Quand’ero bambino, divoravo letteralmente qualsiasi cosa fosse catalogabile come “dell’orrore”. Fossero film, fumetti, giochi da tavolo, figurine degli Sgorbions, numeri de Lo Sporcaccione, Minischifezze, pròtesi, pure qualche libro di Stephen King che compravo ma non leggevo ma compravo, rigorosamente nell’edizione rilegata del Club degli Editori.
Come per molti miei coetanei, vivevamo le settimane estive solo e unicamente proiettati al venerdì notte, perché su Italia1, in seconda e terza serata, c’era da beccarsi due film dell’orrore uno via l’altro, oltretutto interrotti da poche reclami. Erano anni a cavallo fra gli ’80 e i ’90, quelli dell’indimenticabile programma contenitore Zio Tibia Picture Show, col pupazzo conduttore doppiato dal Piero Ubaldi dei cartoni. E fu in quelle double-feature da carbonari che conobbi titoli quali Ammazzavampiri, Unico Indizio la Luna Piena, L’Occhio del Gatto, Chi è Sepolto in Quella Casa, La Casa di Helen e tante altre più che decenti pellicole anni ‘80. Ma, chissà come, alla fine c’era sempre un motivo per cui rimanevo almeno un filo deluso. Un po’ come quando vidi per la prima volta uno dei due film dell’orrore dei grandi per eccellenza (l’altro era L’Esorcista): Profondo Rosso.
Per dire, a me i film di Dario Argento non hanno mai fatto né caldo né freddo. Un assassino in impermeabile, guanti neri e cappello a tesa larga che t’aspetta dietro una porta armato di rasoio e carillon e si mimetizza con uno specchio poteva esistere pure nella vita reale, quindi non mi stupiva. Anzi, era più facile che mi ci riconoscessi. Al contrario – penso al segmento di George A. Romero in Due Occhi Diabolici – il cadavere del dottor Valdemar sul suo letto di morte, in decomposizione da giorni ma in sospensione mesmerica, da cui fuoriesce la sua voce lontana, spettrale e colma d’angoscia che descrive cosa c’è dopo che si smette d’esistere. Beh, quella era roba da imboccare la finestra più vicina e buttarsi di sotto per gli spaventosi, oscuri e vertiginosi scenari che dava in pasto alla tua immaginazione.
Ma le pellicole più belle le davano d’inverno su Italia7, in notti infrasettimanali che poi la mattina dopo andavi a scuola. I miei non mi facevano stare alzato fino a notte fonda. Non me lo permettevano per Biberon o Indietro tutta (sentii la sigla finale solo nel Discao Meravigliao), figuriamoci per i film di paura. Ma visto che i miei erano elettori di Spadolini, in casa mia vigeva da sempre la meritocrazia, così fin da piccolo mi davano un discreto ascolto. Quando passai alla Prima Comunione, mi feci regalare un videoregistratore (un indiavolato Phillips a due testine che attirava tutti i fulmini della Valdichiana) e, durante quelle notti di sangue e moncherini, obbligavo mio padre a stare in piedi perché amputasse le pubblicità. D’altronde io sono un incurante solo con me stesso, per il resto sono sempre stato un precisino, morboso, unticcio e manipolatore
del prossimo. Mio padre detestava i film dell’orrore, amando solo quelli di gangster e i lacrimarelli tipo Incompreso o le fiction con Gianni Morandi, ma non disdegnava nemmeno le morti di Corrado Cattani ne La Piovra 4 da passare alla moviola. E però, pur controvoglia, restava sveglio, forse intuendo d’avere un figlio con la “luccicanza”.
Purtroppo, il giorno dopo, quando andavo a rivedermi il film, scoprivo puntualmente che mi aveva tolto solo le pubblicità del primo tempo. Allora diventavo idrofobo come Cujo. L’uomo dal canto suo si giustificava dicendo che, povera stella, a un certo punto s’era addormentato perché era stanco, ché in banca aveva fatto gli straordinari e si sarebbe alzato alle sei di mattina per guadagnare quel tanto che basta per comprarmi le espansioni di HeroQuest. Io gli rispondevo con poche semplici parole: “Esistono i caffè, gli incantevoli caffè”. Che poi, a rivedere oggi quelle cassette, la cosa più bella erano proprio le pubblicità del Carpené Malvolti e dei gelati Chiquita. Ad averlo saputo.
Su Italia7 scoprii film pazzeschi. La Casa di Sam Raimi, per esempio, l’unico film dell’orrore che mi abbia da sempre, oltre che angosciato, attivamente terrorizzato. Tipico horror-comico dove non ho mai trovato niente, ma proprio niente da ridere. Cosa vuoi ridere della ragazza di cui sei innamorato che diventa un demone kandariano e devi farla a pezzi con la motosega e però all’ultimo momento torna in sé e la ami ancora di più ma poi no, era solo un riflesso nervoso e allora giù di motosega e lacrime ma soprattutto purtroppo di amarissima, scosciata motosega. Cosa c’è da ghignare nottetempo nella decomposizione più isterica e spaventosa concepibile, ovvero quella che chiude il film? Roba che, pure quando pare finita, c’è ancora tempo per quel dettaglio isterico del purè Knorr che esce lentissimamente dal polso! La Casa era l’unico film che, per vederlo, accendevo il televisore, facevo partire la videocassetta e uscivo da camera mia. Lo spiavo dal corridoio, in piedi, con dalla porta accostata, col volume rigorosamente a zero (la voce dei morti era quello che mi spaventava di più). Altro livello rispetto ai film horror per famiglie dello Zio Tibia, sovente oltretutto tagliati.
Su Italia7 scoprii capolavori come Zombi di Romero, Ghoulies II di Albert Band e soprattutto Creepshow, sempre di Romero, una delle cose più belle mai viste in natura. La versione televisiva aveva un episodio in più rispetto a quella cinematografica e, oltretutto, era il più bello dei cinque. Già il titolo era qualcosa: La morte solitaria di Jordy Verrill. Unico attore in scena era nientemeno che uno strepitoso Stephen King, anche autore della sceneggiatura. L’episodio raccontava di un malinconico e solitario redneck della Louisiana nel cui giardino, una notte, si schianta un piccolo meteorite. Jordy sogna di svoltare vendendo quei “cocci di meteorite” a qualche fantomatico ente scientifico, ma non sa che toccandolo ha contratto un virus che lo trasformerà lentamente in erba. E l’episodio scandisce implacabile proprio l’ultima notte della vita del bifolco. Quando, per chissà quale allineamento astrale, ritrovai quel personaggio omaggiato nel prologo de L’isola misteriosa, un superbo albo di Dylan Dog firmato da Tiziano Sclavi per i disegni di Carlo Ambrosini, fu lì che compresi che della vita avevo capito già tutto e da allora in poi avrei potuto pure fallire tutto il resto e tanto sarei finito in credito.
A scuola non facevo che raccontare a tutti quell’episodio e quanto fosse struggente e doloroso. E, nel raccontarlo, centellinando ogni riga di dialogo, mi emozionavo anche più che a vederlo. Purtroppo, proprio perché era stato tagliato dalla versione cinematografica e da quella per il noleggio (Edizioni Multivision), nessuno mi credeva. Né i compagni di classe, né le maestre, meno che mai i bidelli, forse appena appena il provveditore. Pensavano che il film non l’avessi proprio visto e volessi solo farmi bello. Addirittura la maestra Donella mi mandò nella classe della maestra di quinta per raccontare di questo episodio, così che tutti mi avrebbero riso addosso, preso di mira con la cerbottana e adeguatamente umiliato tipo Carrie ma senza telecinesi. Poi, non sazia, la maestra mi scrisse sul diario un messaggio da recapitare ai miei, perché voleva parlarci. Era sicura che avessi la meningite, solo per il fatto che mi ero convinto e fissato di aver visto un episodio che in quel film non c’è. E i casi erano due: o i miei mi facevano curare dal professor Cagnato oppure, se si fossero rifiutati, voleva dire che stavo prendendo in giro tutti e in quel caso avrei rischiato la bocciatura. E poco gliene fregava se ero il primo della classe. Un accanimento che, pur adesso che sono passati trent’anni, ho digerito, perdonato ma mai capito fino in fondo. Purtroppo la maestra Donella morì cinque anni dopo, infilandosi nel cranio un coltello elettrico per surgelati a causa della diagnosi di un tumore al seno, che poi si rivelò errata.