Caro Edgardo,
chi ti scrive è tuo cognato Evaristo. Ti scrivo questa lettera per confessarti una volta per tutte quello che, l’inverno scorso, è accaduto con tuo nipote all’idroscalo.
Ricorderai bene che, quando venisti a prenderci, notasti subito che c’era nell’aria qualcosa di strano. Un silenzio sospetto, un piccolo bruco morente che percorreva il mio sopracciglio destro, un altro individuo a cui demmo un passaggio, che pareva capitato lì per caso e che rispondeva al nome di geologo Montelupo.
Se in questi ultimi sei mesi ti ho ingannato, l’ho fatto solo per amicizia, che già di casini ne avevi tanti per quel fatto successo a Imperia, ma adesso davvero non ho più lo stomaco per continuare questa farsa. È per questo che sarò sincero, circostanziato, onesto a costo di farti male.
Ecco, purtroppo ora devo interrompere questa missiva perché stai giungendo qua. Ho appena udito sbattere lo sportello della tua Seat Marbella. Inconfondibile suono, visto che ricorda da vicino la cavalcata delle Valchirie compressa in una frazione di secondo. Il tempo di scrivere questa frase ed hai già suonato il campanello. Sì, sei tu, fai sempre due squilli ravvicinati e uno più distante, come a dire: “cioè, io per te ci sono”. Ma no, non mi alzo, tanto ti aprirà la domestica che – lo vedo dall’apparecchio radar – in questo momento è di stanza al piano di sotto, fra il corridoio e il tinello, anzi ora è proprio nel tinello.
Dicevamo: tuo nipote Ebenezer…
Ecco, la domestica ti ha aperto e ora stai salendo le scale. Oh come vorrei dirti “ricordati di spegnere la luce delle scale quando arrivi su”, invece posso solo scrivertelo in questa missiva e tu lo saprai troppo tardi o forse mai.
Sento che hai aperto la porta del piano. Come puoi essere già arrivato? Avevo contato solo undici passi e gli scalini sono il doppio. Dovrei contare quarantaquattro passi considerando quel tizio dietro di te. Realizzo che li avete solcati a quattro a quattro e mi si gela il sangue.
Ed ecco il tuo bussare pleonastico sulla porta socchiusa. Chiedi permesso e io ti invito ad accomodarti, amico mio. Ovviamente hai lasciato la luce accesa, un giorno ne riparleremo.
Ecco, proprio mentre sto componendo questa frase per te, ti dico che sto scrivendo al mio commercialista per un problema di trattenute previdenziali su cui preferisco soprassedere. E mi sento un verme nell’accorgermi come tu, di nuovo, stai prendendo le mie parole per oro colato. Ma pensaci: potrei mai scrivere al mio commercialista con te appena dietro? Coi commercialisti si parla di soldi e a me scoccia fare sapere in giro quanta cartamoneta mi rende il mio impiego di Generale di Corpo d’Armata con Incarichi Speciali. E soprattutto: il mio commercialista sei tu, caro Evaristo, te lo sei scordato?
Sei dietro di me e io continuo a scrivere ostentando la serenità che non ho. Non ho il fegato di dirti di distogliere lo sguardo, ma se leggi questa frase per favore capiscilo da solo e, se ti fa comodo, fai pure finta di non averla mai letta e aver distolto lo sguardo per ragioni tue, privatissime, inconfessabili.
Tornando al discorso di prima…
No.
Ecco che stringi le tue mani attorno al mio collo, come per scherzare, ma si serrano anche oltre il mero giuoco e sento mancarmi il fiato. Chiudo gli occhi e mi lascio andare, in fondo me lo merito. La vita mi scorre davanti come in un film di Castellacci & Pingitore. Addio mondo, è stato bello.
Quando avverto la tua presa allentarsi quasi me ne dispiaccio.
Mi volto e già non ci sei più. Con un balzo felino ti sei dirottato nella stanza di là. Sento delle urla: stai prendendo ad ombrellate l’anziana Bedelia, la pianta carnivora. Non lo fare, bastardo!
Rieccoti qua. Dai, ora interrompo la pantomima di questa lettera, mi volto e facciamo merenda, ti va?
Non me ne dai il tempo. Con la forza d’un grizzly mi prendi, mi alzi di peso, emetti un latrato sinistro e mi scaraventi fuori dalla finestra. Ma insieme a me hai sollevato tutta la scrivania con tanto di computer, stampante, piccolo cactus decorativo ed è per questo che sto continuando a scriverti, anche mentre soffro in volo. D’altronde in me risiede lo spirito d’un moderno Verlaine e ho sempre bramato di fermare su carta il mio trapasso a sempiterna memoria dei posteri.
Mi aspetto di crollare in picchiata e invece no, l’energia cinetica accumulata si dà il cambio con le correnti favorevoli e ciò mi porta a percorrere una distanza inusitata, fino ad arrivare in Olanda e a planare addosso a un cespuglio.
Quant’è bella l’Olanda, addirittura ci sono le galline.