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Conglomerandocene: la satira italiana è sputarsi in faccia da Roma a Cremona

Nella settima puntata della rubrica dello Sgargabonzi per Rolling Stone, quattro giovani comici partono per una masterclass sulla satira. Insieme a loro Denis Verdini, Gianfranco Rotondi e degli arroganti fan di Pop X

Foto: MANAN VATSYAYANA/AFP via Getty Images

È l’alba alla Stazione Termini. 
Quattro temerari aspettano il treno. Qualcuno direbbe quattro stronzi. Quattro comici, quello di sicuro. Io, Edoardo Ferrario, Stefano Andreoli e Valerio Lundini. Scapigliati, incoscienti, inaffidabili, visionari, spesso presuntuosi. Però averne di questi tempi. E fa un certo effetto pensare che in quel momento le sorti della satira di questo paese (il minuscolo è d’obbligo) sono tutti in quegli inutili, inerti e insospettabili due metri quadri del cazzo che occupiamo alle sette di mattina col culo gelato.

Siamo in partenza per Cremona, invitati per una masterclass al Salone della Satira. L’altoparlante ci fa sapere che il treno è in ritardo di cinquanta minuti. Tutti ci lamentiamo. Lundini spezza il ghiaccio: “Potrebbe andare peggio, dai”. Edo si abbraccia per il freddo: “Va beh, peggio di così?”. E Valerio, schioccando sui binari il mozzicone: “Potrebbe piovere”. Quasi sputiamo fuori un polmone. 

Il treno arriva e saliamo. Posti prenotati da 61 e 64, carrozza 8. Entriamo nel nostro scomparto da sei, occupato solo da un vecchio che legge il giornale. Valerio si mette accanto al finestrino perché c’è la presa per lo smartphone, Edo e Stefano al centro, io mi piazzo vicino al corridoio ché devo pure andare a pisciare. Il treno riparte. Io fisso il vetro dello scomparto pensando ai cazzi miei. Valerio lo nota e mi fa: “A che pensi Ale? A’a fregna?”. E io: “No, amico. Riflettevo su una roba…”. “Dimmi”. “Beh, sai che c’è? Credo che Jimi Hendrix sia un fottuto alieno del cazzo venuto sulla terra per spaccare i culi con la sua chitarra indiavolata”. Lui ride e mi fa: “Ma davvero credi a sciocchezze del genere?”. E io, letale: “Bella risposta. Specie detto da uno che invece crede in un hippy coi sandali che muore e resuscita, che è insieme figlio e padre di se stesso e che sua madre è una stracazzo di vergine”. Della serie: touché! Della serie: colpito e affondato! “Lo amo quando fa così”, dice Valerio indicandomi col pollice e sorridendo agli altri.

Il viaggio è lungo, Valerio torna a trafficare nel deep web, Edo dorme, Stefano sgranocchia dei Tuc. Vabbè, mi metto a leggere la biografia di Bill Hicks (un comico americano), poi mi ripasso un pezzo e me ne viene un altro molto abrasivo (per usare un eufemismo) sui vegani. Mi arriva una notifica sul cellulare. Sul Messaggero hanno recensito positivamente la mia prima serata nel viterbese: “Un Edoardo Ferrario meno bravo”. “Game, set, match”, sussurro soddisfatto fra me e me.


A un certo punto, vedo Stefano che di sottecchi mi fa cenno col capo indicando il vecchio davanti a me. Lo guardo e ci rimango come un coglione. Beh, quel vecchio è l’ex senatore Denis Verdini. Ovviamente facciamo finta di niente.

Il viaggio prosegue in un silenzio perfetto, rotto solo dal tappo del termos di Stefano che si versa un bicchiere di stelline in brodo di manzo. Quando all’improvviso Verdini, forse per rimanerci simpatico o non so perché, si alza in piedi, s’improvvisa coi suoi poveri mezzi in una mezza giravolta e si mette a fare un numero che, con molta difficoltà, capiamo essere l’imitazione di un personaggio di Edoardo Ferrario. In pratica fa una scenetta di Pips, un suo cavallo di battaglia, il personaggio di uno studente universitario che si è fatto, come dire… qualche ganjetta di troppo! Un pezzo che Verdini ha imparato a memoria, imitando Ferrario pessimamente, mangiandosi le parole e sudando nel suo doppiopetto ancora abbottonato con tanto di occhiali con laccetto. La reazione? Un silenzio sepolcrale. Edo si è pure messo gli auricolari. Allora lui si risiede, tutto rosso e col fiatone, si asciuga la fronte imbarazzato con un fazzoletto di stoffa. Mi tocca il piede per sbaglio e subito: “Scusi, le chiedo scusa…”. Cinque minuti dopo mi fa chiamare un medico perché dice che si sente male. Si fa portare anche un tè caldo in un bicchiere di plastica. La satira non è un pranzo di gala, caro “Denis” (bah).

Devo riprendere aria da questa scena patetica, così me ne esco in corridoio per fumarmi una paglia e starmene un po’ per i cazzi miei. Un ragazzino mi riconosce, viene da me blocconote dotato, per un autografo. E mentre mi porge la biro mi dice con fare trafelato: “Sgarga… ma tu eri un grande, tiravi fuori freddure e giochi di parole da scompisciarsi… ma come ti venne in mente quel giorno di buttarti a fare satira?!”. E io gli rispondo con poche parole: “Molto semplice, amico: perché mi ero rotto il cazzo”. Ed è vero, mi ero rotto il cazzo di come andavano le cose in questo Paese. Di come avevamo pensato di poter cambiare il mondo e non eravamo riusciti a cambiare neanche dopobarba. E forse mi ero rotto il cazzo anche di me stesso. 

Mi riconoscono altri due ragazzi, che mi chiedono info sull’Officina. Non è altro che il laboratorio in cui io e l’amico e collega Daniele Luttazzi (de)formiamo questi giovani chierichetti della satira, li facciamo lavorare di stomaco, gli insegniamo a tenere botta. Perché la satira altro non è altro che sputarsi in faccia, dire “tu fai schifo” e soprattutto “io faccio schifo”. E così mi trovo a provare i giovani wannabe Tommaso Faoro e Pietro Casella, perdonandoli della loro marachella su Comedy Central (so’ ragazzi). La mamma di Faoro (pure tu madre a rompe li coioni, Tommà!) mi ha raccontato che il figlio ha avuto in passato problemi di depressione e dipendenza da video-poker e che il suo amico Pietro gli è stato vicino come nessun altro, tanto da lasciare l’Università a Genova per trasferirsi a Mestre e, a seguire, tutto il solito stucchevole repertorio da piccola fiammiferaia che vuole che mi ingrazi il figlio. Benissimo. “Ragazzi c’è un solo problema: voi siete in due e il posto qui all’Officina è uno solo. Chi resta in piedi è dentro, l’altro se ne va affanculo”. Non ho fatto in tempo a finire la frase, ve lo giuro, che con uno scatto degno del Sagat degli anni d’oro Faoro aveva già scaraventato a terra Casella, che giaceva privo di sensi perché cadendo aveva battuto la testa in uno strapuntino. E vedo quello stronzo di Valerio che è spuntato fuori e se la ride come una jena.

Ma qui in corridoio non siamo tutti amici. Ed ecco infatti un gruppo di adolescenti col cappello di Pop X anche loro in salita verso Cremona, ma a prendere appunti. Mi guardano e ridono fra di loro. Li guardo, uno alza il dito medio e mi fa “e porta i nostri saluti a Luttazzi”. E sputa per terra. Non mi scompongo. Del resto non è la prima volta che sento sedicenti “volti nuovi della satira” inveire contro me e Daniele. Mi avvicino a loro e gli rispondo con poche ma incisive parole: “Beh, cari ragazzi, sapete che c’è? Io e Luttazzi pensiamo che fareste bene a darvi una calmata e pensare piuttosto ad affinare i vostri artiglietti da latte”. E poi dettaglio: “Io e Daniele abbiamo forse qualche pelo bianco (più lui di me, però) e qualche acciacco che spunta, ma siamo ancora capaci di qualche bella zampata quando meno ve lo aspettate. Fine della piccola polemica”. La loro risposta non tarda ad arrivare, il capo abbassa la testa e i suoi pard lo seguono: “Ci scusi”. Se ne vanno con la coda fra le gambe. Prima di rientrare nel loro scompartimento, uno si ferma sul ciglio della porta. “Senta, signore…”. Lo guardo. Lui mi sorride e arreso mi fa: “Grazie”. E rientra.

Non me la prendo di quanto è successo. Questi wannabe non sono nemmeno male. Certo uno scappellotto ogni tanto, quando pisciano fuori dal vaso, ci sta, gli è dovuto. Ma almeno apprezziamo la loro incoscienza. Del resto, un giorno anche noi siamo stati dei pivelli con la testa piena di stronzate. E come dice Daniele: “Qualcuno di noi lo è ancora”.
 
Passa il controllore. Rientro a prendere il biglietto. Edo si sveglia di colpo: “Ragazzi ho fatto un incubo tremendo”. Quale? “Non mi veniva bene la maria”. Pure il controllore quasi sputa un polmone. Intanto fa il giro e oblitera il biglietto a tutti, per ultimo a Stefano, che tentenna un po’. Il bigliettaio guarda il biglietto perplesso. Poi vede che è stato tagliato e timbrato due volte. Stefano si difende: “Me l’hanno venduto così”. Il controllore non ci crede e lo multa. Se ne va. Cala un silenzio di tomba, rotto da Stefano: “Ve lo giuro, me l’hanno davvero venduto così”.

Alla fermata di Firenze entra una ragazza molto bella e un po’ in carne che va a occupare l’ultimo posto libero. Subito Lundini, il romantico dei quattro: “Non so voi, ma io personalmente preferisco una ragazza come questa qui, con la sua brava ciccetta al punto giusto che un’anoressica”. E la ragazza sorride. E poi Valerio sognante: “Ma quella che preferisco fra tutte è un’anoressica terminale”. SALATA!!!

 Qualcuno bussa allo sportello dello scomparto. Stefano Andreoli si alza di scatto. È l’ex ministro senza portafoglio Gianfranco Rotondi, con lui fondatore di Spinoza e poi dimissionario. Li vedo per la prima volta insieme. Ed eccoli Stefano e Gianfranco, amici da sempre e alleati nei luoghi – materiali e non – della comicità. L’uno non può esistere senza l’altro, anche dopo anni dalla fine della loro sinergia. Stefano è il brutalista scellerato, puro istinto e fiuto animale. Gianfranco è il solo capace di riportarlo a ragione. È il professore, il cartesiano puro, maestro di logica, realismo e contingenza. Eppure, seppur sodali da sempre sui malmostosi banchi della risata, Stefano e Gianfranco sono divisi su ben altri banchi, non per forza più semplici: quelli dei Fidget Toy. Entrambi hanno iniziato ormai dieci anni fa con i Fidget Spinner. Ma Stefano, a sorpresa nel 2016, è passato definitivamente al Fidget Cube. Gianfranco lo accusa di essersi involuto nell’esercizio di un Fidget che non richiede vere abilità manuali. Stefano di contro critica il suo fondamentalismo spinnerista, vedendo Gianfranco avvinghiato a troppi stilemi adolescenziali. Tensioni non da poco per quelli che un tempo erano conosciuti come gli “Spinner Gemini”, inseparabili e immarcescibili. Ma una volta insieme, tutto si ricompone in abbraccio.

Arriviamo che è sera, i nostri impegni iniziano la mattina dopo. Ci fermiamo a mangiarci un tramezzino e tracannarci una birretta al bar della stazione. Una birra che diventano due, poi tre, poi dieci. Intanto loro parlano e io li guardo, me li godo, beato, come al rallentatore. Mi rendo conto quanto è stato fico questo viaggio, quanto una risata sguaiata può davvero essere un gesto d’intelligenza, decenza e buonsenso. Ci salutiamo fra stretti abbracci e risate alticce urlate alla luna, per darci appuntamento l’indomani. Alloggiamo in posti diversi, io alla Casa del Pittore, che è appena decentrata rispetto alla stazione. Sfortuna vuole che sia saltata la corrente e i lampioni siano spenti. C’è da brancolare un po’ nel buio per raggiungere il mio b&b e Edo si offre di accompagnarmi. Camminiamo nel silenzio per almeno dieci minuti, godendoci i colori della notte, il frinire dei grilli e il profumo del tarassaco arrogantemente in fiore. Una piacevole dissolvenza bucolica dopo un viaggio che ci ha rallegrato lo spirito. Ed è poco prima di raggiungere il cancello del b&b che sento Edo dire qualcosa fra sé e sé. Gli chiedo: “Come hai detto, scusa?”. E lui, come un pazzo schizzato: “Ahahah, ma che ti sei fumato?! Non ho detto niente!”.
 Ecco, io sono sicuro che quella notte Edo mi abbia detto: “Voglio morire”.

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