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“Che cosa c’è dentro la scatola?” – bilancio personale di un anno di pandemia

Un proverbio svedese dice che il pomeriggio conosce cose che il mattino nemmeno sospettava. Che ne è stato dei nostri "ce la faremo" e "ne usciremo migliori" di un anno fa?

Foto: Antonio Masiello/Getty Images

“Cosa c’è nella fottuta scatola?”, gridava disperato il detective David Mills nella scena finale di Seven. Dal contenuto di quella scatola dipenderà l’intera trama del film, retta da un killer psicopatico per un ending non tanto happy, ma una morale che ci è rimasta incollata addosso per anni. Vale lo stesso per questo articolo: è il contenuto della scatola che mi interessa.

Ma partiamo dalle basi, il corpo. Come sentite le ossa in questo periodo? E le giunture? Provate a disegnare il segno dell’infinito col naso, come va la cervicale? Adesso vi chiedo uno sforzo in più: come state dentro? La testa sta bene? Un proverbio svedese dice che il pomeriggio conosce cose che il mattino nemmeno sospettava. Credo si riferisca alla crescita personale, spirituale e fisica, ma la bolla in cui siamo caduti mi porta a dargli una lettura più pragmatica: le giornate si sono riorganizzate in una nuova normalità, che l’anima fa fatica a digerire, ma che il corpo, grazie a quel brutto vizio dell’adattamento, vive con naturalezza attraverso una quotidianità rivelatrice di momenti nuovi, ore del giorno prima sconosciute e una FOMO (Fear Of Missing Out) non del tutto svanita, ma attenuata, stravolta, reinventata.

La bulimia da contatto con gli altri è stata in qualche modo risolta, la paura di perdersi qualcosa si è trasformata in paura di essere dimenticati, ma la selezione chirurgica di chi incontrare rende tutto più sano, profondo, ordinato. Il post prandiale, orario sempre faticoso sul posto di lavoro, in smart working assume un sapore più delicato in quel passaggio dal tavolo al divano, o anche solo per quella possibilità di concedersi un microsonno lontano da occhi indiscreti. Di contro i sogni sono diventati rari e confusi, a tratti sembra mancare l’aria, prima di dormire affiora un po’ di tachicardia e l’unità abitativa è diventata croce e delizia: quando si è in casa per mangiare, fare attività fisica, lavorare, riposare, ci si sente in gabbia, quando si è fuori per quelle rare occasioni di impegno a un certo punto si sente il bisogno di ritornare a casa. L’unità abitativa è diventata tutto. Noi stessi siamo diventati la nostra unità abitativa – la nostra scatola – imparando a (con)viverci con più pienezza, a volte angosciosamente, altre volte con sempre maggiore consapevolezza.

Vi è mai capitato di sentire ridere la notte, tra le mura dei vostri palazzi? Ci sono persone che ancora si incontrano, si divertono addirittura, a tal punto che quando mi capita di sentirle e non sono io provo un po’ di invidia, ma anche un po’ di gioia e di speranza, ammantata – ammetto – da un pizzico di paranoia: saranno voci spensierate nella mia testa? È passato un anno esatto da quando in tanti sentivamo l’urgenza di confrontarci su come cambiavano le relazioni e con esse noi stessi, perché guardare dentro la scatola, quando possibile e anche se può far male, è utile. Ricordo bene il momento in cui la natura ci mandò il messaggio che il nostro stile di vita non era più sostenibile, facendoci sentire inetti e immolati alla futilità, tanto che per reazione ci siamo dichiarati tutti pronti a lasciare le città, a porre rimedio allo sperpero dei nostri averi in bar e ristoranti, perché tutto è inutile al cospetto dell’universo. Sì, certo. 

Dunque, cosa c’è nella scatola ora? Siamo diventati esseri migliori? Lo diventeremo? Stando ad un primo, superficiale bilancio nessuno dei propositi di cui sopra si è realizzato, sembriamo solo tutti desiderosi di tornare semplicemente alla vita, con i cinema, i teatri, i concerti, gli aperitivi e tutte le cose – anche quelle brutte – di prima, centri commerciali compresi. Il blocco totale del comparto cultura, che alleggeriva le nostre “scatole” riempendole di sogni e bellezza, era anche sostentamento di tantissime persone, se pensiamo che nel 2020 sono andati perduti 16.495.600 di euro di ingressi in platea, e così solo ora ci rendiamo conto (spero) di quanto parte della nostra joie de vivre risenta di quella assenza.

Ma per rispondere alla me di un  anno fa, l’amore ai tempi del Covid è possibile! Ci si incontra ancora, ci si trova anche, ci si innamora addirittura, ma poi ci si lascia, ci si perde, ci si ritrova. Tutto come prima, in effetti, solo che con più intensità (nel bene e nel male). Non c’è più una finestra da cui affacciarsi, ma una fessura sul muro, un osservatorio ristretto, ma in qualche misura privilegiato, che ci smaschera, come fanno tutti i dolori della vita: non vorremmo mai provarli, ma ci forgiano, ci curano, ci concretizzano.

Non è un caso, infatti, che le richieste di aiuto agli psicologi – che Dio li benedica – siano aumentate in modo esponenziale. Ansia, insonnia, inappetenza, disturbi alimentari, depressione, attacchi di panico, difficoltà ad affrontare l’isolamento sociale e fisico, violenza di genere e familiare, manipolatoria e fisica, sono tanti i temi su cui sono interpellati in questo periodo più che mai gli specialisti dell’animo umano, da parte di tutte le classi sociali, e gli adolescenti sono i più colpiti. Tutto male, quindi, eppure siamo qui. Ma come stiamo ancora in piedi? Con la psicoterapia e la gentilezza. E la pazienza, la sospensione del giudizio e la creatività.

Ci stiamo accorgendo, chi prima chi dopo, di quanto le relazioni umane di qualità siano un modo di prendersi cura di sé, preziose per la propria salute mentale. Sono cresciuti quindi la consapevolezza e i percorsi individuali, ed è nato un nuovo senso di comunità pur nella individualità. In parallelo i più impotenti sono gli adolescenti che si stanno perdendo tutto ciò che a noi “adulti” ci ha resi quelli che siamo oggi – brutte persone diranno alcuni, ma sempre con ampi margini di miglioramento. La sospensione delle attività, fisiche e didattiche, e l’attivazione di quelle sostitutive a distanza non era prevista, né dal CCNL, né dal testo Unico, nè da nessuna norma precedente all’emergenza sanitaria. Un intero Paese “sospeso” non si era visto nemmeno negli anni della seconda guerra mondiale, quando le scuole restarono aperte.

Così anche lì la caratura delle persone gioca un ruolo essenziale: sono tanti i docenti di buon senso che si sono attivati per mantenere il contatto con i propri alunni “improvvisandosi” gestori di learning objects e classi virtuali. Non dirò resilienza, perché basta per favore troviamo un sinonimo, ma dirò saper stare al mondo, anche quando il mondo non vuole più stare con noi. Per i ragazzi però resta un disastro. Cosa c’è dentro la loro scatola? Paura, spaesamento, incapacità di aspettare di vedere la luce in fondo al tunnel, dipendenza dai cellulari, apatia nei confronti degli altri. Così sembra proprio che tutti i cittadini abbiano pari dignità sociale e sono uguali davanti alla pandemia, parafrasando l’articolo 3 della Costituzione, che per l’occasione vale per il mondo intero, dove in quel caso la pandemia non ha sospeso guerre, discriminazioni, problemi di razza e immigrazione.

Dopo l’incendio del campo profughi di Moria dello scorso agosto, per esempio, i Paesi europei avevano promesso il trasferimento di più di 5000 persone, ma ad oggi solo poco più di 2000 hanno trovato una sistemazione: una persona su cinque ha tentato il suicidio, le vittime di violenza sessuale e gli anziani sono stati detenuti senza motivo e i bambini hanno smesso di ricevere qualsiasi tipo di istruzione. Anche lì ci sono scatole su scatole di cui tenere conto, che non possono permettersi nessuna psicoterapia, nessun sostegno.

Ma la tempesta è comunque la stessa per tutti: alcuni sono in zattera, alcuni in gozzo, altri in yacht, ma tutti, in egual misura, non dobbiamo mai smettere di chiederci come riempiamo quella scatola, senza vergogna nell’ammettere che stiamo male, senza timore di essere giudicati fragili. Perchè quando la tempesta sarà finita, probabilmente non sapremo neanche noi come abbiamo fatto ad attraversarla e a uscirne vivi. Anzi, non saremo neanche sicuri se sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è che noi, usciti da quel vento, non saremo gli stessi che vi sono entrati.  Che dio benedica gli psicologi, sì. E Murakami.

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