«Prof, lei si considera una femminista?». Sono le domande più semplici a metterti in buca, e gli studenti un minimo svegli lo sanno. Lo sapeva questo ragazzino che, alle macchinette del caffè di un noto istituto milanese, è riuscito a instillarmi il dubbio: mi considero ancora una femminista? La prima risposta è «certo che sì»: credo nella necessità dell’uguaglianza retributiva, a parità di competenze; credo nel diritto all’aborto come, dove, quando si vuole; credo sia doveroso esigere una contraccezione non dico gratuita, ma almeno mutuabile; credo che alle madri spettino asili nido gratuiti sul posto di lavoro; credo che il congedo di paternità debba essere equiparabile a quello di maternità; credo che un Governo decente sia obbligato a tutelarci finanziando centri antiviolenza e varando politiche volte a liberarci dallo stereotipo di classe riproduttiva sfruttabile. Credo che il mio valore non vada misurato in termini di quanti figli faccio o non faccio, di quante volte mi sposo, del numero di uomini con cui vado o non vado a letto; non mi considero un individuo schifoso perché non ritengo l’aborto un omicidio, e rivendico il diritto di non sentirsi affrante, o dispiaciute, o contrite quando ci si ricorre.
«Prof, lei si considera una femminista?». Accidenti, certo che sì. Ho rifiutato lavori mal pagati; ho manifestato; ho firmato per petizioni e referendum, ho litigato a pranzi, cene, riunioni e aperitivi; ho cambiato ginecologi sordi di fronte alle mie domande e ai miei bisogni; ho interrotto relazioni che – anziché elevarmi – mi trascinavano verso il fondo. Mi considero una femminista, certo che sì, ma la lista delle cose in cui credo, per le quali mi sono battuta e per le quali tuttora mi batto, è inestricabilmente legata al mio essere biologicamente donna. Tradotto: al mio possedere un apparato riproduttivo femminile, al mio avere le mestruazioni, al disagio che la me dodicenne ha provato mentre il corpo cambiava e non ero più una bambina, al mio personale viaggio in seconda classe alla scoperta del maschio.
Questo però oggi non fa di me tanto una femminista tout-court, quanto una TERF, ossia una Trans Exclusionary Radical Feminist: il mio discorso, la mia visione, i miei valori, partono dal presupposto che il sesso sia un fatto biologico e il genere una costruzione sociale, e gli esponenti del post-femminismo hanno deciso fosse opportuno coniare un insulto per additarmi. Il mio peccato originale? Non includere nella conversazione le donne trans, in quanto appunto “donne trans” e non “donne”, persone cioè che non hanno mai vissuto – né mai vivranno – la mia esperienza di donna nata con una vagina. TERF è l’ennesimo acronimo coniato e utilizzato principalmente da attivisti trans e queer per mettere a tacere le donne in maniera prepotente; per condannarle, umiliarle, respingerle e minacciarle. Che a ben vedere è un’attitudine maschile (forse perché, al di là del “sentirsi” donne, parecchie trans continuano ad avere il pisello tra le gambe, quindi a essere uomini?), parte di una serie di comportamenti e atteggiamenti mirati a negare lo spazio che occupo e le mie prerogative, nonché a denigrarmi. In una parola, comportamenti e atteggiamenti che posso soltanto definire antifemministi.
Giovedì scorso, sulla newsletter Common Sense with Bari Weiss, è stata pubblicata una riflessione di Zoe Strimpel quanto mai puntuale e onesta. Strimpel parte dal titolo di un articolo del Washington Post (Pregnant people at much higher risk of breakthrough Covid) per chiedersi come sia stato possibile arrivare al punto di non poter più scrivere «donne incinte». Le «persone incinte» non sono forse donne? Che fine ha fatto il famoso «I am woman, hear me roar»? Per quasi duemilacinquecento anni le donne hanno combattuto, cercando di uscire da un’antica misoginia, intimamente repressiva e spesso violenta: proprio adesso che stavamo per raggiungere l’agognata Terra Promessa, alcune hanno iniziato a voltare le spalle di fronte al progresso, cancellandoci.
Negli anni Settanta, le donne – per lo più bianche, della classe media e provenienti da città come New York, Boston, Londra, stufe di essere un accessorio dei loro compagni di sinistra – fondarono un nuovo movimento, il Women’s Liberation. Nei primi anni, il Women’s Liberation era sostenuto da donne benestanti, ma presto diventò il movimento di madri, figlie, mogli, donne che lavorano, donne povere e donne regolarmente picchiate da fidanzati e mariti. «Incarnavano una politica d’azione: protestare, scrivere, fare pressioni, allestire rifugi. Hanno formato organizzazioni tentacolari a livello nazionale», scrive Strimpel. «Al centro della loro politica c’era la consapevolezza della propria fisicità, una profonda comprensione del fatto che le sfide che le donne hanno dovuto affrontare erano legate ai corpi in cui erano nate. Sfruttamento a casa e al lavoro, minaccia di violenza sessuale, disparità di retribuzione: tutto questo era una funzione del loro sesso».
Già nel decennio successivo, le donne annoveravano diverse vittorie: la parità di retribuzione era la legge (sebbene non sempre la realtà); il divorzio consensuale diffuso; l’aborto sicuro e legale. Le donne andavano al college, accendevano mutui, praticavano sport competitivi, facevano sesso occasionale ed entravano in politica. Sulla scia di tali conquiste, il movimento comincia a perdere vigore, contraendosi, scheggiandosi e aprendo un vuoto: gli accademici allora assumono il comando, dirottando la causa. «Le professoresse femministe si permettevano il lusso di non preoccuparsi delle questioni concrete per cui le femministe più anziane avevano combattuto, potevano trascorrere le giornate a riflettere sul loro personale femminismo, esplorandolo, reinventandolo e rifiutando le vecchie ortodossie. (…) Questo femminismo iper-intellettualizzato, abbracciando un linguaggio a sua volta iper-intellettualizzato, escludeva la maggior parte delle donne. Da attivismo s’è trasformato in teoria, dal concreto è passato all’astratto, da un movimento che cercava di liberare le donne dalle discriminazioni imposte dal sesso è diventato una scuola di pensiero più interessata al genere».
Il sesso, per gli accademici, era un concetto antiquato: grezzo, carnale, ovvio, roba da donne qualsiasi. Il genere era invece affascinante: punto di partenza per una teorizzazione senza fine che – a ogni documento, articolo, libro o conferenza – diveniva sempre più astrusa, più distante dalle sfide quotidiane affrontate dalle donne comuni. «Il nuovo femminismo aveva scarso interesse a cambiare la realtà politica o economica. Era come un indumento elegante che solo i ricchi potevano indossare». L’individualismo è una specie di ritrovata religione, il concetto di classe viene completamente distrutto e sostituito dalla ricerca di inutili identità. «Per il quarto di secolo successivo, questo post-femminismo poco legato alla vita reale, al lavoro, alle mestruazioni, all’allattamento al seno, rimane per lo più confinato nei campus universitari, finché, negli anni 2010, nasce il movimento transgender. Non è un caso che l’ascesa dell’ideologia di genere coincida con il tanto atteso esaurirsi della causa femminista. L’ascesa dell’uno e il declino dell’altra sono infatti strettamente correlati alla nostra feticizzazione dell’identità: la lotta per i diritti dei transgender al di là di quelli biologici delle donne, proprio come la guerra al razzismo sistemico, si sposa perfettamente con la nostra nuova politica di identità».
Sfortunatamente, la politica dell’identità non può accontentarsi di difendere i diritti delle donne, i diritti della comunità LGBTQ+ o i diritti dei neri, ma deve persistere nella sua ricerca di identità sempre più ristrette. Ognuno ha diritto a un’identità, o a una pletora di identità; ognuna di esse dev’essere su misura – individualizzata – e qualsiasi tentativo di tenere a freno tale ricerca è contrario alla lotta senza fine per l’inclusività. Nonostante tale inclusività mini i diritti delle altre persone, come le donne.
Questa dinamica, dove l’interesse più marginale prevale sul resto, ha preso il sopravvento nonché aperto la strada a un importante dirottamento da parte dei maschi biologici. Pensiamo al significativo caso di Lia Thomas, la ventiduenne transgender che ha recentemente vinto la finale delle 500 yard stile libero femminili dei Campionati di prima divisione dell’American University (NCAA) ad Atlanta. «La decisione della NCAA di far competere Thomas nella squadra femminile è stata un chiaro segnale: si trattava di preferire le donne transgender alle donne biologiche per le quali la squadra era stata creata. La NCAA era dunque d’accordo con tutte le attiviste trans e le femministe post-moderne sul fatto che non esista alcuna reale differenza tra donne trans e donne biologiche, specialmente dopo un anno o due di bloccanti del testosterone. Posizione che gli scienziati hanno largamente dimostrato essere falsa».
La NCAA ha agito indisturbata: i gruppi femministi che non molto tempo fa si sarebbero opposti a gran voce non hanno battuto ciglio, incluso il più importante (la National Organization of Women), che ha barattato la sua instancabile campagna a favore delle donne con la difesa di politiche che «promuovono un’agenda femminista antirazzista e intersezionale». Io, da donna, da femminista, mi sento tradita. E abbandonata. Il post-femminismo s’è tramutato di colpo in un antifemminismo che non vuole liberare le donne, ma anzi le vuole spingere in una specie di cul de sac ideologico. «Azzardare una risposta alla domanda “Puoi fornire una definizione della parola donna?” significherebbe ricentrare le donne, il sesso biologico, l’esperienza concreta e banale di donne comuni, noiose, borghesi, della classe operaia e delle frange più povere. Significherebbe tentare di annullare il dirottamento della causa femminista e restituirlo alle persone per le quali quella stessa causa è stata creata tanti decenni fa».
«Questo è l’unico modo per salvarla e mitigare le tante discriminazioni che ancora oggi ragazze e donne devono affrontare: la violenza domestica; lo scotto economico e psicologico dell’avere figli; le molteplici ferite e crimini inflitti in Paesi non occidentali semplicemente perché nate donne», conclude Strimpel. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti, aggiungo io. Rimanere una ferma sostenitrice della battaglia per i diritti dei e delle transessuali non è in conflitto con l’affermare che il sesso è – e rimarrà per sempre – reale. Se ciò comunque implica il mio essere una TERF amen, non sarà di sicuro una definizione denigratoria a mettere in crisi le mie convinzioni. Il punto è che, forse, per poter andare avanti, occorre fare un passo indietro e ritornare ai principi fondanti del femminismo: la prossima volta che uno studente mi chiederà «Prof, lei si considera una femminista?», non voglio avere dubbi. «Accidenti, certo che sì».