Inverno 1996.
Facevo il Liceo Classico, avevo il diario di Sturmtruppen e una psoriasi importante la cui causa fu attribuita (post-mortem) alle interrogazioni a sorpresa. A ricreazione si era venuto a sapere che la Fiorentina forse vendeva Bigica, che la professoressa Panini aveva già la versione di greco della prova del giorno dopo nel suo armadietto e, soprattutto, che Gianluca Grignani era morto. Correva voce ovunque, nel corridoio col pavimento in graniglia ricoperto di segatura, nella copisteria in cui non ti facevano le fotocopie delle pagine scritte bianco su nero perché gli andava via troppo inchiostro, financo nei cessi turchi coi bulli che facevano evacuare coattamente il piccolo Enzo Quercioli, oggi assessore al turismo in un comune pieno di problemi.
«Sembra che Grignani sia morto per overdose, trovato tra i cassonetti in un vicolo di Milano», diceva Matteo mentre fotocopiava la versione col bidello che faceva da palo.
«È andato in overdose, sì, ma non è morto. È in coma, e sembra che sia irreversibile», rispondeva il segretario rifiutandosi di fotocopiarti le pagine del manuale di astronomia.
«È andato via di testa, è scoppiato. Ha bevuto alcuna droga e poi è andato in autostrada in bicicletta, contromano e con gli occhi bendati», sintetizzava il piccolo Enzo mentre cagava carotine mal digerite e profilattici.
Con lo squillo dell’ultima campanella, tutti a dirottarsi a casa come razzi, per saperne di più dalla televisione. Niente Complotto di Famiglia con Alberto Castagna stavolta, ma il TG1, come i grandi. Solo che i telegiornali non ne facevano menzione, nemmeno l’affidabile Sandro Picone. Ma era comprensibile. La dipartita di Grignani non sarebbe certo stata una morte regolamentare, di quelle che t’avvertono sul Telefunken a pranzo mentre sbrani una spinacina Aia. Ma vista la scomoda umbratilità del personaggio, sarebbe stata come minimo una morte maledetta, la cui notizia si sarebbe diffusa solo a mo’ di catena di santantonio e unicamente fra fan. Del resto se ne era parlato già durante l’autogestione. Il rappresentante d’istituto l’aveva detto chiaro e tondo: «Cari amici, oggi come oggi la morte di personaggi come Gianluca Grignani ma pure un Oliver Skardy che inneggia alla maria libera, fanno comodo a molta gente».
In realtà, la notizia della dipartita di Grignani era vera a metà. Il cantautore milanese era in teoria vivo, ma si diceva fosse in piena fase di autolesionismo, quindi praticamente morto nella percezione popolare. Ed è bene specificare: autolesionismo sì, ma di quello serio, autodistruttivo, con la cera, le sgorbie da plastilina e l’alcol denaturato. Ma come era possibile? L’idolo delle ragazzine e dei pederasti, l’attore protagonista di Branchie, uno che nella vita poteva avere di tutto, anche le zucchine lesse. Proprio lui aveva messo in pratica quei propositi enunciati due volte nel disco d’esordio, in (nell’ordine) Falco a Metà e Destinazione Paradiso? Non ci potevo credere.
Per mesi non si seppe più niente del cantautore milanese. Nel frattempo, io mi sentivo in colpa qualunque cosa facessi nella mia quotidianità. «Ho appena mangiato il Piedone Eldorado, e magari Grignani in questo momento è nel tinello che si incide…». E giù a tormentarmi di sensi di colpa. Mi svegliavo la notte, di soprassalto, col cuore il gola e la paura che Grignani si incidesse nel tinello col mini-pugnale di Cluedo. E se anche soffrivo perché andavo male a latino, nei compiti in classe cercavo di sbagliare ogni perifrastica passiva che mi capitasse a tiro, per rispetto di Grignani, come sberleffo al potere costituito e a Svetonio.
Mesi dopo, come se niente fosse, Grignani si fece rivedere a Roxy Bar, il programma di Red Ronnie. Era lì per presentare il suo nuovo lavoro di scosciata psichedelia: La Fabbrica di Plastica. Via i rassicuranti suoni pop del suo primo disco, mai più schitarrate confortevoli e vocalizzi all’olio d’oliva, dentro heavy metal, schiamazzi, polemiche per un parcheggio, rumori di quando si faceva male, scratch, distorsioni e lussazioni varie. Ma quello che contava è che finalmente erano lì, sul divanetto di Roxy Bar, crudi e scarnificati, tutti i segni della sua autodistruzione. In pratica si era tagliato i capelli. E in effetti, nella canzone Galassia di Melassa, si sentiva il rumore di un Magic Harry che sfoltiva. Ora ce li aveva più corti e mesciati. Ma sia ben chiaro: non con la frangetta alla Mamma Ho Perso l’Aereo e nemmeno con la divisina in parte tipo De Rossi, il primo della classe nel Cuore di De Amicis. No, biondi sparati in giro a casaccio senza problemi ma tranquillissimamente proprio. Meno di Johnny Rotten certo, però moderatamente sparati. Il suo autolesionismo era stato quello: si era reciso i capelli. Probabilmente si era tagliato anche le unghie con delle forbicine acuminate, ma per non impressionare troppo non l’aveva detto. Quei capelli ora non poteva più tenderli con le mani a mo’ di pelle di daino e strofinarli sui solchi infiniti e freschi di Chilly delle sue fiche, ma al massimo poteva impomatarli con la gelatina della Simmenthal e masturbarsi nella Porsiuncola di Santa Maria Degli Angeli ad Assisi davanti ad un Francesco Crispi attonito. Grignani appariva teso. Era conscio della gravità di quello che si era fatto e temeva che il suo pubblico non lo accettasse più. Con tono agnellato parlò a Red Ronnie della sua scelta di buttarsi via così, come un novello San Francesco disfarsi di tutto a partire dalle doppie punte. Il pubblico lo ascoltava in silenzio, prima diffidente poi sempre più sedotto, mentre Red Ronnie gli dava manforte e panforte a tocchetti per tirarlo su (era la puntata di Natale). Ma quello che contava, era che il figliol prodigo era tornato a casa.
Venne il tempo del suo terzo disco, Campi di Popcorn, che mediava fra il pop del primo e l’autolesionismo tricologico del secondo. Nella canzone Dalla Cucina al Soggiorno, l’umile Grignani parlava di se stesso in terza persona e si chiamava “il Grigna”. Al concerto in Piazza Grande ad Arezzo, presentando la canzone successiva, pregò il pubblico di seguirla a modino perchè «ragazzi, credetemi, su questa canzone qua ci sono morto, ciumbia…». E quella canzone era una qualunque del suo repertorio, che forse alle sue orecchie aveva una qualche specialità, ma per il pubblico era il solito pezzo di Grignani. «Falla e basta» gli urlò innervosito il capo dei suoi fan.
Verso la fine del concerto si rivolse alle ragazze presenti: «Quante di voi stasera verrebbero a letto con me?» Fu un tripudio di urla di aspiranti groupie, mani alzate, articolazioni sconocchiate alla luna puttana, violente contrazioni e prugnette madide. E i fidanzati, con le loro Lacostine da imbecilli, di fianco alle loro ragazze col braccio teso e gli occhi solo per Grignani, pure loro sorridevano inebetiti pensando: «Oh quanto mi diverto col Grigna che addirittura interagisce con noi!» Sì, ridete una bella sega.
Quando scorsi la tracklist di Campi di Popcorn, so solo che rimasi sconvolto dal titolo di una canzone: Scusami Se Ti Amo. Non ci potevo credere, sulle prime pensai fosse colpa della correzione automatica di Word. Magari la canzone si intitolava Scusami Se Ho Defecato Nel Bidet, perché non era possibile che Grignani avesse scritto una canzone in cui lui ama, con lo sfarzo di cui solo lui è capace, ma chiede scusa a lei addirittura del suo amore, forse troppo invadente, forse troppo appassionato. Roba da matti, non pensavo potesse esistere un amore tanto grande. MA ALLORA CARO MIO SEI VERAMENTE UNA PERSONA FANTASTICA E PACIOSA!!!