti attivisti hanno cominciato a definire il cambiamento climatico una questione morale. E così la coscienza individuale si è trasformata nel campo di battaglia privilegiato di un conflitto che è invece palesemente globale. Questa impostazione fa buon gioco a chi intende negare, poiché gli sarà sempre molto semplice accusare gli ambientalisti del proprio stile di vita (si pensi alle pulci fatte a Al Gore o alle accuse ai dimostranti per i mezzi di trasporto usati per raggiungere i luoghi di un corteo). Ricordando una intervista a un’attivista in New York nel 2014, Ghosh ci dice che il giornalista incalzò l’intervistato con domande tipo: “Cos’hai fatto tu per reagire al cambiamento climatico? Quali sono i tuoi sacrifici?”. L’attivista si trovò ben presto con le spalle al muro, in modo talmente paralizzante da non riuscire a reagire con una ovvietà: ovvero che la scala del cambiamento climatico è tale che le scelte individuali non faranno alcuna differenza se non saranno prese e applicate decisioni collettive».
Lo credo anche io, e lo credo, molto semplicemente, in base a ciò che la scienza ci dice, ovvero che abbiamo sette anni di tempo per evitare di oltrepassare il punto di non ritorno (avete letto bene: sette anni. Se non lo sapevate e preferite decidere di non far finta di niente potete semplicemente informarvi in rete, sempre che non cerchiate fra i siti negazionisti). Pensate che la raccolta differenziata più una serie corposa di altri gesti responsabili a livello individuale possano contrastare la veloce discesa verso gli inferi rappresentata da questa deadline atroce? Io credo alla scienza, e la scienza ci dice che non basta più. A tal proposito vi estrapolo un altro passaggio del mio libro, dimezzando il numero degli esempi che leggerete… (Sul mio libro è poco più del doppio).
«Io credo alla scienza. Le credo nella misura in cui sono lucidamente consapevole che la maggior parte delle cose che faccio nella vita, e per moltissime di esse traendone beneficio, è palesemente il frutto dell’ingegno umano, che (è ciò che penso) l’ha sempre migliorata. Ogni cosa ha il suo prezzo, e per x cose positive si potranno chiaramente enucleare le controindicazioni y, ma a naso dico che facendo la tara il progresso ha reso passo dopo passo il cammino dell’uomo sempre un po’ più emozionante, un po più affascinante, un po’ più bello, un po’ più umano, un po’ meno difficoltoso, un po’ meno ingiusto (non permettete alle y di primeggiare: rifletteteci prima di dar fiato all’istinto). Lasciando da parte la tecnologia dell’epoca dei computer e delle stampanti 3D, che è il nuovo orizzonte su cui proiettare visioni future, posso tentare un veloce elenco di vantaggi lampanti: se voglio andare da Torino a Roma posso prendere un bel Frecciarossa, se vado a farmi togliere un dente l’anestesia mi impedirà di patire pene inimmaginabili (così dicasi di qualsiasi altro intervento chirurgico senza anestesia), se voglio ascoltare buona musica non devo necessariamente recarmi a un concerto suonato da strumenti acustici, se voglio conservare il cibo utilizzo un frigorifero che sfrutta la corrente elettrica, se voglio inviare questo articolo alla redazione di Rolling Stone basta un click attraverso un prodigio chiamato computer… Alla base di tutti questi vantaggi e di tutti quelli che ognuno di voi può immaginare a integrazione della mia modesta fantasia, ci sono invenzioni della scienza. Un uso di normale buon senso del proprio cervello dovrebbe far capire a chiunque che la scienza ha portato grossi benefici (e si faccia pure la tara: vince sempre x su y). E se salgo su un treno è perché mi fido che a scanso di inconvenienti gravi non deraglierà, come di una cosa del tutto pacifica. E parimenti se decido di salire in auto: mi fiderò di esser salito su un mezzo che a scanso di incidenti farà il suo dovere di trasportarmi con buon esito nel posto da me desiderato. Eccetera. È una questione di fiducia. E ora questa fiducia viene messa in discussione».
Se ci fidiamo di tutte queste cose, mettendo in atto reazioni istintive dettate dall’abitudine a vivere nel contesto sociale in cui siamo nati e ci ritroviamo, cosa è successo a un certo punto che ha fatto sì che la scienza prendesse a essere denigrata? Come è stato possibile? Un conto è pensare che anche la scienza abbia i suoi scheletri nell’armadio (chi non ce li ha?), un conto è smettere di aver fiducia a priori. (Sei fra quelli? Pensa a quanto male ti farebbe farti togliere un dente senza anestesia… Il dolore non esiste? Oh sì che esiste…).
Che le persone utilizzino le menzogne e la politica usi la propaganda per ottenere consenso è una cosa ben risaputa dai secoli dei secoli, ma la politica americana del presidente appena uscito Trump (una vera e propria benedizione per l’umanità) ha impresso un’accelerazione che ha portato a un processo di degenerazione nuovo e preoccupante, le cui manifestazioni varie, mediamente scellerate, ben rappresentano ciò che viene indicato con il termine “post-verità”. In definitiva, cos’è la post-verità? Quel contesto sociale per il quale nella formazione dell’opinione pubblica i fatti oggettivi sono meno influenti degli appelli all’emozione e alle convinzioni personali. Ovvero un contesto in cui l’ideologia ha la meglio sulla realtà, e la verità non conta nulla. Dice il filosofo americano Lee McIntyre in una intervista rilasciata a Wired: «Quando si mente, si cerca di convincere qualcuno che quel che si sostiene è vero. Con la post-verità tutto questo è irrilevante. Non occorre sforzarsi di ingannare nessuno. Non si devono costruire prove false. Quel che conta è avere la forza di imporre la propria versione, indipendentemente dai fatti. Basta riprendere concetti semplici e accattivanti, anche se infondati, perché a nessuno conviene verificarli».
Tutto ciò in Internet, nei social, grazie alle echo chambers e a certi effetti moltiplicatori e propagatori, accade realmente (e Trump ha dimostrato di saperlo benissimo), ed è il motivo per cui qua cerco di dare molto velocemente delle definizioni di concetti che pertengono a chi queste cose le studia approfonditamente. È sempre l’indignazione a muovermi, null’altro.
Trump, grazie a un tasso di penosa spudoratezza di spettacolare efficacia, inimmaginabile in un ambito di consuetudine democratica col suo “galateo istituzionale” quale siamo abituati noi occidentali a vivere dalla fine della Seconda guerra mondiale, ha portato il mondo a confrontarsi con la degenerazione di cui ho parlato qua sopra, e ha avuto quella forza di imporre la propria versione indipendentemente dai fatti. La lista delle sue nefandezze è corposa, e la lista di quanti in America, nel mondo dell’arte, dello spettacolo e degli intellettuali, oltre a tantissimi altri, lo detestava, lo è anche di più (pochissimi i musicisti che si schieravano con lui, davvero pochissimi: la più che stragrande maggioranza – tutti nomi di cui su questa testata avete in genere letto – ha vissuto come la fine di un incubo la sua fuoriuscita. Nel mainstream come nell’underground).
Per rimanere al piccolo-grande tema che mi sono prefisso di raccontare oggi, e parlando di una sola delle sue nefandezze, forse la peggiore, nei confronti del global warming Trump ha raccontato decine di balle, denigrando ovviamente la scienza. E dunque è di sicuro uno dei principali fautori di questo disprezzo diffuso, talmente terribile da risultare grottesco.
Permettetemi ancora un estratto dal mio libro. «Nel 2013, quando gli è stato chiesto quale fosse la più grave minaccia a lungo termine alla sicurezza statunitense nella regione del Pacifico, l’ammiraglio Samuel J. Locklear non esitò a indicare il cambiamento climatico come il più probabile fattore destabilizzante. E d’altronde il colonnello Lawrence Wilkerson ha detto che a Washington l’unico ministero che abbia piena consapevolezza della realtà del cambiamento climatico è il ministero della difesa. Similmente, le agenzie di intelligence statunitensi e il personale a esse associato hanno prodotto alcuni dei primi e più particolareggiati studi sulle implicazioni del cambiamento climatico sulla sicurezza. Nel 2013 James Clapper, l’ufficiale di più alto grado dell’intelligence statunitense, ha dichiarato di fronte al Senato che eventi climatici estremi (inondazioni, siccità, ondate di calore) turberanno sempre più i mercati del cibo e dell’energia, esacerbando la vulnerabilità degli stati, generando migrazioni di massa e innescando sommosse, atti di disobbedienza civile e vandalismo».
L’ufficiale di più alto grado dell’intelligence statunitense… mica cazzate! Implicazioni del cambiamento climatico (dato per certo) sulla sicurezza degli Stati Uniti, come sempre più crescenti migrazioni di massa che innescheranno sommosse… mica cazzate! Trump dunque sa che il problema c’è (lessi da qualche parte che fece erigere una fortificazione intorno a un suo campo da golf, se non ricordo male in Galles, in previsione di un innalzamento delle acque del mare evidentemente lì nei pressi), ma lo nega(va) per ovvie opportunità politiche. E licenzia(va) chi non racconta(va) quel che il suo popolo v(u)ole(va) sentirsi dire. Mi è capitato di chiedermi: «Ma ai suoi figli non ci pensa?», e la risposta appare banale: «I ricchi pensano di potersi in qualche modo salvare» (ad esempio andando sulla Luna o su Marte? Beh, chiedere a Bezos… Io più semplicemente mi immagino, almeno in una prima fase, enclavi fortificate con aria condizionata perenne, manipoli di ricchi che le abitano, e l’assalto al fortino del popolo infuriato, affamato e arrostito. Distopia? Chi vivrà vedrà).
E quale fu la contro-narrazione in grado di convincere milioni di persone nel mondo a dargli ragione e a prendersela con la fantastica, eroica Greta Thunberg? «I consulenti delle aziende petrolifere hanno cominciato a creare e finanziare istituti di ricerca che fornissero dati sufficienti ad alimentare il dubbio. Per ottenere lo scopo bastava sostenere la tesi che ci fossero due possibili interpretazioni dei fatti, che la scienza fosse in qualche modo divisa e che quindi si potesse credere al fatto che gli aumenti di temperatura registrati negli ultimi 150 anni facciano parte delle normali fluttuazioni che il pianeta ha avuto nel tempo, non che stiamo andando per nostra responsabilità incontro a una catastrofe» (ancora Lee McIntyre). E, aggiungo io, se basta alimentare il dubbio il gioco è fatto: chi si pone ideologicamente da una certa parte avrà sufficiente conforto per credere in ciò che vuole credere, verità o non verità. «E che i ghiacciai si sciolgano pure, tanto non ci credo».
Il video lo avete visto e gli scienziati ci ammoniscono da tempo (più del novanta per cento delle comunità scientifica. Lo riscrivo: più del 90%). Trump non c’è più e Biden riporterà l’America negli accordi di Parigi sul clima. Il peggio del peggio del peggio è scongiurato. Il peggio non ancora però: perché quello che servirebbe veramente, se davvero volessimo impedire ai nostri figli di ritrovarsi in un mondo in rovina, sarebbe «prendere a calci in culo tutti i politici del pianeta» (cit. Harrison Ford) affinché prendessero il coraggio, tutti insieme, nessuno escluso, di imporci un cambiamento radicale delle nostre abitudini. Scontentandoci tutti, mettendoci in seria difficoltà, impoverendoci anche, e soprattutto osteggiando con coraggio e definitivamente le varie lobbies del pianeta, a cui non può star bene che il loro business vada a morire. Come la vedete? Ce la faremo? Io penso proprio di no. Meglio dunque credere che il global warming non esista? Visto il consenso raccolto da Trump ovunque nel mondo (Italia compresa), sembrerebbe che molte persone preferiscano sentirsi dire quel che conviene sentirsi dire: ovvero che il riscaldamento globale non c’è, e che gli aumenti di temperatura registrati negli ultimi 150 anni fanno parte delle normali fluttuazioni che il pianeta ha avuto nel tempo. Che ci sia prospettata una pessima fine pare non essere rilevante. Potere della post-verità.
P.S. Anche questo purtroppo è un argomento divisivo, e le pietose ironie su Greta lo hanno ampiamente dimostrato. Subirò forse qualche altro insulto. A parte il trovare sconcertante che il contesto sociale in cui viviamo sia a tal punto in fibrillazione da arrivare a far digrignare i denti per una cosa che in realtà riguarda tutti (esattamente come The Social Dilemma, che molti non guarderanno mai per “presa di posizione ideologica”, quando invece tutto il pianeta dovrebbe saperne di più a proposito del grande ladrocinio che sta subendo), posso dire che grazie alla fine dell’incubo trumpiano poco per volta qualcosa in tal senso potrebbe e dovrebbe migliorare, proprio perché il propellente trumpiano non sarà più così potente da fomentare i fomentabili.
Come ho scritto sopra, una benedizione per l’umanità.
Leggi tutti gli scritti di Elzevirus.