Ho sempre amato e seguito Sanremo. L’edizione del 2021 fu peculiare. Quelle che di solito erano canzoni tanto scadenti quanto dimenticabili, in quell’occasione furono degli orrori lovrecaftiani che sbracciavano per farsi notare, fra prese di posizione estreme e ostentate sui problemi del mondo (benedetto maccartismo) e missioni piacioniche limone e zenzero. Un circolo dei mostri. Tra gli altri gargoyle però c’era un’eccezione: Avincola. Con questo baffino da sieropositivo anni ’80, con questo completino da cosplayer di se stesso, con questo tono da persona che non conosce aggressività pure in un tamponamento in cui ha ragione. Mi colpì subito e la sua canzone Goal era niente male.
Ai tempi scrivevo su questa rubrica la leggendaria saga Casa Coma Cose e mi venne naturale immaginarlo come antagonista, come un Don Rodrigo che attenta alla fedeltà adamantina di California per Fausto. Tempo dopo mi contattò in privato per dirmi che aveva apprezzato la cosa e mi fece piacere. Tempo ancora dopo mi disse di aver letto su queste pagine il mio pezzo Letti e di volerci ricavare una canzone. Se mi dicevano che avevo un brutto male sarei stato più contento. Per disincentivarlo, gli dissi che quel pezzo era stato sviluppato ulteriormente nel mio ultimo libro, Confessioni di una Coppia Scambista al Figlio Morente. «Ora sono in viaggio e il testo definitivo ce l’ho su fisso, te lo mando appena rientro», gli dissi, sperando se lo dimenticasse o capisse l’antifona, come tutte le persone normali. Il giorno dopo mi mandò una foto col libro, se l’era comprato.
Cosa si prova ad essere Avincola, oggi, nel mondo occidentale?
È una grande responsabilità, anche perché nessuno riesce a scrivere canzoni come lo faccio io, modestamente. Capita che mi fermino per strada per toccarmi i baffi o chiedermi quando esce un prossimo pezzo o un nuovo concerto e queste ultime due cose – mi faccio serio – mi riempiono di gioia. Faccio il cantautore perché, oltre a essere l’unica cosa che so fare, spero che qualcuno si possa riconoscere nelle mie parole e nella mia musica.
T’invidio: io avrei sempre voluto fare il cantautore, ma sapevo di non averne le capacità e mi sono buttato sulla scrittura, ambito di cui non me ne è mai potuto fregare di meno. Come nasce l’Avincola cantautore? Ed era il tuo sogno esserlo, la tua prima scelta?
In realtà avevo un piano parallelo, mi sarebbe piaciuto anche fare il regista ma davanti alla scuola di cinematografia c’erano dei ragazzi molto simpatici che mi offrivano da fumare e quindi ho varcato il cancello pochissime volte, collezionando una serie di bocciature a ripetizione. Quindi sono finito per essere regista delle mie canzoni. Posso scegliere un finale come mi pare, è l’unico modo che ho per trasformare la realtà. Per quello che riguarda la passione per i film invece, a volte traggo più interesse e stimoli dalla tv spazzatura.
Le tue canzoni sono sempre dolci senza mai essere dolciastre, senza mai prendere la strada più facile della melassa e della ruffianeria. Penso che è la prima cosa che ho avvertito di te è il tuo essere un duro e puro, lontano dalle pose. Questo ti ha conferito subito autorevolezza ai miei occhi, nonostante una tua mancanza di aggressività che secondo me – e non avermene – è da curare in psichiatria. Non è una domanda, è solo per darti il la.
Beh, innanzitutto mi fa davvero molto piacere che tu legga in me tutte queste qualità (che tra l’altro sono le uniche che possiedo). Ho sempre voluto riflettere sincerità nelle cose che scrivo, mi sentirei scomodo a recitare una parte. Le mie canzoni spesso sono dolci, è vero. Credo che attraverso la dolcezza si possa giocare molto coi contrasti reali e violenti della vita. Poi se mi dici che questa mancanza di aggressività sarebbe da curare in psichiatria, non ci avevo mai pensato. Ne parlerò col mio psichiatra…
In generale nelle canzoni mi fa sempre la differenza la melodia, ben più della veste sonora e dei testi. Amo molto le tue melodie. Di facile presa ma mai banali e sempre molto naturali e morbide. Quali sono i tuoi riferimenti musicali in tal senso? Non tanto i tuoi musicisti preferiti, ma quelli di cui più apprezzi la capacità compositiva. Ti dico i miei: Burt Bacharach, Francesco Bianconi e Noel Gallagher.
La melodia per me è tutto. Certe volte ti racconta più delle parole. Ho un rapporto strano però con i musicisti, mi capita di sentirne alcuni tecnicamente ottimi ma che non mi danno niente e viceversa ne ho ascoltati di pessimi che sapevano trascinarmi. Di bravi e originali metto sul podio tre chitarristi che apparentemente non hanno nulla a che vedere con i miei immaginari: Jeff Beck, Mark Knopfler e Jimi Hendrix. Quest’ultimo è un po’ che non si sente in giro. Peccato.
I tuoi testi sono sempre pieni di oggetti, feticci, materialità. Ho sempre pensato che gli oggetti sono le uniche cose che non ci tradiscono. Mentre vediamo i nostri cari invecchiare, lo Stecco Ducale della Sammontana ha lo stesso sapore che aveva negli anni ‘80. Come ti poni verso il tempo che passa? Letti, il tuo ultimo singolo, parla anche di questo.
Sono d’accordo con te. Sopratutto ce ne andremo anche noi e quegli oggetti resteranno lì. Per cui le cose apparentemente banali che tocchiamo e sfioriamo tutti i giorni, per me hanno un fascino profondissimo. Il mio rapporto col tempo è lo stesso del movimento punk che si identificava con la frase “No Future!” dei Sex Pistols. Cioè in pratica il futuro non esiste. Mi muovo nel presente che mentre scrivo è già passato. Il passato invece spesso mi attrae. In Letti ci si può tuffare nel passato con gli occhi di chi sa quale sarà l’inevitabile finale futuro.
E, appunto, parlaci di Letti.
Quando ho letto il tuo monologo Letti proprio qui su Rolling Stone, sono rimasto scioccato. Non mi era mai successo di emozionarmi così, leggendo un testo. Credo che in Letti ognuno possa ritrovare una parte di sé. Io mi ci si sono immerso con il gusto di volerci affogare dentro. Mentre scendevo giù nell’abisso delle tue parole, ho sentito addosso una scarica di pugni e carezze, calci e abbracci, sputi e baci, coltellate e cerotti. Mi sono reso conto di quanto possa essere violenta la nostalgia e di come i contrasti che si porta dentro ci formino come esseri umani. E poi c’è questa cosa geniale di raccontare una vita in ordine cronologico, in uno stile quasi cinematografico in cui tutto si muove su i letti nei quali abbiamo steso le nostre esperienze. Ma come ti è venuto?? Dovevo trasformarla in una canzone e come sai te l’ho chiesto e tu mi hai detto subito che era una bellissima idea – sicuramente fingendo entusiasmo –, ma come si può resistere ai miei occhioni dolci da cerbiatto?
Sugli occhioni da cerbiatto: peccato che a me piacciano le donne. E tanto. Domanda interludio di metà intervista: qual è la canzone più bella dell’album più brutto del tuo gruppo (o artista) preferito?
Va bene se ti dico Turisti del mio brutto album Turisti? Così la gente che leggerà questa intervista va a sentire e mi aumentano gli ascolti su Spotify. Grazie in anticipo.
Come sai ho sempre amato e seguito Sanremo. Nell’edizione cult del 2021, il cui direttore artistico pareva essere Lucio Fulci, la tua canzone era un bug di sobrietà e misura. Come ti sei trovato? C’è stato qualche gargoyle e qualche viverna con cui hai stretto amicizia?
Dici che ero sobrio? Mi sono presentato con un vestito di un arancione sgargiante e un pallone da calcio sotto il braccio! E chiaramente l’ho fatto apposta. Volevo divertirmi. La cosa che pensavo mentre scendevo le scale era: «cazzo! Qui ha cantato Vasco Rossi! Lui arrivò ultimo e anche io spero di non essere capito». E per fortuna è successo. Ora spero in un futuro più o meno simile al suo. Dato che era periodo di Covid, non ho avuto l’occasione di conoscere molti colleghi, a parte quella storiella con Francesca dei Coma Cose che hai svelato tu ma vorrei evitare di parlarne. Sono cose private.
Una curiosità mia, non per forza marginale: i baffi da sieropositivo anni ‘80 su volto scavato che pare raccontare l’uso di AZT e altri antivirali. Una scelta casuale o mirata? Oppure la malattia è reale? Nell’ultimo caso ovviamente mi dispiacerebbe, anche se oggi col cocktail di farmaci non è più come ai tempi di Rock Hudson e Dario Bellezza.
Mi pare che ne abbiamo già parlato. Mi hai costretto a risponderti con ben due video sulla tua pagina Facebook. Mi stai rovinando la carriera (che tra l’altro non è ancora iniziata). Non è il caso di finirla qui con questa storia?
Sei stato amico di Roberto “Freak” Antoni. Ti va di raccontarci come è nata questa amicizia? O magari un aneddoto?
Spesso mi diceva: «Spero davvero di cuore che tu possa vivere di un notevole e duraturo insuccesso per tutta la vita». Era il suo modo per dirmi che mi voleva bene. Freak era un poeta e viveva come tale. Custodiva nel portafogli infiniti fogliettini dove appuntava sue frasi poetiche di una profondità allucinante. Una volta passeggiavamo per le strade di una Bologna innevata e silenziosa. Si fermò di scatto, sgranò gli occhi, raccolse da terra un cucchiaino da caffè e se lo infilò felicemente in tasca. Faceva collezione di oggetti inutili. Da quel giorno ho iniziato a pensare che forse nessuna cosa è inutile veramente.
Cosa farai oggi oltre ad assumere antiretrovirali?
Ma perché insisti? Perché fai così? Comunque non farò nulla di speciale. Noi cantautori facciamo i fighi sui social ma in realtà conduciamo vite piuttosto ripetitive e noiose. Almeno per me è così. Devo fare la spesa, portare giù la mia canona Blanca a fare la pipì e poi rifletterò su come fare un sacco di soldi.
Ti va di salutare gli amici di Rolling Stone?
Ciao ciao amici di Rolling Stone! Un saluto a voi e a tutti quelli che mi conoscono!