Ce lo raccontavano i nonni, col plaid sulle ginocchia e riempiendo la pipa di tabacco da sniffo: ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, si cercava di inghiottire il maggior numero possibile di uova, strutto, stoppa, brogliacci e aringhe perché forse non ci sarebbe stato domani. Il cibo era solo cibo ed era codificato in pesi, litri, porzioni e quantità, non c’era tempo per altro perché si doveva scappare dai partigiani vendicativi. E pare incredibile come mandando avanti il nastro il tempo d’uno starnuto, il semplice atto del nutrirsi abbia ormai ben poco a che spartire col gesto funzionale, meccanico, banale e financo disperato del tempo che fu.
Prendiamo ad esempio gli incantevoli bar. È evidente come nel nuovo millennio anche acquistare un cappuccino rovente (fateci caso: costano pochissimo) e gettarselo in gola di prima mattina sia diventato un gesto sociale che veicola chi sei, come la pensi, che ore sono, cosa ha fatto la Sampdoria ieri fuori casa col Lanerossi. Ma soprattutto è un atto artistico di cui, oggi come non mai, c’è assoluta urgenza.
Del resto Aristotele ci insegna che solo la bellezza può assurgere a cura in un mondo di volgarità, menefreghismo e consociativismi. E la bellezza – nell’accezione più polinesiana del termine – può essere – perché no – proprio in quel cappuccino. Oggi non è più una priorità che gli alimenti siano “nutrienti”, ma piuttosto naturali, sani, con la curcuma e a basso impatto ambientale, quindi cappuccini fatti col latte di uscito dai seni delle manguste e i Pocket Coffee scolati dentro, magari serviti in una tazza “letteraria” ricavata dalla ceramica del cesso di Pasolini con decorazioni fecali del minorenne Pelosi e il cucchiaino in acciaio usato da Cesare Battisti per evadere dal carcere di Fox River.
Non vogliamo un cappuccino che si limiti ad essere tiepido e senza grumi, bensì un cappuccino che si racconti e, soprattutto, ci racconti. Chi ne ordina uno versato in un bicchiere di vetro non lo fa più perché gli viene bene vedere che dentro non c’abbiano infilato una svastica o una bomba a mano, ma per godere del meraviglioso spettacolo estetico tipico delle bevande vetrate.
Fa bene al cuore suggere un cappuccio in vetroresina mentre la città è ancora sonnacchiosa, intanto sfogliare indolenti un quotidiano in carta di riso, ascoltando Antony and the Johnsons in cuffia, con addosso una maglietta con la foto dell’ex ministro Rotondi e un tritone agonizzante che spunta dalla tasca dei calzoni. Sorbirlo lentamente, sinuosamente, chiudendo gli occhi per ascoltare meglio la storia che quel latte ci racconta, facendo sì che quel semplice momento di quotidianità diventi evento per gli altri, bellezza, incanto, sense of wonder, che si ammanti di quel lirismo che farà sì che i passanti si interroghino su chi sei, cosa pensi, quali sono i colori del tuo buio e le loro più scarnificate verità. Un cappuccino che metta in discussione anche loro stessi. Senza contare che fra quei passanti magari c’è anche qualche bella troia.
Una richiesta di bellezza da noi invocata, titillata, masturbata, che trova complicità anche di là dal bancone. Negli ultimi vent’anni è diventata infatti abitudine di alcuni incantevoli bar che il cappuccino venga adeguatamente decorato prima d’essere servito. Ho parlato di abitudine e mi si perdonerà se l’aggettivizzo con “gran buona” (abitudine, per chi avesse iniziato a leggere solo ora). E c’è forse modo migliore per iniziare la giornata, se non con un sorriso? Oggi la collettività non ha bisogno del latte, ma del fiore di loto nel salmastro tramonto di Sumatra con le barche e un piccolo, delizioso colibrì che vola via. La schiumetta infatti, insieme all’arabica sottostante, forma una sorta di eiaculato bianco che può essere disegnato nei più svariati modi.
Oggi ci sono barman fisicati che sono dei veri e propri artisti, alla pari di Donatello, Pirandello, Da Messina Antonello o l’ottimo Ghirlandaio. Esistono, sussistono, dei puntelli da cappuccino atti alla bisogna, coi quali il barista-artista darà vita ad un coniglio, una farfalla, un glande bello scafandrato pronto per essere succhiato insieme a dell’ottimo cappuccino amore mio. Sono gli stessi strumenti adoperati dal golden boy della pittura atonale Charley Brewster, 21 anni, l’anno scorso in Indiana, per estroflettere dalle narici i polmoni ai propri genitori. Alcuni incantevoli baristi disegnano direttamente con l’unghia del mignolo, lasciata appositamente più lunga, utile anche per raschiarsi i denti a fine pasto ottenendo quella struggente pasta perfetta per riparare i graffi meno profondi sulla carrozzeria delle Audi del nostro disincanto. Se uno ha fretta e il cappuccino lo vuole inghiottire al volo, il barman farà le sopracciglia a pagoda e gli dirà triste: “Nooo… te lo volevo fare bello!”. La prenderà sul personale pure se l’avventore è uno sconosciuto, un killer della metro che si sta riprendendo dopo i primi dieci omicidi o anche semplicemente Alberto Brandi di Controcampo. E l’avventore si soffermerà volentieri ad ammirare la forgia dell’opera d’arte, nel caffè letterario come nel bar dell’ospedale, regalandosi un momento di relax mentre sua madre sta morendo per un emangioblastoma squamocellulare. Cosa ci regalerà questa volta l’artista-barista? Il coniglio? La magnolia? Le due lesbiche? Alberto Brandi ne centellinerà ogni gesto, commentando col vicino Massimo De Luca: “Ah vedi… col coso proprio specifico… oooOOOooohhh… anche le orecchiette!!! Belllllllissimooooo…. MADONNA LASER DELL’INTIFADA IN PLEXIGLASS MI SONO MACCHIATO!!!”