Alle ore 18 di ieri consegnavo questo mio articolo. Dopo averlo letto, emendato e riletto le solite venti volte circa, mi ero deciso per lo stop, che per chi scrive (ma vale anche per le altre arti) è un fascinoso momento di liberazione, tanto arbitrario quanto dettato da qualche forma di autoregolamentazione consolidatasi con l’esperienza. Poi, alle 22, iniziavo la visione di Don’t Look Up… ed eccomi qua a integrare queste poche parole.
Il film mi è piaciuto tantissimo, e per la più parte ho riso di buon gusto (è palese che il riso era spesso amaro, e a volte, soprattutto verso il finale, si trasformava in costernazione e frustrazione). So che è divisivo nei social e che la critica, soprattutto quella specializzata, lo tratta malino. Ho anche capito perché lo tratta malino, e comprendo. Ma al di là di tale comprensione, all’insegna della circospezione e dell’umiltà giacché non sono un critico cinematografico e giacché nelle analisi sui siti specializzati ci sono spesso molta intelligenza, tanta conoscenza e sguardo acuto (a volte in verità pedanti e fighette, e se fossi un regista coinvolto dai loro giudizi certe cose mi farebbero girare sinceramente le palle), al di là di ciò sento che nel film è come se anche questa stessa attitudine al «sì, ma…» fosse inclusa e prevista dell’ironia (acre più che furbetta) del regista.
Chi si lamenta infatti, da quel poco che ho intercettato, è risentito proprio da questa ironia, e rivendica la propria intelligenza che sente presa di mira («Ci tratta come se fossimo idioti», ho letto da qualcuno della stampa straniera, «si sente più furbo», «punta il dito ma non offre soluzioni», altrove). Ma è proprio questo il punto: sentirsi risentiti nel guardare qualcosa che, spiace dirlo, è proprio “vero” (e ben venga se sei realmente l’eccezione che conferma la regola: buon per te), equivale a… non guardare in alto, come fa l’umanità del film che, ignorando, sbeffeggiando, contestando, dubitando (esilarante e disarmante al contempo quando si insinua fra la gente l’idea che la cometa non esista e che gli scienziati stiano dicendo una balla), va bellamente incontro alla sua fine. È vero: McKay non offre soluzioni (manco fosse il suo compito) ma per l’intanto si è impegnato a fare un film che inquadra da qualche punto di vista un problema catastrofico (per molti, me compreso, il cambiamento climatico è il problema più catastrofico che si trova ad affrontare l’umanità da che esiste, e molti, troppi, preferiscono ignorare, acconsentendo ad andare a schiantarsi contro il muro. Esattamente come accade nel film. E so benissimo che queste parole catastrofiche faranno sorridere molti, e penso che questo sorriso sia una delle tante cose che McKay elegantemente mette in scena nel suo film, ovviamente sbeffeggiandolo. E infatti lo sbeffeggiato si risente… E così via).
Mi piacerebbe parlarne di più, ma se penso che questa era solo una integrazione… E perché l’ho fatta? Beh, perché nonostante il titolo di questo articolo alluda a qualcosa che verrà più avanti, il suo vero senso, la sua sostanza, è nel girare intorno alle cose con lo stesso senso di frustrazione con cui ho empatizzato poche ore fa. Non so se questo mi faccia colpevolmente sentire più furbo come il criticato McKay con la sua stigmatizzata presupponenza, ma non posso farci nulla se il suo film mi ha fatto questo effetto e mi è desolatamente piaciuto un casino. E dunque, siccome ero positivamente sorpreso di tutto ciò, l’ho voluto dire approfittandone per parlarne.
Da ora parte quello che ho consegnato ieri alle 18. Buona lettura. (E buon anno a tutti!)
Nel mio precedente articolo mi ero prefisso di argomentare a proposito degli affanni reali che secondo me si dovrebbe avere in questa fase tremenda della storia dell’umanità (o se preferite complessa). Ovvero, secondo me, il popolo, questa entità informe e in fondo astratta che viene chiamata in causa con disinvolta generosità per confezionare la narrazione antagonista al cosiddetto pensiero unico dominante, dovrebbe, oltre a (per chi ne avrebbe bisogno) liberarsi delle balle della rete, dell’infodemia e delle fake news che rimbalzano impazzite nelle echo chambers, preoccuparsi di altro che non le implicazioni politiche di una situazione straordinaria quale è un virus, che sta tornando a dare problemi all’umanità e che, fino a quando non si dimostra che non esiste e che è dunque una invenzione di qualche forza che ci sovrasta e vuole il nostro male secondo fantasiosi piani (tra 5G e terapie geniche, feti umani abortiti e abolizione dei diritti alla salute, al benessere, alla libertà, all’amore stesso, ovviamente in ossequio al Grande Reset), non può altro che essere affrontato per debellarlo. Come un sacco di altre malattie nel corso della storia dell’umanità sono state affrontate e debellate. O affrontate e attenuate nel loro potenziale distruttivo.
Che si deve fare per gestire un virus, se si ammette che esiste? Abbandonarsi al pensiero magico e alla magia? Anziché impiegare energie a documentarsi sui complotti fino a conoscerne ogni addentellato per erigere le difese da ogni possibile confutazione (è del tutto verosimile, visto il livello di preparazione di molti su questi argomenti, che vi sia chi passa ore e ore a documentarsi in rete e a tenersi aggiornato), perché non informarsi con lo stesso fervore presso i tentativi quotidiani della scienza, smascherando semmai quelli fraudolenti e acquisendo nozioni rilevanti per empatizzare, divulgare, sostenere? Cosa spinge alcuni a ritenere più conveniente dubitare della scienza piuttosto che conoscerla per contribuire con energie positive e sostegno a trovare in fretta i rimedi definitivi? Se li si trovasse non cesserebbero anche i timori per le implicazioni politiche autoritarie? (La prime due sono domande retoriche evidentemente). La sociologia sta occupandosi di questo fenomeno di disaffezione e distacco dalla scienza, e tanti sono i libri e gli articoli che cercano di spiegare questo cedimento all’irrazionale, vero e proprio incubo di questi tempi moderni.
Fantasiosi piani, ho scritto poco sopra… Io in verità non mi stupirei per nulla di piani che prevedessero l’eliminazione di un po’ di umanità. Il pianeta terra non è tarato per sopportare le necessità sempre meno sostenibili di otto miliardi di persone, o le più che saremo, e il cambiamento climatico ad esempio ne è una chiara dimostrazione. Non sapendo i politici come imporci un cambio di marcia impossibile da digerire anche per i più consapevoli fra gli uomini – sapremmo rinunciare agli aerei? Potremmo pensare di non poter usare le auto e i mezzi per questioni lavorative? Due domande del tutto a caso – diciamo che tre o quattro miliardi di persone in meno farebbero comodo. Meglio, immagino, se fossero di Paesi “lontani” e meno sviluppati di noi. Questo ovviamente a rigor di logica, la cinica, orrida, inaccettabile logica del nostro mondo sviluppato – non è una colpa in sé essere sviluppati, sia chiaro – ma tant’è: è realistico immaginarlo.
Di connesso col covid però in tutto ciò non ci vedo nulla, e queste parole venute fuori incidentalmente non sono allusive. Dunque non penso che il covid abbia a che fare con l’eventuale eliminazione programmata di un po’ di gente, nonostante di covid io abbia appena parlato di sfuggita e ancor più di sfuggita abbia parlato dell’assottigliamento di un po’ di umanità. Le due cose non sono in connessione. E d’altronde: per quanto ormai sia ridondante, l’argomento covid urge, ancora e ancora, e tanti, troppi, tutti ne parlano, visto che domina le nostre attenzioni – come potrebbe non dominarle? – e visto che se non ne usciamo le economie di molti saranno sempre più pericolanti.
Come scrissi nel mio articolo precedente io sono un musicista, e dico che è verosimile che un altro anno di tribolazioni e concerti contingentati mieterà vittime, e non solo fra i tecnici e i locali che organizzano i concerti. Posso dunque coltivare con ardore il desiderio appassionato che si esca dall’incubo di questo virus senza passare per la magia, la superstizione e il dubbio ideologizzato? E posso confessarvi una cosa di passaggio? Io non credo che all’establishment della politica, tranne pochissimi elementi, interessi qualcosa del destino di questo settore. Qualche decina di migliaia di lavoratori lo compongono: al limite amen, no? Si ricicleranno. E in fondo i big che problema hanno? Sono ricchi, e prima o poi torneranno a farci divertire tanto. Il loro patrimonio non verrà intaccato in modo preoccupante: possono vivere tranquillamente, e appena si potrà torneremo a «godere con loro delle belle emozioni che ci sanno regalare» (cit.). E quanto al resto… Beh, ma che cazzo gliene frega del resto della musica alla grande maggioranza dei politici? Che ne sanno loro del resto della musica oltre ai big conosciuti da tutti? Anche questo, purtroppo, è realistico pensarlo, nel nostro belpaese…
E posso dirvi un’altra cosa? Una angosciosa vocina mi sta dicendo da qualche giorno che per la musica live forse niente o quasi sarà più come prima… La scaccio con uno sciò, e provo a non pensarci più.
E dunque: nel mio articolo precedente mi prefiggevo due cose, ma ne ho portata a compimento solo una mancando la seconda per il troppo spazio impiegato nello scrivere la prima. Della seconda dunque voglio parlare oggi, ovvero di quella che avevo qualificato come l’intenzione “tremendamente nobile e necessaria” che il famoso “popolo” dovrebbe secondo il mio punto di vita assumere per occuparsi di una cosa molto più preoccupante delle presunte implicazioni politiche negative di una pandemia: il riscaldamento climatico.
Nobile. Perché? Perché stiamo lasciando alle generazioni future un pianeta molto malato. La sapete la cosa dei due gradi di temperatura in più? Quelli che se andrà bene, secondo Jonathan Franzen, riusciremo a non superare entro il 2030? (Ergo lui dà per scontato che a due gradi in più arriveremo, laddove l’establishment sta strombazzando ovunque che i due gradi in più sono un limite da scongiurare e che non raggiungeremo se saremo giusto un po’ virtuosi. E se li raggiungeremo ciò accadrà semmai non prima del 2050). Ebbene: immaginate voi stessi di dover cominciare a vivere con 39 di febbre, per sempre. Vi piace come prospettiva? Beh, è quella che attende il nostro pianeta. E sembra che fatte le debite proporzioni il rapporto sia comunque credibile e verosimile: due gradi in più al pianeta danno fastidio esattamente come darebbero fastidio a noi. Una sproporzione appare però evidente se riflettiamo sui destinatari dei disagi: a noi 39 gradi in più renderebbero la vita poco per volta complicata e poi sempre più impossibile, al pianeta sostanzialmente faremmo un solletico, perché delle modifiche alla natura che ne conseguiranno ne patiremo noi e la natura stessa, non il pianeta coi sui 4 miliardi di anni di vita sul groppone.
Quindi se si intende con “pianeta” quella palla grossa e non piatta che ci ospita, il danno che gli procuriamo è nullo. Se si intende invece con pianeta la vita su di esso per come la conosciamo, il danno è tremendo, proprio a causa di quei 39 gradi di febbre perenne. E il “noi” di cui parlo dovrebbe essere preso alla lettera, non inteso come una metafora per indicare genericamente la razza umana a venire: un autorevole meteorologo come Luca Mercalli ammonisce che già fra una ventina d’anni in alcune città non si riuscirà facilmente a vivere, in estate. E fra vent’anni, miei lettori, la gran parte di voi ci sarà eccome. Non pensate mai a fare i conti con 50 gradi di temperatura in città per molti giorni consecutivi, in estati sempre più torride? Oh beh, vivremo sempre più nell’aria condizionata, vero? Certo, ma più useremo i condizionatori più inquineremo il pianeta, che sempre più si surriscalderà… In un vortice inarrestabile e senza via di ritorno. Con tanti sinceri auguri per i nostri figli, che se non saranno molto ricchi non avranno accesso alle sofisticherie che sempre più serviranno per mettersi al riparo.
Ma per carità: mi fermo qua. Non sia mai che io vi possa apparire come un inguaribile pessimista preso male. O come un ingenuo che crede al pensiero mainstream. E d’altronde, non sia mai che io vi disturbi con affermazioni che paiono volte a ingenerare sensi di colpa. Di qualsiasi colpa ciascuno di voi possa essere eventualmente accusato… beh, quella colpa è in tutto e per tutto anche la mia. Siamo tutti colpevoli, nella nostra quasi completa incolpevolezza (non è una colpa aver goduto del progresso, fino a che non fosse definitivamente chiaro che nuoceva senza se e senza ma). Ma da qualche anno in qua, chi nega, chi ignora, chi snobba, chi deride ha delle colpe in più, per me detestabili.
Una cosa brutta di questa brutta faccenda sapete qual è? Il fatto che questo tema interessi poco. Io feci già un articolo accorato in merito al riscaldamento climatico, e non ebbe molto successo. Molto meno, che ne so, degli articoli in cui ho parlato dei Måneskin, o della dittatura sanitaria, o di Fedez, o del covid visto dalla prospettiva di un sì vax normalmente, banalmente, ovviamente convinto, che perora la causa e le ottime ragioni della scienza. E in quell’articolo di poco successo cercai di dire quel tipo di cose che non credo sia più il caso di dire ora: poco interesse verificato là, poco interesse presunto qua. E buona cottura a fuoco lento a tutti qui sul pianeta terra.
Eppure… In questa sede mi va più che altro di ribadire il concetto espresso in apertura: anziché dare in escandescenza per ipotetiche derive autoritarie con quelli che a me sembrano isterismi, perché non avere il terrore per una tragedia annunciata, ovvero il cambiamento climatico? Per favore: non siate suscettibili. Io ho un gran rispetto per i timori di prevaricazioni da regime, perché di esse ho il terrore e l’ho anche scritto nel mio ultimo articolo, ma per me le paure vanno rivolte contro l’ultra destra dei populismi-sovranismi, ben più che contro il famigerato mainstream che ci procura i vaccini. Ho motivato le mie sensazioni al riguardo nel mio ultimo articolo, e non solo nel mio ultimo, cercando di prevenire le possibili obiezioni bipartisan, giacché della deriva autoritaria da presunta dittatura sanitaria ci si lamenta sia molto a destra che molto a sinistra. Come può non preoccupare, e tanto di più, che un politico come Salvini, sempre in alto nei gradimenti degli italiani, sostenga gente come Bolsonaro o Kast – nostalgico del criminale Pinochet – colui che per fortuna ha perso giusto qualche giorno fa le elezioni in Cile? Ma davvero si teme di più il neoliberismo, da estirpare per un ritorno agli ideali del liberalismo da cui rifondare un’idea moderna di democrazia (sono astrazioni che mi suonano sempre un po’ assurde: chi è che all’atto pratico si assumerebbe il compito di correggere un mondo per tornare a uno precedente? Ci starebbe l’emoticon con la faccia capovolta…), rispetto ai vari soppressori di libertà chiamati per brevità sovranisti? Già, la libertà… La libertà… Anche qui da noi c’è chi dice che ci stanno privando della libertà… Eh sì… Dimenticavo che non siamo liberi qua… Oh, come siamo vessati… Oh, come io non posso scrivere quello che penso se non mettendo in conto di finire il galera, come, che ne so, in Turchia… Ah, la post verità, che delizia…
(Precisazione: sono un uomo di sinistra o sono un liberale? Non lo so. Ho sempre detto che so di non essere di destra).
Vi racconto questa cosa. Poco più di un mese fa siamo stati ospiti di Propaganda live. Abbiamo suonato Il genio (l’importanza di essere Oscar Wilde). L’esibizione è stata molto gradita e il nostro social è esploso di entusiasmo, probabilmente facendo un record di commenti e condivisioni. Ne siamo stati molto felici. Ma nonostante questo tripudio di positività, nonostante questa gioiosa festa in cui si era a tutti gli effetti una gran bella comunità di persone prese bene e felici (di cosa? Del rock direi, a giudicare dal tipo di commenti), sono arrivati alcuni (pochi) a stressare e a guastarla (si fa per dire).
Mi spiego: siete al corrente del nostro progetto Karma Clima? È il nome che abbiamo dato a una vera e propria esperienza che abbiamo giusto una settimana fa finito di fare nella sua prima parte: un percorso in tre residenze artistiche attraverso il quale dipanare la creazione del nostro undicesimo disco. Ovvero siamo andati a registrare in tre luoghi ospitali (due borgate di montagna e una cittadina ai bordi delle Langhe), per catturare energie particolari rendendoci portatori e divulgatori di messaggi legati a concetti come riqualificazione, sostenibilità, attitudine green e decentramento, insiti nelle caratteristiche costitutive stesse di questi luoghi virtuosi. Il tutto all’insegna della condivisione, dell’ascolto e della commistione. E del viso-a-viso, lontani dal solipsismo degli screen. Tali concetti si riconnettono evidentemente al clima, argomento madre che tutti li accoglie nel suo seno generoso, pronto a beneficiare di ogni elemento positivo che essi siano capaci di produrre. In tal modo se ne evince che ci siamo ritrovati quasi istintivamente a essere quel tipo di artisti che la vulgata ama definire impegnati, e che ci mettono la faccia, rendendosi conto che di questi tempi può essere un’ottima opportunità l’assumersi un compito di questo tipo. Uno stare dalla parte giusta della storia, scongiurando il sentimento vergognoso, a posteriori e a conti fatti, di non esserci stati.
Non ho mai avuto alcuna particolare fascinazione per l’impegno politico in arte e l’ho sempre detto, ma l’argomento clima annette in sé tutte le bellezze del mondo (foreste, barriere coralline, mari, monti, boschi, predatori, prede, organismi unicellulari, comunità ittica, vegetazione, fauna, cani, pappagalli, gheppi, lontre, gatti, coccodrilli, ghiacciai, oceani, golfi, isole, declivi, litorali, eccetera), e trovatemi un vero grande artista nella storia dell’arte che non abbia mai incluso nella sua opera la natura come tema ispiratore, rasserenatore, consolatore, o portatore di fascinose turbe, meraviglie paniche e sublimi inquietudini. Sempre rendendolo parte integrante come tema di evidente densità artistica, nominandolo, descrivendolo, umanizzandolo. Di passaggio o dedicandovisi in modo strutturato. Dunque, impegnarsi per salvaguardare un macrosistema quintessenziale all’arte stessa pare essere un tipo di impegno in cui la politica non dovrebbe c’entrare nulla.
(Hey: un attimo di attenzione: sarebbe bello se anche tu che leggi ti iscrivessi alla nostra newsletter a proposito di questo progetto. Ti va? Ecco l’indirizzo).
Eppure… Eppure (tornando a Propaganda) i noiosi e alquanto inopportuni guastafeste sono venuti a esternare il loro disappunto fuori luogo addossandoci alcune fra le più fragorose stupidaggini che soltanto una sorta di incantamento rimbambito può portare a congegnare (siamo sempre lì: le echo chambers, le balle della rete, l’infodemia… Addirittura un giornale irricevibile come Libero ha deriso chi se ne fa fottere… Trovatelo se siete curiosi: è il numero di lunedi 21/12, mi ci sono imbattuto in aeroporto). Dicendoci con sicumera arrogante che il riscaldamento climatico è una balla (su certi temi siamo tutti ignoranti, sia chiaro, ma chi è gentilmente disponibile a verificare può controllare quanti “secondo me”, “per come la vedo io”, “credo”, “mi sembrerebbe” io anteponga quasi sempre alle mie asserzioni per non imporle con arroganza), alcuni di loro si spingevano oltre per dirci che utlizzavamo quel tema (il clima) per poter tornare a ottenere visibilità. Qualcuno metteva poi la ciliegina sulla torta del “cosa si fa per andare in televisione”, oppure “vi hanno pagato per andare a parlare di clima a Propaganda” per finire con “E certo, con il nome che si ritrova quel programma non potevate che andare a fare propaganda” (non ho riportato fedelmente, ma a memoria).
Tante stupidaggini insieme legittimerebbero la perdita di pazienza di chi non ne può più di provare a non scendere a certi livelli. Ma resto equilibrato e affermo che il tema del clima è semmai divisivo e scomodo, e nessuno ti paga (ma quando mai?) per portarlo in luoghi dove non è il benvenuto. Diciamo, al limite, che parlare di certe cose ti mette purtroppo nella condizione di perdere le simpatie di alcuni fan (non è allucinante ciò?), oltre a alienarti la possibilità di convincere prima o poi qualcun’altro che ancora non l’abbia mai fatto a conoscerti e apprezzarti finalmente (certo, per contro proprio questo tema potrebbe invece favorire le simpatie di altri).
Il cambiamento climatico divisivo… Ma voi vi rendete conto della triste assurdità di una cosa simile?
Ora: certo che a Propaganda Live è benvenuto il tema in questione! Diego Bianchi ha affrontato spesso questo argomento scottante (mai aggettivo fu più pertinente), e se non erro ha anche intervistato Greta Thunberg. Ma Propaganda è un programma sui generis… Se fosse però vero quello che ci sono venuti a riversare le persone di cui sopra, se fosse cioè vero che con quel tema hai garantita la presenza in tutti i programmi Rai, che magari ti pagherebbero anche per accoglierti (ridono perfino i miei polpastrelli a digitare sta cosa), allora non avremmo dovuto aver nessun problema a andare a Sanremo quest’anno. E invece non ci siamo andati…
E dunque chiudo questo mio articolo con la questione Sanremo: chissà se chi si è addentrato nella lettura morbosamente incuriosito dal titolo avrà avuto la pazienza di arrivare fin qua…
Volevamo andare a Sanremo quest’anno. Ci interessava provarci. E ormai non dovrebbe quasi più essere necessario darne motivazione a chicchessia: per come è messa la musica, una certa forma di starci e di farla sta scomparendo. È di una attitudine culturale che sto parlando: la purezza e l’integrità artistica connesse con il desiderio di discriminare tra ciò che è degno di accoglierti e ciò che non lo è stanno per diventare null’altro che un modo per sancire la propria auto-esclusione, che non fa rima con élite ma con condanna. E in fondo la stessa idea di pensare che ci sia qualcosa di degno e qualcosa di non degno fa forse sorridere: di questi tempi, per certi versi penosi, davvero ci si può permettere di pensarsi diversi? Davvero si può ritenere di poter non essere mai, in nessun modo, a nessun prezzo, pop? (Non sto parlando di un genere musicale: sto parlando di cultura e attitudine. Andare in televisione quasi ovunque e quasi a qualsiasi costo, facendo quasi qualsiasi cosa, è pop. La televisione è pop, e sempre più è necessaria per non scomparire… Internet? Credi di non scomparirci, lì dentro, ma i like sono solo numeri, e non valgono come i numeri ben poco virtuali del tuo conto corrente, né nel bene, né nel male. Poi, certo, se fai rap di successo con certi numeri è un altro discorso…).
Non ho intenzione di parlare di questioni di cui ho già ampiamente parlato in altri miei articoli: soprattutto qua in Italia un certo modo di fare musica fa parte di una epopea in declino (che poi… mica solo qua: il declino è ovunque. O se si vuole essere positivi e ottimisti… le cose sono in trasformazione. Vi piace di più? A me no, ma ok). La nuova socialità in cui siamo tutti immersi non prevede medietà: o tutto o nulla. O mainstream e collusioni varie, o melma e annaspamenti. E le eccezioni sono sempre pronte a palesarsi per poter confermare la regola. Magari prima o poi cambierà, non lo so, ma ora come ora certi vecchi parametri di riferimento sono inservibili, e stare fieramente dalla parte giusta, intendo quella della qualità e delle intenzioni eminentemente artistiche, è una faccenda che ha a che fare con l’eroismo. (Anche questo termine l’ho già usato e motivato tempo addietro).
E allora i benefici potenziali di andare su quel palco, in un Paese come l’Italia che non ha altri luoghi televisivi dove portare a qualche milione di spettatori la propria musica, sulla carta ci sono, nonostante per certi versi sia giusto pensare che la più parte delle volte non serva quasi a nulla. Ma a Sanremo quest’anno ci voleva andare il mondo: in tantissimi hanno sgomitato per entrarci. Se d’altronde i dischi non li vendi più, se gli streaming non remunerano e se il covid non ti fa suonare dal vivo, che fai? Povero Ama, quanta musica avrà dovuto ascoltare per fare le sue scelte…
Ma noi avevamo una spinta molto più forte che non la sola questione promozionale: avevamo Karma Clima, e il grosso desiderio di andare in quel luogo per portare motivi di riflessione portando la fascinosa densità della nostra esperienza, da condividere e promulgare diffondendola. Il nostro progetto è stato dunque spiegato al “comitato” nel modo più approfondito possibile (ma al contempo sintetico: sia mai che si fosse potuto rischiare di ammorbarli con noiosi allegati illeggibili), e illustrato e descritto con amorevole dedizione. Abbiamo raccontato l’importanza di stare dalla parte giusta della storia, pensando ai nostri figli, alla necessità di non continuare a far finta di nulla, al dovere di suscitare consapevolezze nella gente, perché è solo tramite il volere della gente che il problema del surriscaldamento potrà essere affrontato con decisione. Avevamo tre pezzi: ciascuno a suo modo suggeriva un punto di vista elegante per ritrovarsi a riflettere, senza banalità moralizzanti, senza dita puntate, senza retorica. Uno raccontava la natura, la nominava, elencava i suoi elementi, e una lacrima sgorgava giù nel ritornello, discreta, pudica, quasi non vista, a esprimere, chissà, la forte emozione per ritrovarsi al cospetto di tanta bellezza o il rammarico di star perdendola… Chissà cosa esprimeva quella lacrima…
Un’altra, caustica, un po’ surreale, divertita, prospettava la vita su Marte, il luogo dove forse i super ricchi stanno pensando di andare a pararsi il culo. E una terza raccontava le angosce di una coppia che decide di appartarsi dal mondo in un eroico e disperato giorno di distacco dalle intemperie, provando a cibarsi nient’altro che di amore per fortificarsi e tornare a combattere (ma il finale erompeva nella consapevolezza disperata dell’impossibilità di riuscirvi, perché il mondo brucia…). Ma nulla. Amadeus non ha voluto cogliere. C’è sempre l’eventualità che fra gli scelti alla kermesse vi sia chi invece porterà gli stessi ragionamenti, magari saranno più di uno, e in quel caso, molto semplicemente, al direttore artistico i nostri tre pezzi avranno fatto schifo, nessuno escluso. Del tutto legittimo. (Ma sarà comunque bello se qualche altro artista avrà sentito le nostre stesse urgenze). Se non sarà, invece, penso di poter dire che Amadeus non ha voluto stare dalla parte giusta e inevitabile della storia, scansando i fastidi di avere a che fare con una band di signori ingombranti che rompono le scatole con questioni ingombranti.
«Il futuro è chiaro. Solo chi è più forte, cioè chi è più verde, sopravviverà». Pensate: queste parole le ha dette Federico Marchetti, il ceo di Yoox, vendita on line di abbigliamento, partito dal nulla e diventato imprenditore milionario. Ho molto rispetto per il tuo duro lavoro, Amadeus: sono certo che hai sgomitato tantissimo per tornare in auge e ritrovarti a essere un boss là dentro. È tutto meritato, e lo dico senza l’ombra di alcuna inutile ironia, anche se non mi è mai piaciuto molto il tuo stile un po’ democristiano, se posso dire. Ma il tuo duro lavoro è oltre questa affermazione legata al semplice gusto personale. Resta però spiacevole che tu non abbia saputo o voluto sostenere una valida causa. È un peccato. E tant’è: in qualità di direttore artistico avevi tutto il diritto di scegliere chi ti piaceva di più.
(E se vuoi iscriverti anche tu alla nostra newsletter… o se qualcuno del comitato vuole… repetita iuvant).
E in fondo amen. Là dentro forse avremmo sfigurato. E due volte di fila ci avrebbe fatto male.
Avanti tutta, resilienti as usual.
PS: un nostro concittadino, Matteo Romano, ha passato le selezioni per accedere dalla sezione dei giovani a quella dei big in gara. So che è un po’ provinciale questa cosa, ma me ne fotto e da cuneese (acquisito) formulo insieme ai Marlene Kuntz i migliori auguri per una esperienza magnifica e portatrice di successo o di belle emozioni da conservare per sempre. In bocca al lupo Matteo.