Non ho mai amato scrivere. È un’attività per me del tutto innaturale, mi è sempre costato fatica e ho sempre cercato una scusa per non farlo. Mi piace però il risultato finale, il diorama che ne esce, per questo mi piego a qualcosa che mi naviga contro.
Ho sempre considerato lo sport puro fascismo, una scuola di umiliazioni. E nonostante questo non mi è mai piaciuto. E ho sempre esteso il mio disgusto anche per qualsiasi attività fisica. Per esempio non ho mai sopportato gli escursionisti di montagna e nemmeno chi semplicemente ama viaggiare. Nella mia vita ne ho incontrati a tonnellate e non ce n’è mai stato uno che avesse qualcosa da insegnarmi. Tutta gente con la personalità d’uno strappo di Scottex.
Anni fa, durante una vacanza a Milano Marittima, ho conosciuto Elia Tazzari. Poeta ravennate, fotografo, filmmaker, lettore bonelliano. E soprattutto, più di tutto il resto, escursionista. Anzi, sentierista, come ama essere chiamato. Uno che ha fatto a piedi la Londra-Gerusalemme con uno zaino di 30 kg sulle spalle. Ero già pronto a scendere dal pedalò e tornarmene a riva a nuoto quando Elia mi ferma: «che poi a me camminare fa schifo, sia chiaro». E perché lo fai? «Per il diorama che ne esce, sotchmel».
Te lo richiedo sette anni dopo. Perché lo fai?
Io sono un pigro, un insicuro e un eterno procrastinatore che ha però l’ambizione di raccontare storie, di prolungare il più possibile l’adolescenza e di incanalare la propria compulsione nevrotica nella ricerca di uno schema unitario in cui inscrivere esperienze eterogenee al fine di dar loro un senso; viaggiare a piedi soddisfa tutte queste tre esigenze. Il cammino – e mi riferisco alla grande escursione massimalista di mesi così come alla passeggiata dietro casa – costituisce oggi una delle poche opportunità alla portata di tutti di deragliamento in una dimensione in cui sono l’ignoto, l’imprevisto e il mistero a farla da padroni, in cui tornare a fare i conti con paure primigenie e il concetto ancestrale di meta; dunque avventura che è sinonimo di adolescenza, dunque storie che ti cadono addosso senza che tu debba fare chissà cosa per andarle a scovare (è sufficiente infilare pigramente un passo dopo l’altro e tenere occhi e orecchie aperti per accorgersi che il mondo, semplicemente, accade come una burrasca di immagini), dunque una realtà a sé stante dentro cui confluiscono esperienze, panorami e compagni di viaggio che formano un universo narrativo coeso, in cui riunire e conciliare gli opposti, organizzare una dialettica in cui immergersi per poter sognare nuove storie, interazioni e avventure lontano dal caos e dalle mortifere contingenze del quotidiano. Il cammino è un formidabile strumento di ricerca, l’occasione di tornare a confidare nelle storie nostre e altrui, una disciplina umanistica e una via iniziatica a nuovi stati di coscienza.
Tu sei molto lontano dai quasi tutti i topoi dell’escursionista, non a caso ci tieni a definirti “sentierista”. Vorrei deludessi più gente possibile: quali sono le “cose” dell’escursionista che proprio non sopporti?
Le masturbazioni sulle attrezzature tecniche, gli orridi bastoncini da trekking, i capi d’abbigliamento praticissimi ma ridicoli, i rituali anacronistici, i marsupi e le camicie, questa cosa che ci si deve per forza fermare in cima e dire “mamma mia che panorama, ne valeva proprio la pena”, il fatto che “il vero escursionista l’asfalto lo evita a ogni costo, piuttosto allunghiamo di 10 km per 600 m di dislivello ma almeno ci evitiamo quel tratto di provinciale”, tutta quella stucchevole prosopopea reverenziale sulla mitologia santiaghese, la narrazione melensa sulle virtù del cammino, la spiritualità pecoreccia, l’ostentazione di un interesse orientato al territorio, alla morfologia, alla botanica, alla storia, all’arte, all’antropologia, quando io invece rivendico il mio diritto a camminare senza saper distinguere il castagno dal rosmarino, la volpe dal cervone o la terracotta policroma dei Della Robbia dal pannello di eternit appoggiato a un capannone. Io cammino anche per dimenticare, disimparare, perdermi, e al sentiero in mezzo al bosco preferisco la statale trafficata con gli autoarticolati e le mietitrebbie.
Come nasce questa tua passione non-passione?
La scoperta di questa vocazione avviene dieci anni fa sulla Via degli Dei. Prima di questo cammino, intrapreso con alcuni amici all’epoca dell’università, non avevo mai fatto nulla del genere. Terminata quell’esperienza ebbi la certezza di essere entrato in contatto con qualcosa di cruciale per la mia vita, di avere scoperchiato uno scrigno degli orrori e delle meraviglie, e dire che avevo visto giusto è dire poco: da quel momento il cammino è diventato parte integrante del mio quotidiano, assumendo un ruolo sempre più preponderante e pervasivo e condizionando nel bene e nel male scelte, relazioni, decisioni, desideri.
Il cammino che ti vede impegnato, dal Passo del Brennero a Monte Sant’Angelo, dura due mesi e mezzo. Vai a dormire dove capita, spendendo il meno possibile, bene che vada ospite di qualche pretaccio simoniaco ma, non si sa mai, ti porti dietro anche la tenda, tipo la coppia francese agli Scopeti. Io so benissimo che sei un edonista che non va di certo matto per le scomodità, perché fai questa eccezione? E quanto ti pesa?
Sono un viziato amante del benessere ma anche un compiaciuto e vanesio martire della causa, e dunque mi sono imposto un rigore francescano per mettere alla prova le mie capacità organizzative e di adattamento, e persevero in questo regime autoinflitto grazie alla mia compulsione, alla speranza che un giorno tutto questo possa essermi utile e a un’effettiva e auspicata assuefazione a questi parroci pazzi, ai pavimenti sporchi pieni di capelli e macchie di urina, ai water intasati da matasse ciclopiche di carta igienica leggermente ambrata e alle scolopendre che di notte mi si attorcigliano sotto le palpebre facendomi ridere nel sonno.
Quali sono invece i luoghi che più ti affascinano e ti colpiscono emotivamente quando viaggi a piedi?
L’ombra dei viadotti, le periferie industriali e commerciali con il loro cemento abbacinante e i bar-ristoranti vocati ai pranzi aziendali, le distese di pale eoliche sui crinali remoti, i cimiteri di collina, le architetture razionaliste e le città di fondazione del periodo fascista, le edicole votive, i grandi piazzali dei supermercati (specialmente dei discount), i lungomari deserti al tramonto lungo cui vorresti solo incontrare la donna della tua vita, le pietraie assolate e solitarie dove nidificano le vipere.
Appurate le tue idiosincrasie, quale tipo di escursionista incontra le tue simpatie?
Sono attratto da tutti quei traumatizzati che a un certo punto decidono che l’unica scelta che rimane è quella di mettersi in cammino. Da coloro che decidono di consegnarsi al destino, a un tempo misterioso, a una condizione di totale abbandono. Da Werner Herzog, Cheryl Strayed, Sylvain Tesson, Dino Campana, Robyn Davidson, Dave Kunst, George Meegan, Andrea Spinelli. Da quelli che mollano e da quelli che invece perseverano nonostante l’insensatezza dello sforzo, penetrando la dimensione estatica del Sentiero. Sono attratto da chi piange, perché come dice Isacco il Siro “le lacrime sono il segno che ti stai avvicinando ai confini della regione misteriosa”.
Nel 2017 hai affrontato anche un viaggio a piedi da Londra a Gerusalemme. Che sapore e che colori diversi aveva rispetto a questa nuova avventura, anche raffrontando il tuo stato d’animo di ieri e quello di oggi? So oltretutto che il tratto italiano di quell’impresa era per esempio molto diverso da questo.
La Londra-Gerusalemme ha rappresentato un punto d’arrivo e un grande romanzo corale, che ha disposto sulla pista molti compagni di viaggio (amici e amiche di una vita e nuove conoscenze fatte grazie alla piccola risonanza dell’impresa), alcuni dei quali hanno condiviso con me lunghi e impegnativi segmenti del percorso, ergendosi così ad assoluti protagonisti dell’avventura. La Brennero-Monte Sant’Angelo è piuttosto un’articolata – certamente più dimessa – epopea solitaria, un cammino massimalista uscito dalla notte lungo cui si materializzano di tanto in tanto come spettri alcuni gregari la cui permanenza è talmente fugace da non scalfire minimamente la sensazione di procedere da due mesi in una polifonica e confusionaria allucinazione eremitica, che pare reiterare panorami, modalità, incontri, sensazioni, incubi notturni e ossessioni, rievocando oltretutto struggenti fantasmi del passato, similmente a un mantra che strega l’esperienza congelandola in un’onirica immobilità. È come percorrere una crepa che apre un selvaggio sentiero senza tempo nella terra dei morti.
Ne parli come di un’esperienza molto suggestiva, al confine col paranormale. C’è un aneddoto in particolare che vuoi raccontarci? Un momento in cui, magari durante un’escursione, pur da cartesiano integralista hai creduto di trovarti davanti a una via di fuga dalla realtà, ad un glitch dall’Altroquando?
Un paio. Ricordo che qualche anno fa mi trovavo con due amiche a camminare nei dintorni di Ciola Araldi, minuscolo borgo della Valle del Rubicone che la leggenda nera locale vuole essere germogliato in una notte di tempesta dall’artiglio caduto di una fata. Passeggiavamo nel tardo pomeriggio lungo il perimetro accidentato delle mura alla ricerca di una traccia perduta nella sterpaglia, quando siamo stati attratti da un movimento nel fogliame, provocato da un piccolo capriolo completamente bianco che ci osservava con i suoi occhi rossi dal folto dell’ombra. Tempo qualche minuto, e altri cinque cuccioli albini identici al primo sono emersi dal roveto formando un irreale semicerchio che impediva ogni via di fuga. L’altro è un dialogo che ho avuto qualche giorno fa con un vecchio pastore di Coccodrillo, in provincia di Rieti, e che riporto integralmente: Lo vedi quel signore? Sì. Era un cane. Come? Era un cane, guarda gli occhi e come se move, e poi non ha imparato a parlare. Cos’hanno gli occhi? Non c’hanno il bianco e senza quelle stampelle starebbe curvo e andrebbe a quattro mani per terra. Ma come ha fatto un cane a diventare un uomo? Ce l’hanno trasformato i maghi sulle montagne sessant’anni fa perché gli aveva ammazzato una capra, se non ci credi chiedi in giro, qua lo sanno tutti.
Suggestioni molto diverse da quel rassicurante Shangri-La di hotel, piadinerie, minigolf e bar sulla spiaggia che è la Riviera Romagnola, che come tutte le cose belle ti distrae dalla verità e alla quale siamo entrambi molto legati. Io tra l’altro invidio molto il tuo essere un autoctono rivierasco.
Amo fino al midollo ogni aspetto della mia Riviera, entità geografica proteiforme in cui coabitano gli apparati scintillanti del cosiddetto “divertimentificio”, l’astratta e conturbante metafisica delle colonie abbandonate e l’intrico delle pinete ora ripopolate dagli animali selvatici. Non baratterei per tutte le montagne, i sentieri, gli eremi e i boschi del mondo questo spazio cinico e dolcissimo, inesplicabile e innervato da eccitanti contraddizioni, dove coesistono nel raggio di pochi km le apericene al Papeete Beach e i lupi che sbranano daini nella Pineta di Classe, il lussuoso carosello di Milano Marittima e la solitudine quasi anacoretica delle rovine a Cesenatico Nord. La Riviera che amo e ricerco continuamente inseguendo suggestioni sempre diverse è quella spensierata e struggente de L’ombrellone di Dino Risi, la Riviera degli amori disperati e della risacca notturna che intuisci solo dalla spuma accesa dal plenilunio, la Riviera dove il sole tramonta dietro le case e mai sul mare cantata da Fabrizio Testa, la Riviera dei bingo, delle piazzole deserte sull’Adriatica, della pelle di lei in cui si impastano sudore, profumo e residui di crema solare, dei lampioni arancioni nei viali deserti fra Cervia e Milano Marittima, la Riviera della mia infanzia in cui passeggiavo ogni sera con mio fratello e i miei genitori giovani.
Occhio perché “genitori giovani” è un tòpos dei miei scritti più introspettivi, che tante lodi (e fiche in attesa nel retro-foyer) mi valgono, non iniziamo a sgomitare. Detto questo, mi sembra che le suggestioni fantastiche siano una caratteristica fondamentale di tutte le tue avventure, anche più terragne. Quanto per te l’immaginazione è qualcosa che alleggerisce la vita e quanto invece una zavorra, qualcosa che ti richiama sempre a come la nostra esistenza poteva essere e non è?
L’immaginazione è utile e necessaria per corroborare un’azione in fondo banale e scontata come quella del cammino, per incunearla a forza in un contesto in cui possa effettivamente esprimere un significato più ampio e profondo, fino a trascendere se stessa. Ma l’immaginazione e la speranza che ne scaturisce sono continuamente destinate alla fine di un viaggio a scontrarsi con l’evidenza dolorosa che si è fatto tanta strada per cercare una cosa che in fondo lì non c’è né potrà mai esserci. E allora perché il sacrificio, la fatica, l’andare e il venire dei compagni, la solitudine e l’illusione? Risponde il mistero di una vocazione che sospinge verso l’evidenza di un significato che non sapremo mai cogliere davvero e le cui ombre percepibili sono una dolorosa e inutile insensatezza e il nulla che solo attende alla fine della strada, una volta partiti tutti i compagni, una volta scomparsi noi.
È la stessa vocazione che muove l’arte, e so che tu sei un cinefilo e un appassionato lettore. Chi sono, se ci sono, i tuoi riferimenti e che influenze hanno avuto su di te?
Tutto quello che serve sapere del cammino l’ho appreso da una manciata di poesie di Cesare Viviani e Mariangela Gualtieri: che il fine ultimo è quello di assistere alla progressiva diminuzione delle proprie forze, che la ricerca dei compagni coincide con la ricerca di sé (e viceversa) e che le orme del camminatore sono inutili. Ribaditi i fondamentali, cito altre tre opere seminali per la mia formazione escursionistica: La Verna di Dino Campana, Sentieri nel ghiaccio di Werner Herzog – uno dei miei dieci libri della vita nonché testo definitivo sui viaggi a piedi – e Verso la foce di Gianni Celati, la scoperta più recente. Tre libri clamorosi in cui gli autori scansano (quasi) del tutto ogni noiosa tentazione moralistica o cronachistica per puntare dritto al cuore di tenebra della metafisica sentieristica nel tentativo (sublimemente fallimentare) di affacciarsi dall’altra parte. Sul versante cinematografico, cito come irrinunciabili The Blair Witch Project di Myrick e Sánchez (per me l’horror più bello e spaventoso di tutti i tempi), la scena dello Spirito del West in Rango di Gore Verbinski e il finale di Una gita scolastica di Pupi Avati.
Tu sei anche un appassionato fotografo. I tuoi scatti mi hanno sempre affascinato molto. Potrei dire che ai miei occhi rappresentano errori di calcolo dell’entropia, squarci nella realtà, ma in realtà ci vedo la speranza delusa di uno squarcio nella realtà. Sono fuori strada?
Sono alla ricerca costante di glitch nel panorama, di interstizi da cui l’assurdo o anche solo l’inconsueto o il rimosso potrebbero filtrare, e queste brecce, questi accessi preferenziali per il caos inconscio che ribolle sotto la superficie del mondo per me sono spesso crepe, screpolature sull’asfalto, statue di santi, pietre, ombre e scintillii sui muri, rami stranamente bianchi che spiccano tra la folta e uniforme oscurità di una chioma. Tracce, presagi, stonature, echi. Semplici dettagli che isolati dal contesto assumono sembianze incongrue e allusive. Solo che lo squarcio resta quasi sempre potenziale, e si cristallizza nell’immagine di un’attesa che si interroga inutilmente e da cui si è inutilmente interrogati.
In barba alla retorica dell’Ulisse, tu dopo la Londa-Gerusalemme invece di ripartire subito ti togliesti le scarpe, ti chiudesti in camera, ti schiantasti sul divano per un anno cibandoti di gelatine davanti a film e serie televisive. Non contento, ti sei preso anche il lusso di finire in un gorgo di depressione. Quali sono i tuoi progetti appena sarai di rientro nella tua Savio?
Ho intenzione prima di tutto di godermi gli affetti familiari e gli amici nella cornice estiva della Riviera, fra ghiaccioli, bagni al tramonto e cene di pesce; dopodiché, comincerò a pianificare il prossimo grande cammino italiano per il 2022: un progetto ciclopico, diverso da qualsiasi cosa abbia intrapreso finora e che mi terrà auspicabilmente impegnato per i prossimi tre anni, e di cui scaramanticamente non ho intenzione di rivelare ulteriori dettagli.
Puoi ripetere “scaramanticamente”?
Scaramanticamente.