“Nessuno aveva ancora davvero accettato la malattia. Quasi tutti erano in primo luogo sensibili a ciò che interferiva con le loro abitudini o toccava i loro interessi. Ne provavano fastidio o irritazione, e non sono questi sentimenti che è possibile contrapporre alla peste. La loro prima reazione, per esempio, fu di prendersela con la pubblica amministrazione”
(Albert Camus, La peste, 1947)
Ricordo benissimo due cose in particolare dei giorni susseguenti la fine del lockdown iniziato a marzo. La prima: in giugno usciva il mio disco solista e l’emozione che provavo non era figlia di una semplice, limpida, cristallina eccitazione per la mia prima volta senza la band. Optare per giugno implicava anche la sofferenza del prendere una decisione rischiosa: i dischi stanno morendo, e la loro lenta agonia, orgogliosa e patetica al contempo, ha senso solo se la si pensa funzionale all’organizzazione di un nuovo tour. E siccome c’è questo invisibile nemico che si chiama Covid, i tour non si possono fare. La maggior parte dei miei colleghi preferì attendere i tempi migliori dell’autunno, quando tutto si presumeva si sarebbe normalizzato. Ma anche uscire oggi, purtroppo… «E non uscire proprio se non a vaccino trovato?», qualcuno potrebbe pensare. Beh, non tutti possono concedersi stop lunghissimi alle proprie attività, e il rischio calcolato diventa un’arma a disposizione per provare a sconfiggere il destino.
L’altro motivo per il quale ricordo in particolare i giorni susseguenti la fuoriuscita dal lockdown mi riporta alla piazza sottostante l’abitazione nella quale risiedevo in quel periodo in Roma. Tanto quanto nei mesi precedenti avevo notato una mirabile autodisciplina della gente, con il timore a rendere guardinghe e distanziate fra loro le persone in coda per il bancomat, per l’ortofrutta, per le poste, tanto da giugno in avanti notai un evidente rilassamento. La gente cominciò a tornare alle abitudini consuete, fra riavvicinamenti da aperitivo e smascheramenti in senso stretto. Ricordo il mio atteggiamento: sentivo che la cosa puzzava di pericolo, e li osservavo. Detta così sembrerebbe che io stessi quasi nascosto dietro a qualche punto di osservazione privilegiato o su una panchina senza alcuno al fianco, con piglio giudicante e moralizzatore, ma in realtà li osservavo mentre magari un amico stava finendo di dirmi qualcosa in un discorso avviato e fluente, nella stessa piazza dove c’erano tutti gli altri, noi due in piedi come loro, attenti a non mescolare i nostri fiati. Ovvero sufficientemente distanti fra di noi.
Gli aperitivi all’aperto si susseguirono: all’inizio avevo la mascherina, poi poco per volta scendeva giù, accartocciandosi sul gozzo, sia per bere (va da sé) che per parlare (non sempre, ma sovente). Ho passato l’intera estate a mantenermi in bilico tra quattro condizioni: mascherina un po’ su e un po’ giù e distanze a volte mantenute molto bene, altre un po’ meno, sempre tenendo a mente la necessità di stare attento. Mai o quasi mai, credo, sono stato perfettamente di fronte al mio interlocutore a meno di un metro e per più di qualche incidentale secondo o al massimo minuto (suppergiù, sia chiaro: a volte saranno stati 86 cm, altre 91, 80, o 113, o 112, o 118, o 115… ma anche 122 o 78, eccetera), e in quei frangenti ero comunque guardingo e pronto a spostarmi un po’ indietro se del caso (da 86 a 100 è un attimo: giusto un passo all’indietro senza dar troppo nell’occhio per non urtare la sensibilità altrui. Non come la Merkel con Conte, per capirci).
Ci sono state poi occasioni di ritrovo in case di amici o di inviti a casa nostra, e effettivamente lì dentro le mascherine difficilmente c’erano. Lo stesso dicasi per altri ambienti chiusi, tipo i camerini di un concerto o le code per entrare al cinema. Sempre in ogni caso tendevo a non avvicinarmi troppo agli altri, e sempre avevo a mente l’importanza della prudenza. In questo piccolo e facile esercizio di ritenzione del passato prossimo so di poter dire che notavo come una buona metà delle persone non paresse avere il benché minimo indugio: il virus non era nelle loro teste in quei momenti. Non sottolineo questa cosa con l’indice puntato: constato.
Per tutta l’estate dunque dentro di me una vocina ha riflettuto: «O il virus non c’è più, e tutto questo va bene, o il virus c’è eccome, e in autunno la pagheremo». Inutile dire quanta sorpresa provavo a vedere situazioni surreali. La più eclatante a Novara (non ho nulla contro questa città: quel che accadde lì sarà accaduto ovunque): spettacolo contingentato all’interno (l’evento si svolgeva nell’enorme cortile del castello della città) e rigorosissima applicazione di tutte le regole del distanziamento (firmacopie e foto fatte con massima cautela). E fuori, giusto fuori, in un enorme spiazzo quadrato che funge anche da parcheggio, una movida splendidamente chiassosa che punteggiava lo sfondo dei palazzi. Mi è limpido alla memoria quel guardare con stupore i poveri camerieri volteggiare con difficoltà da un tavolo all’altro coi loro vassoi pieni di calici giallognoli, zigzagando corpo a corpo fra i gruppi più o meno folti, compatti o sfilacciati, di ragazzi tutti rigorosamente senza mascherina e distribuiti anarchicamente ovunque. Va da sé: i camerieri ce l’avevano, e purtroppo era un nonsense. (Ma… come ho già detto nel mio ultimo articolo: pensate se si fosse applicato il principio del rigore e le forze dell’ordine avessero avuto il compito di controllare che tutti indossassero la mascherina, obbligando i riluttanti. Riuscite a pensare alla potenza di quel grido fomentato da certa politica che avrebbe diffuso ai quattro venti dell’indignazione le due parole tanto in voga: «dittatura sanitaria»? Ma ancora… ricordo di essermi imbattuto in qualcuno in rete sentenziare una cosa tipo: «Li lasciano fare per poter poi giustificare il nuovo lockdown di ottobre», con un rigiro funambolico del dubbio avvoltolato su se stesso in un parossismo da attitudine complottista degna di una sceneggiatura post Matrix, o in un inviluppo del ragionamento a spirale di miracolosa complessità. E la mia ingenuità resta ammirata e invidiosa per le qualità divinatorie di certuni: la usassero per migliorare per davvero il mondo…).
Da settembre in poi, più o meno fin verso la sua fine, ammetto di avere un po’ vacillato. Giusto un po’. «Ma se nulla sta accadendo, non è che il pericolo non c’è più? Se ne stanno approfittando?». Pensiamo all’Aids. Ricordo le riflessioni che nel corso del tempo cominciai a fare: «Quanta gente in questo momento starà scopando? Siamo 5 miliardi al mondo. Immaginiamo dunque che cinquanta milioni di persone in questo istante stiano scopando. Togliamo le coppie consolidate e perfettamente monogame: ne rimangono, a caso e ottimisticamente, 25 milioni, la metà. Togliamo coloro che stanno usando il preservativo: a essere sufficientemente ottimisti ne rimangono 10 milioni. Fra un’ora i 10 milioni saranno più o meno altri 10, diversi dai primi al netto dei maratoneti del sesso. Fra un’altra ora altri 10 ancora. In 24 ore 240 milioni di persone avranno fatto sesso senza preservativo al di fuori del rapporto consolidato e monogamo di coppia. Moltiplicando 365 per, diciamo, 210 milioni di scopate senza preservativo e con partner sempre diversi, dunque escludendo gli amanti a loro modo monogami fra di loro, fa un numero strabiliante di scopate a rischio ogni anno. Possibile che, se le cose stanno come ci hanno detto, l’umanità non si sia ancora autodistrutta?». Penso tuttora che sia un ragionamento non peregrino. E quindi, del tutto a posteriori, penso che l’Aids non fosse così facile da prendere come ci avevano detto. (Credo che anche questa affermazione possa ritenersi non peregrina, se non lo è la precedente). E intanto le case dei preservativi avevano probabilmente fatto un sacco di soldi.
Ma così va il mondo, che è ampiamente imperfetto.
E perché dunque ho vacillato a settembre, ovvero due mesi fa? Perché nulla stava apparentemente accadendo e gli ospedali erano felicemente sgravati dell’ingombro dei malati di Covid. Il mio tour scalpitava per poter venire effettuato, ma le restrizioni e i contingentamenti continuavano a esistere, costringendo me e il mio staff a pensarlo ridimensionato (nel mio caso vuol dire che dovevo ancora rinunciare alla formazione al completo, quella del disco, con mio grandissimo dispiacere). Siccome non stava accadendo nulla, nutrivo qualche dubbio: sapete com’è, la faccenda degli asintomatici che pur essendo positivi non degenerano e non rappresentano quindi un problema eccetera. Ero conscio che non è stato dimostrato che gli asintomatici siano o meno infettivi, ma il mio dubbio che ci fosse stata una esagerazione e che questa continuasse (simil Aids) aveva buon gioco a infastidirmi leggermente. Non mi avrebbe portato a una ribellione o a un grido isterico nella rete, ma tant’è.
Epperò ora eccoci. Il mondo soffre tantissimo e il timore sta tornando a strangolare i nostri aneliti di vita.
L’estate è finita, e come i virologi ci avevano detto, con l’autunno la carica virale è tornata prepotente. (Ovviamente per “quelli là” summenzionati, quelli che tutto già sapevano, questo è l’ovvio step di una trama ben nota). Io torno a mettermi la mascherina e non si verifica più che esca di casa senza ricordarmi di prenderla, come succedeva questa estate quando tornavo indietro maledicendo la mia distrazione: è presente nei miei pensieri, non me ne frega quasi nulla di averla indosso (certo, starei meglio senza: che ovvietà vero?), non mi sento per nulla imbavagliato e spererei ardentemente che tutti la pensassero allo stesso modo, non solo mettendola, ma adottando tutte le altre misure utili. Quando cammino da solo è tirata giù (perché è ovvio anche a “noi” che non serve a nulla all’aria aperta e da soli), ma essendo obbligatoria è pronta a essere tirata su se incrocio qualcuno o mi soffermo a parlare: è proprio per questo motivo che è obbligatoria. Banale no? Per “quelli là” e i loro seguaci io sono un covidiota (deliziosi certi neologismi di questo stralcio di contemporaneità deviata) e anche a causa di quelli come “quelli là” è quasi ovvio, semmai, che il lockdown ce lo ribeccheremo.
Il marito di mia cugina è un infermiere da sempre. La ex moglie di un mio caro amico pure. Stanno tornando a massacrarsi di turni atterriti e spasmodici, lottando per aiutare i malati in terapia intensiva a lottare contro la morte. Il cugino primo della mamma di mio figlio è in ospedale attaccato al respiratore. L’editore di un mio caro amico regista (col quale avrei dovuto fare il quarto video del mio disco, ovviamente saltato) è stato 13 giorni in terapia intensiva e, dice il mio amico, «il suo racconto è talmente di difficile digestione che fatico a tenerlo a mente. È vivo per miracolo». Delle suppliche di Calderoli vi ho già detto. Di quelle di Giannini anche. Ho un amico urologo, un amico psichiatra, uno otorinolaringoiatra, e un caro amico della mia compagna è, tu pensa, virologo: lavorano tutti in ospedale (tre a Cuneo, uno a Roma) e mi dicono che la situazione si sta ingolfando in modo molto preoccupante.
Infermieri e medici sono passati dall’essere eroi all’essere derisi e accusati di assecondare il grande bluff (in America il dottor Fauci, responsabile del comitato scientifico nazionale, gira con la scorta: lo assalgono quotidiane minacce di morte grazie a Trump che lo deride. Lo riscrivo: gira con la scorta. Un medico). Se circola un selfie di qualcuno di loro, infermieri e medici, gli si rimprovera di non perdere tempo a farsi i selfie (state pensando a un politico lombardo che piace a molti italiani, lo so), e gli si fa notare che sono pagati per fare il loro dovere: che non piagnucolassero troppo, o che smettessero di fare i vanitosi con le loro foto.
Che schifo.
Venerdì mi sono imbattuto in una persona che da un po’ vedo spesso, le mattine, qua a Roma. Una bravissima persona. La circolazione di cortesie e gentilezze fra di noi, o di semplici e genuini convenevoli, è densa e costante a ogni incontro. La sua premura mi ha aiutato in due occasioni recenti. Siamo finiti in discorsi riguardanti queste problematiche. Ho scoperto che non crede in nulla di ciò che il mainstream (sue parole) ci dice e che dunque gli ospedali sono pressoché vuoti, che il potere è talmente potente che ciò che accade in tutto il mondo è comunque voluto e guidato, che le informazioni se le va a cercare in rete dove si trova il vero e dove c’è la vera informazione (mi sia permesso un punto esclamativo di instancabile stupore, dolorosamente pronto a rinnovarsi ogni volta: !). Ovviamente con la mascherina ci privano della libertà, ci contano un sacco di balle, eccetera eccetera, in un lungo rosario di affermazioni che non potevo accogliere con un sorriso di compiacenza per quieto vivere: ho controbattuto invece, con piglio innervosito, a ogni stupidaggine, e fin che ne ho avuto voglia ho cercato di impedirgli di dare per scontato che il furbo fosse lui. Perché ritengo sia un dovere civico non soprassedere liquidando dentro di noi come un po’ stupido questo modo di pensare: c’è ben poco da ridere in verità. Perché se passa questa attitudine, e il rischio secondo me c’è, la pagheremo cara in tanti. Eppure: perché a un certo punto non ho più avuto voglia? Perché la capacità che hanno queste persone di ribaltare qualsiasi “verità” gli venga detta o scritta è mediamente ben superiore alla pazienza che uno possa decidere di utilizzare. E c’è qualcosa di strabiliante in ciò, quasi ammirevole. (Ma sotto sotto confido di aver saputo insinuare in lui qualche briciola di sospetto. E se pecco di ottimismo amen).
Dovrei applicarmi molto, ma molto, molto di più per affrontare questi argomenti delicati: analizzare questi fenomeni implica averne studiato le tante e svariate manifestazioni con una buona dose di onestà intellettuale, partire dai vari errori del liberalismo dopo la caduta del Muro nell’89 per arrivare alla controrivoluzione dei sovranismi, passare per la post verità, accennare all’odio fomentato contro l’informazione ufficiale (chi ha visto The Social Dilemma sa che a un certo punto si dice come si sia passati dall’era dell’informazione a quella della disinformazione, e questa affermazione non è certo rivolta in particolare ai giornali della carta stampata…), tenere a mente le frustrazioni sociali a cui ho fatto riferimento nei miei precedenti scritti… Ma non è il mio mestiere fare il sociologo. E se però non passo per la via dell’approfondimento è davvero inutile allora che io stia qui a scrivere di queste cose che sarà sempre molto, troppo facile controbattere (nell’era della post verità anche la verità più oggettiva non vale più a dimostrare un bel nulla)
Noto però che nei social la gente si sta armando della contro-pazienza necessaria, ovviamente contemperata (come potrebbe essere altrimenti?) da una inevitabile dose di contro-aggressività (quella per la quale, in un capitombolo di ruoli sorprendente, potenziali o veri fascisti, o semplici disorientati banderuole al vento, danno dei fascisti ai loro interlocutori, finalmente spazientiti dopo qualche anno passato a subire l’iniziale prepotenza dei primi), e dunque non si lascia più passare il peggio come pugili suonati: si controbatte con tenacia, non si molla l’osso, si insiste, si resiste. Era una cosa che auspicavo. A mali estremi estremi rimedi, alla faccia delle critiche al politically correct da parte di certe “correnti di pensiero” in voga di questi tempi. È una lotta. Ha un imprinting di natura culturale, è doveroso farla. Esattamente come i miei scritti qua, fatti in ossequio a una sorta di dovere etico. Che si sia arrivati a tanto, col popolo italiano sempre più diviso, è molto triste, ma irrigidirsi ora serve a scongiurare qualcosa di peggiore (sempre che si sia ancora in tempo… Se Trump ad esempio perdesse…).
Un ginepraio.
Non sono riuscito ad avere un moto interiore di indignazione per l’ultimo DPCM (quello che sta per essere sostituito da altre misure più stringenti), anche se sono un musicista e dunque parte in causa toccata nel vivo. Il DPCM è stato fatto per scongiurare il nuovo lockdown (a “quelli là” dico che non riesco a credere a nessun complotto dei poteri forti, nonostante mi sia ben chiaro che su questo pianeta siamo in troppi e tre o quattro miliardi in meno di umanoidi farebbero piacere a molti, alle alte sfere, qualsiasi categoria sociale inclusa a parte loro stessi), e si appellava al senso civico/etico e alla responsabilità dei cittadini. Se lo si stesse accettando con l’ennesimo spirito di rinuncia e di buon senso si può immaginare che forse non saremmo qua a temere la nuova imminente chiusura, perché il trend delle curve sui grafici starebbe, forse e lentamente, attenuando la sua spietata ascesa, fino a far sperare in una controtendenza. Non lo si è accettato. In tanti si sono allarmati (e come dargli torto? Sono molto allarmato anche io), in tanti sono atterriti per il loro futuro lavorativo (e come dargli torto? Lo sono anch’io), in tanti hanno manifestato prendendosela con una classe politica che per lo più fa quel che può, tra cose giuste e sbagliate, come tutti i politici nel mondo. Nel frattempo gli ospedali stanno per attraversare l’ennesimo periodo da incubo (lo attraverseranno ovviamente anche tutti coloro che dovranno andare in terapia intensiva, e lo attraverseranno anche coloro che, colpiti da altri malesseri più o meno gravi, magari un incidente d’auto, un infarto, un ictus, non potranno essere accolti in reparti straboccanti). Non ci credete che gli ospedali stanno per traboccare? Il marito di mia cugina e la ex moglie del mio caro amico, da Torino e da Cuneo, mi dicono che la situazione è forse anche peggio di marzo-aprile-maggio. Chi ha ragione? Io non ho il benché minimo dubbio, e dunque ho paura.
E sono molto arrabbiato (per quel che può importare) per l’irresponsabilità di molti: per me si può dire che è anche grazie a loro se tornerà il lockdown.
A queste condizioni come si fa a non chiedere a chi pensa ai complotti e deride: ma se un giorno toccherà a te o a qualche tuo caro, sarai disposto a lasciare il posto in ospedale, fra i pochi disponibili, a chi non ha mai messo in dubbio l’esistenza della pandemia e di tutte le problematiche che comporta? Sarai così coerente con te stesso e le tue critiche teleguidate da farti da parte e accettare la sofferenza a cui andrai incontro senza le cure del sistema sanitario nazionale?
Il problema del Covid non è il tasso di mortalità, perché è vero, muoiono principalmente gli anziani. Il problema del Covid è l’ospedalizzazione. L’influenza (tema tanto caro ai derisori più incalliti: «Il Covid è poco più che una influenza!») è la causa di tante più morti di quelle del Covid, e questo è vero, ma ciò accade nell’arco di 8/9 mesi. Lo stesso dicasi per le altre malattie, di cui si calcola il numero letale nell’arco di 12 mesi. Chi prende seriamente il Covid e ha bisogno di misure intensive lo sta prendendo in un periodo di tempo molto più ristretto: la curva dei malati si sta ingigantendo esponenzialmente, giorno dopo giorno, ora dopo ora, e lo stesso non si può dire, ad esempio, dei tumori, le cui nascite e sviluppi sono regolari su una linea di grafico nota e ampiamente prevedibile (non si dà il caso che a gennaio 2021 si preveda un incremento impronosticabile, inusitato, repentino, stravolgente, dei tumori del, che ne so, 70%: a gennaio ci si aspetta i nuovi tumori che arriveranno conformemente ai mesi precedenti, secondo un trend consolidato). Questo determina l’intasamento degli ospedali. Ed è questo il problema che assilla i sistemi sanitari e i governi di quasi tutto il mondo, perché quando gli ospedali traboccheranno per far posto ai malati di Covid (sofferenti e bisognosi di cure per non morire, visto che se curati difficilmente si muore), non ci sarà più spazio per altre malattie (un simpatico infarto, un trauma da incidente, la nascita di un tumore, un bell’ictus: li prendi e non c’è posto per te in ospedale. Mica male no?).
Com’è possibile non comprendere questa quasi banale verità? Com’è possibile non prevedere, come quando si opta per la stipula di una assicurazione sugli infortuni, che potrebbe capitare a ciascuno di noi? E come non temere, nel caso malaugurato, di rischiare di non trovare posto in ospedale perché una pandemia di nome Covid lo avrà riempito di altri pazienti? Perché tanta stoltaggine? Serve proprio toccare con mano per arrendersi a una banalità? Serve che lo becchi un nostro congiunto non troppo anziano per aprire gli occhi?
È dunque vero, domando, che la vera, unica informazione la si trova on line, dove in verità non rischi di trovar altro che affermazioni contrarie alle più evidenti banalità o alle più semplici verità se sei nelle camere dell’eco sbagliate? Bisogna credere a quel vergognoso video falso che fa vedere un cortile di ospedale vuoto e senza ambulanze in movimento? Bisogna credere a Trump che in verità i social media (Instagram, Twitter, Facebook) stanno cominciando a censurare per la criminale irresponsabilità di quasi ogni sua parola? Per queste cose (e non per poche altre) odio l’utilizzo malevolo di Internet, tremendo veicolatore di balle. E mi chiedo: perché c’è questo forte interesse a alimentare le balle? La risposta potrebbe essere: creare casini tali fra la gente (è più o meno ciò che sta iniziando a succedere) da poter ribaltare tutto e imporre le famose “democrazie illiberali” (cercatele su Wikipedia… fatelo), ovviamente dopo aver fatto sì che il popolo avesse messo “a testa in giù” i politici attualmente al governo, così tanto odiati. E se questo è essere complottista vorrà dire che in questo frangente lo sono anche io, ma io ho in odio i regimi, quelli veri, non quelli presunti (so immaginare i tanti borbottii e mugugni provocati mio malgrado da queste parole…).
(Ci sono anche le informazioni giuste in rete, è ovvio, ma se sei nel giro delle echo chambers sbagliate, a quelle info non ci arriverai mai. Perché gli algoritmi ti faranno sempre e soltanto confrontare con chi la pensa esattamente come te. Inequivocabilmente. The Social Dilemma docet. «Giuste? Sbagliate? E chi ti dice cosa è giusto e cosa è sbagliato?», ulula l’antagonista. Già, proprio così: non se ne esce. Ma io credo che non ci si debba stancare di impedire al peggio di proliferare, ed è una battaglia dura che solo la pervicacia della miglior pazienza potrà rendere vincente. O non perdente. Per scongiurare cosa? L’abbruttimento dei nostri consessi sociali, tra le tragedie di milioni di morti e atroci sofferenze che renderanno il conto finale salatissimo. In questo senso sì, come a una guerra).
Un po’ più che i miei soliti due cent.