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Conglomerandocene: Napoletanità

Nella nuova puntata della rubrica dello Sgargabonzi su Rolling Stone, cosa c'è di vero nell'incredibile passione dei conduttori televisivi italiani per la città di Napoli

Foto via Unsplash

Dopo una vita persa davanti alla televisione, fra quiz a premi e talk show, c’è un momento che è diventato per me familiare e irrinunciabile. Avviene quando il presentatore annuncia l’ospite o il concorrente, e fra le generalità di quest’ultimo c’è il fatto che viene da Napoli. È allora che Pippo Baudo, Corrado Tedeschi, Marco Predolin o chi per loro, pur potendo andar avanti in scioltezza con la scaletta, si prende un minuto, sorride, dà una pacca sulla spalla al personaggio e ci fa sapere sempre la stessa cosa: quanto ama Napoli.

“I Napoletani sono persone incredibili”.
“Mi scusino le altre città, ma io ho un debole per Napoli”.
“Un applauso a Napoli e ai napoletani!”

Io mi domando: perché quest’entusiasmo s’accende solo per Napoli? Non c’è un solo presentatore – nemmeno il compianto Daniele Piombi – che per una volta abbia fermato la trasmissione per gridare al mondo che “gli Astigiani sono straordinari!”, “che crema chantilly gli individui di Bressanone!”, “rinuncerei al mio stipendio per essere amico di un maceratese!”. O che almeno ci risparmi il pistolotto sull’amore per Napoli.

C’è da chiedersi perché questi presentatori fanno ciò. Il motivo appare chiaro: hanno paura. Paura di essere uccisi dai napoletani o che questi se la prendano coi loro cari, tipo violentando i loro edicolanti o facendo dei clisteri di cemento ai loro pargoli. Sì, perché le persone del meridione hanno purtroppo questo piccolo difetto: uccidono. D’altronde nessuno è perfetto. Io stesso, per esempio, tengo la camera disordinata, sono calvo e in questo momento ho le scarpe che si stanno slacciando.

Quando si parla di personaggi come Sophia Loren, Paolo Sorrentino, Totò, Fabio Cannavaro, Bill Pullman o Pino Daniele si sottolinea sempre, a mo’ di massimo pregio, come questi abbiano portato avanti con fierezza la “napoletanità”. Anche lì: perché non esiste l’astigianità o la brescianità? Ma soprattutto, cos’è questa napoletanità? A occhio e croce: ammazzare, intimidire, ricattare, rigare le Seat Marbella, rubare le cinquecento lire dei carrelli al supermercato, il pizzo, la pizza al taglio, la cocaina tagliata male, i caffè sospesi, gli studenti di Scampia sospesi per aggiotaggio, i cocktail di scampi con le diossine, la Vucciria e Secondigliano, il cavallo di ritorno, una testa di cavallo tagliata, Roberto Cavalli contraffatti, gelati sciolti per infiltrazione mafiosa, pizzette “collo smuzzariello in coppo ‘i cosce”, babà intrisi nel percolato, clisteri di cemento armato e poi ammazzare, ammazzare ancora, ammazzare come se non ci fosse domani. Del resto ce lo ricorda anche il famoso detto locale: “quando vieni a Napoli piangi due volte, quando arrivi e quando t’ammazzano”.

Passerò per ingenuo, per un sognatore e un idealista, ma io mi chiedo come si possa andare fieri di tutto questo. Come se, per onorare la suddetta napoletanità, fosse lecito uccidere una persona. E gli inquirenti chiudono un occhio se la De Sio, in impermeabile nero e cappello a tesa larga, sgozza col rasoio ogni tanto un bambino di cinque anni, solo perché nel farlo porta avanti il folklore partenopeo. Sarà forse assurdo quanto dico, ma io preferisco immaginare un bimbo di cinque anni vivo, spensierato, che gioca a pallone e fa l’amore col suo parroco, rispetto ad un corpicino esanime sul bagnasciuga di Posillipo con un rivolo di cemento che gli fuoriesce dall’ano e De Crescenzo che glielo slecca via. Volevo dire anche un’altra cosa: ragazzi, usiamo tutti il preservativo e cerchiamo di fare un pochino più di volontariato madonna falco.

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