Anche nelle città più devastate dal turismo può celarsi una perla nascosta, un posto per pochi. Così come nella visitatissima Roma nessuno si fila il quartiere Coppedè, anche nella filmografia di uno dei registi più (giustamente) celebrati della storia del cinema c’è un titolo che conoscono in pochi e al quale ancora meno persone hanno dedicato l’attenzione e l’amore che merita.
Se anche voi non l’avete mai sentito nominare, non sentitevi degli ignoranti: Bringing out the dead (in italiano Al di là della vita) fu uno dei più grandi flop del 1999 e dell’intera carriera di Martin Scorsese, recuperò appena la metà dei 32 milioni di budget e non impressionò più di tanto l’intellighenzia. Anche se negli anni il film ha recuperato terreno sul piano critico, all’epoca Roger Ebert fu uno dei pochi nomi di rilievo che lo definì uno dei migliori di Scorsese, un regista che ha inaugurato gli anni Novanta con Goodfellas (1990), li ha fatti esplodere con Casino (1995) e che per chiuderli in bellezza ha scelto di seguire un paramedico di New York allo stremo delle forze durante tre deliranti turni di notte.
Tutto parte dall’omonimo libro di Joe Connelly, un’opera semiautobiografica in cui ha romanzato il suo lavoro a bordo delle ambulanze nelle notti allucinate di Hell’s Kitchen all’inizio dei ’90. Connelly racconta una città sporca, spaventosa e spaventata, sconvolta da rari lampi di compassione. Il produttore Scott Rudin mostra il libro a Scorsese quando è ancora in bozza, è il regista riconosce al volo quelle ambientazioni, quella disperazione, quelle luci. “C’è solo uno che può tirarne fuori una sceneggiatura” dice a Rudin. “Paul Schrader.”
Non serve essere dei grandi cinefili per conoscere questo nome. Oltre ad aver scritto e diretto un capolavoro come Mishima: a life in four chapters, Schrader è noto soprattutto per aver sceneggiato due dei maggiori successi di Scorsese, Taxi driver e Raging bull, e la sua opera più controversa e contestata, L’ultima tentazione di Cristo. È impossibile rendere giustizia a questi tre film dedicando loro poche righe, quindi limitiamoci a dire che per Scorsese quello con Schrader è stato a lungo un legame artistico molto fruttuoso, rilevante quasi quanto quello con la sua inseparabile montatrice, Thelma Schoonmaker. Bringing out the dead, quindi, non pone fine solo agli anni Novanta, ma anche al sodalizio di un’acclamata coppia creativa: dopo questo film, almeno finora, i due non hanno più fatto nulla insieme. Molto probabilmente solo a causa di schedule inconciliabili e non per antipatie o divergenze stilistiche, perché una cosa è certa: a oltre vent’anni di distanza, rivisto dal mio divano di velluto, questo film resta una meraviglia, un’opera che rispetta e trasmette in pieno la visione del mondo di Scorsese e quella di Schrader.
Se non lo avete mai visto, non preoccupatevi degli inevitabili spoiler. Niente di quello che dirò potrà rendere superflua la visione di questo capolavoro rimosso.
Il film si apre con la voce di Frank Pierce (interpretato da Nicolas Cage) che, al volante di un’ambulanza, posa il suo sguardo sfinito sulle strade di New York, i colori delle insegne luminose gli si spalmano sul volto scavato e rendono più torbido il buio della notte. Nel suo monologo interiore, parla della gente che accoglie nella sua ambulanza: i malati, gli ubriachi, i feriti… Ricorda un altro monologo interiore scorsesiano: “All the animals come out at night”, Travis Bickle in Taxi driver, uno guida il taxi, l’altro un’ambulanza, ma Cage non è macchiato dal rancore e dall’odio di De Niro. Per Travis quella gente è spazzatura, per Frank va salvata. Perché Frank Pierce ama il suo lavoro. È un compito difficile, chiaro, ma salvare la gente, strapparla alla morte per un soffio, è una vertigine che dà dipendenza. Frank, però, non salva nessuno da un pezzo: è perseguitato dal fantasma di Rose, una ragazza che gli è morta tra le mani mesi prima. Eppure, sotto le luci della città, la sua divisa bianca splende, è avvolta da un’aura abbacinante, come quella di un angelo. E la luce si fa ancora più intensa ogni volta che, in ginocchio, fa un massaggio cardiaco per tenere in vita qualcuno.
“Do you have any music?” chiede Frank a Mary Burke (interpretata da Patricia Arquette, all’epoca moglie di Cage), mentre si affanna a tenere in vita il padre di lei, un anziano quasi stroncato da un infarto. Frank sa che la musica non rimetterà in piedi il signor Burke, ma almeno per un istante terrà impegnata la famiglia: devono scegliere un pezzo che piace al papà. Sinatra, “The september of my years”, un brano sulla mezza età e i dubbi esistenziali che si porta dietro. Sono certo che questa sia una scelta di Scorsese. Nel libro la signora Burke avrà messo su “Der Rosenkavalier”.
La prima delle tre notti in cui lo seguiamo, Frank è di turno con Larry (John Goodman), un collega molto disincantato e tranquillo, che cerca di sottrarsi alle chiamate di emergenza che la radio smista alle varie ambulanze, ordini diramati dalla voce di Scorsese stesso (che quindi dirige gli attori dentro e fuori dal film) e di Queen Latifah. Quella notte i due accompagnano in ambulatorio il signor Burke, caduto in coma, con famiglia al seguito, e lì abbiamo la prima discesa negli inferi della realtàà ospedaliera americana: un girone dantesco in cui dottori e infermieri cercano a fatica di riportare ordine, sotto lo sguardo severo di Griss, un addetto alla sicurezza afroamericano che ripete minacciosamente “Non farmi togliere gli occhiali da sole” a chiunque si azzardi a far casino. Più avanti lo vedremo mentre legge, sempre con occhiali da sole, Toghe nere, giustizia bianca.
Tra i degenti spicca un tizio coi dreadlock completamente schizzato (Marc Anthony), legato mani e piedi a una barella, che chiede a chiunque – e contro il parere dei medici – di dargli dell’acqua. Quando un anziano, stanco di sentirlo urlare, lo libera, l’anonimo tizio coi dreadlock si avventa su una fontanella rotta e Griss lo scaraventa fuori dal pronto soccorso, ai piedi di Frank e Mary. Proprio in quell’instante, ovvero un attimo dopo che è stato letteralmente buttato fuori dalla sua catabasi nel sistema sanitario americano, viene chiamato la prima volta per nome. “Noel?” A riconoscerlo, e quindi a farlo diventare una persona a tutti gli effetti, è Mary che in quel momento, come dirà più avanti, sfoggia un look da “night of the living cheerleaders”.
Frank e Larry tornano sull’ambulanza. I dettagli stretti sulle sirene, quasi alla Truffaut, ricordano le trombe che gli angeli fanno squillare nell’iconografia sacra, mentre dalla radio (la musica in questo film è quasi sempre diegetica) arriva “You can’t put your arms around a memory” di Johnny Thunders, che era morto proprio negli anni in cui è ambientato il film. La canzone parte leggera e, mentre le sex workers che sorridono a Frank cominciano a trasformarsi in tante repliche di Rose, riecheggia più insistente: non puoi abbracciare un ricordo, la memoria non ti corre in soccorso quando sei solo, non è una stampella su cui reggersi.
Nel corso della notte, Frank si imbatte di nuovo in Noel: stavolta è ricoperto di sangue e si punta una bottiglia rotta alla gola. Sul posto c’è anche un altro paramedico, Tom (Tom Sizemore), un violento con aspirazioni da vigilante, ma Frank non ha tempo per gli scontri ideologici: deve schizzare altrove. C’è un ragazzo per terra, una ferita da arma da fuoco al petto. La notte si chiude con un’altra vita che Frank non riesce a salvare.
Al mattino vediamo i libri sul comodino di Frank, un nodo di riferimenti letterari che avrebbe fatto impazzire di gioia Umberto Eco: oltre a un immancabile manuale medico, troviamo Il filo del rasoio di William Somerset Maugham (storia di un reduce della Prima guerra mondiale con PTSD che cerca la trascendenza nel quotidiano), Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline (anche qui, un reduce della Prima guerra mondiale che, dopo aver visto il mondo, torna a casa per occuparsi di malati ed emarginati), Gli amori difficili di Italo Calvino (racconti sull’incomunicabilità e incubi urbani), Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez (una storia in cui il confine tra vivi e morti è molto labile) e un’antologia di Percy Bysshe Shelley, autore del verso “Non sollevare il velo dipinto che quelli che vivono / chiamano Vita”.
Quando scende il buio, Frank è di nuovo sull’ambulanza. Questa notte al volante c’è Marcus (Ving Rhames): anche lui crede che salvare vite sia una droga che lo avvicina a Dio, ma a differenza di Frank è istrionicamente religioso. Mentre si aggirano per la città, lo sguardo sempre più morente di Nicolas Cage si posa su una suorina che arringa i passanti: al collo non ha un crocifisso, ma il pupazzo di un feto insanguinato. Torna il filo rosso del binomio vita/morte: sono solo due condanne? O possiamo affrontarle come scelte? È un tema che ha sempre animato la discussione filosofica e che, proprio nei primi anni Novanta, comincia a diventare a tutti gli effetti oggetto di riflessione anche per gli studenti di filosofia (come il sottoscritto all’epoca). Un tema che risuona in tutto il film, soprattutto nel rapporto che si instaura tra Frank e il signor Burke, che i medici si ostinano a far riemergere dal coma a colpi di defibrillatore, nonostante – in rari momenti di muta lucidità – l’uomo faccia capire con lo sguardo a Frank che vuole soltanto morire. L’eutanasia non è solo espressione della volontà di un sistema sanitario desideroso di porre fine al dolore, ma la scelta attiva del signor Burke: non vuole vivere come un’anima in pena, non vuole morire da paziente, ma da agente attivo e volontario del proprio destino.
La fede, magnifica ossessione nella cinematografia di Scorsese, si manifesta in modo evidente durante il turno con Marcus. Prima attraverso inanimati oggetti di culto: il bambolotto al collo della suora e la minuscola madonnina di plastica rievocata da Frank, quella che la pizzeria Mimi’s dava in omaggio con ogni pizza. Poi attraverso due “miracoli” metropolitani: la “resurrezione” di un ragazzo in overdose (in realtà, è tutto merito di un’iniezione di Narcan, anche se Marcus ne approfitta per inscenare un rito di preghiera tanto fasullo quanto teatralmente efficace) e l’immacolata concezione di due gemelli (di cui uno nato morto, tra le braccia di Frank), figli di una coppia di sedicenti vergini che vivono in una topaia decisamente peggiore di qualsiasi grotta di Betlemme. Tutto sommato, il bilancio della seconda nottata per Frank è tollerabile. Peccato che all’alba, dopo aver bevuto per tutto il turno, Marcus faccia cappottare l’ambulanza. I due ne escono illesi, ma Frank non ne può più. Deve mollare questo lavoro. “Puoi mollare questo lavoro, ma i tuoi demoni non ti molleranno mai” gli urla dietro Marcus. E del resto Frank quel lavoro lo ama. Certo, non è una vita facile, sei testimone di tanto dolore, ma poi ogni tanto succede qualcosa di buono, e tutto splende. “Everything glows” confessa Frank a Mary, mentre nei suoi occhi si mescolano i segni dell’estasi e della fatica.
E cosa ha più senso? Lasciar morire i morti rimuovendo il loro ricordo (come si sforza inutilmente di fare Frank, perseguitato dal fantasma di Rose) o imparare a convivere con loro, come nel cinema di Apichatpong Weerasethakul? I morti sono le memorie storiche con cui dobbiamo trovare una forma di coesistenza o anime in affanno, magari schiacciate dagli sforzi che fanno per rimanere tra noi?
Durante la terza notte, Frank è di turno con Tom, il paramedico vigilante: per lui certe persone non sono pazienti, ma tumori da estirpare. E uno di questi tumori è Noel. I due lo incontrano per strada, mentre sta sfondando i vetri di una serie di auto in fila, armato di una mazza da baseball. Tom vuole sbatterlo in galera: sono mesi che gli sta dietro, ma Noel gli scappa sempre. Per lui è troppo veloce e vuole convincere a Frank ad aiutarlo. La cosa sfugge di mano. Dopo un breve inseguimento in uno scantinato, Frank vede Tom che schianta il cranio di Noel a colpi di mazza da baseball.
Per salvarlo in extremis, Frank lo porta al pronto soccorso e finisce nel reparto di terapia intensiva, dove trova – collegato a mille macchinari – il signor Burke. In un atto di estrema umanità, Frank gli strappa i sensori e se li applica sul petto, gli toglie il respiratore e se lo mette in bocca. Attorno alla sua divisa bianca, l’aura angelica torna a splendere sempre più forte. I monitor registrano battito e respiro di Frank. Nel frattempo, il signor Burke può finalmente morire in pace.
È l’alba, Frank si dirige verso casa di Mary per dirle che suo padre è morto. Mentre le parla, il volto di lei – mezzo nascosto dietro la porta dischiusa – diventa quello di Rose. “Perdonami, Rose” dice Frank, straziato. E il fantasma di Rose gli risponde, con un colpo di genio che Scorsese attribuisce interamente alla penna di Schrader: “Non è colpa tua. Nessuno ti ha chiesto di soffrire. È stata una tua idea”.
“È una battuta splendida” ha detto Scorsese a Schrader. “Perché uno non riesce mai a perdonarsi da solo, aspetta sempre che siano gli altri a perdonarlo.”
È l’epifania che serviva a Frank. Ha appena messo fine al dolore del padre di Mary, ma solo in questo momento ha davvero capito che la sua ossessione non è mai stata salvare vite umane, ma liberare le anime in trappola.
“Quando riporti in vita qualcuno ti senti un Dio, sei Dio” ha raccontato Scorsese a Roger Ebert. “Ma uno deve superare l’ego e l’orgoglio, perché il lavoro [di Frank] non è riportare la gente in vita, ma esserci nel momento del bisogno, è compassione per chi soffre, è soffrire con loro.”
Mary apre la porta e lascia entrare Frank, i due si stendono a letto, lei gli carezza la nuca e lui crolla in un sonno millenario. La luce del sole che nasce li investe a poco a poco. Il bianco dei loro vestiti diventa sempre più abbacinante, fino a quasi cancellare i contorni del viso di Cage.
Bringing out the dead, come dicevamo, è stato un flop. Non ha trovato il consenso del pubblico né quello della critica. Ha chiuso gli anni Novanta e (per ora) la collaborazione tra Scorsese e Schrader. Ironia della sorte, è stato anche l’ultimo film a essere pubblicato in formato Laser Disc negli Usa. È un’opera che ha il gusto amaro delle cose che finiscono e, allo stesso tempo, un capolavoro che ci aiuta sempre a cercare un nuovo inizio nella storia.