Nonostante abbia già superato i quarant’anni, faccio ancora orgogliosamente parte di una minoranza che vive ai margini della società. Non parlo né dei fumatori irriducibili né degli omosessuali che sanno ancora vestirsi, ma di un gruppo molto più trasversale e disprezzato: i single. Ci ho provato, ma la monogamia non fa per me. E non perché sia ossessionato da chissà quali appetiti sessuali: la curva della mia libido segue perlopiù il docile profilo delle collinette di un campo da golf, alternate a fasi di depressioni caspiche e interrotte da sprazzi di euforia con una frequenza da cometa di Halley. Il punto è che condividere ogni momento – intimo o sociale che sia – con una sola persona mi sembra una condanna più che una scelta.
Non sono così romantico e fiscalmente ingenuo da non sapere che la libertà ha un costo. Se l’istituzione della coppia etero monogama regna incontrastata da secoli sulle economie internazionali, ci sarà ovviamente il suo bel motivo. E ormai il virus si è esteso anche tra gay e lesbiche di ogni età ed estrazione, attraverso un camouflage eteronormato che avrebbe profondamente deluso Foucault. Dopo aver assorbito nel giro di un paio di generazioni il grigiore del suo equivalente etero, la coppia arcobaleno ha perso quel suo sapore pioneristico di conquista e si è già fossilizzata come una prassi inevitabile. Agli occhi di una giovane coppia gay, un single casto come il sottoscritto non è altro che un vecchio porco alla deriva. Mi sento meno giudicato da un pullman di ultras dell’Atalanta che dagli omosessuali di Porta Venezia.
La singlefobia è trasversale e noi che ne siamo vittime dovremmo unirci in una qualche forma di resistenza, abbattendo le differenze e i pregiudizi che separano voi single etero da noi zitelle queer per creare un fronte unico contro il costante ricatto delle orde monogame, che ci vorrebbero accoppiati e infelici come negli abissi andalusi di Nozze di sangue di Garcia Lorca, un dramma teatrale in cui la realizzazione individuale è considerata un attentato all’ordine costituito e – nel nome del matrimonio – ogni delitto è permesso. È grazie a questo modo di pensare che ogni anno si contano più divorzi che coriandoli nel Sambodromo di Rio de Janeiro.
Il mito del playboy ha perso fascino, e un seduttore senza fascino è clinicamente morto. Oggi il vecchio 007 avrebbe l’MI6 alle calcagna. E non escludo che nella sua prossima incarnazione cinematografica possa trasformarsi in una donna sposata.
Nei confronti della società, i single si permettono un lusso inaccettabile, quasi antistorico, quello di vivere come James Bond in una protratta situazione di indeterminatezza, sfuggendo a una specifica etichetta. Ma la burocrazia deve pur avere il suo contentino, ed ecco allora che – nel paradiso della logica che è la burocrazia tedesca – sui documenti dei single compare una curiosa dicitura: Alleinstehend, che vuol dire letteralmente “da solo” (allein) “in piedi” (stehend), standing alone, come direbbero gli inglesi. Presumo che agli occhi di un impiegato dell’anagrafe di Lipsia quella formula sia piuttosto neutra e non esprima un giudizio sulle persone single. Io, però, sono italiano, quindi se leggo Alleinstehend non posso fare a meno di subodorare un’ambivalenza e pormi la domanda: questo “stare in piedi da soli” è un’espressione che glorifica la resilienza e l’orgoglio delle persone indipendenti o una pietosa commiserazione sul fatto che noi single, come i soldati di Ungaretti, “si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”, precariamente appesi a un rametto pronto a farci cadere in balia del vento? Stiamo belli dritti, piantati nel suolo come un traliccio dell’alta tensione, o ci reggiamo a malapena come asparagi sotto la pioggia?
Inutile dire che l’opinione pubblica pende più per la seconda ipotesi. E, del resto, come darle torto? La nostra cultura disprezza la poligamia e ha in orrore la solitudine (che è sempre vista come l’anticamera della morte). Anche nella storia del cinema, la figura del single maturo è sempre tragica. Non importa che tu sia sola/solo per sfiga o per scelta: nella tua testa c’è di sicuro qualcosa che non va. Da Viale del tramonto di Wilder a Veronika Voss di Fassbinder o Seul contre tous di Noé, non avere un partner è la prima causa scatenante di patologie autolesionistiche se non addirittura di brama omicida.
Eppure, se parlate con qualcuno che di psichiatria ne capisce, vi dirà che è vero il contrario: è quando ci sforziamo spasmodicamente di trovare e/o tenerci stretti un partner che mettiamo davvero a rischio la nostra salute mentale.
Per esempio, tra le persone affette da disturbi dell’umore attenuati come la ciclotimia, è facile riscontrare situazioni di dipendenza affettiva: si è disposti a mandare giù qualsiasi rospo pur di tenersi un partner e poi – quando il rapporto finisce – ci si ritrova impreparati ad accettare la solitudine. Non sono problematiche che nascono dal bisogno di sesso o dalla necessità di avere una figura di riferimento: si può scopare in giro e la tua figura di riferimento può essere benissimo un amico o Grace Jones. Il bisogno ossessivo di avere un partner a tutti i costi, fosse anche un sicario con la prosopagnosia, non è figlio né della libido incontrollata né di un bisogno di sicurezza: è soprattutto figlio dell’amore idealizzato, una delle più grandi trappole che la cultura occidentale abbia scelto di piazzare sul suo stesso cammino.
Per una persona in cerca di stabilità, l’ossessione di accaparrarsi un partner è l’equivalente di una merendina per una persona con disordini alimentari. Con la differenza che la merendina la finisci e butti via l’incarto, mentre il partner tende a piazzartisi in casa ed è più complicato da smaltire.
L’essere umano non è monogamo per principio o inclinazione naturale. La biologia e le infinite storie di corna che allietano le nostre vite pettegole ci dimostrano l’esatto contrario. E la storia è piena di personalità di altissimo livello che hanno vissuto da sole per tutta o gran parte della propria vita: da Condoleezza Rice a Agnes Martin, da John Waters a Giovanna d’Arco. Una persona in grado di guardarsi allo specchio e ammettere serenamente di non essere fatta per la monogamia, non dovrebbe sentire l’obbligo morale di piegare le proprie inclinazioni alle norme sociali e costringersi in un rapporto di coppia: le ripercussioni sulla sua psiche (e su quella della persona che avrà la sventura di esserne partner) sarebbero disastrose. Eppure, questo obbligo c’è. Certo, in Italia non ci sono leggi che costringano un maggiorenne a sposarsi e ad accoppiarsi vita natural durante con la stessa persona, ma di fatto la nostra economia – come quella di quasi tutti i Paesi del mondo – è strutturata in modo da rendere la coppia monogama non solo un obiettivo desiderato, ma l’unica vera realtà economica possibile: due persone che mettono insieme le proprie abilità e – soprattutto – i propri stipendi possono procurarsi più facilmente del cibo, una casa, un mezzo di trasporto, oltre ad avere una vita più facile in società, visto che quasi ogni prodotto culturale (che sia un libro o una canzonetta) tende a glorificare il loro stile di vita, mentre compatisce chi non ce l’ha e stigmatizza e isola chi non lo vuole.
Ma per quanto la cultura giochi il suo ruolo repressivo e di controllo, è soprattutto il lato economico della monogamia a rendere la coppia un concetto egemone anche in civiltà profondamente diverse tra loro. Insisto su questo aspetto, perché è nelle leggi del mercato e della matematica (e non nelle regole dell’attrazione) che si annida il cuore del problema.
Il sistema capitalistico risponde, infatti, alla matematica e alle astrazioni logiche che ne derivano. Ma alla base della matematica ci sono i numeri e quindi la nostra abitudine di contare da uno a dieci: un retaggio che – invece – ha origini decisamente poco astratte. Non contiamo fino a dieci perché le più grandi menti matematiche arabe e indiane dell’antichità ci hanno insegnato che è la soluzione più logica. Contiamo di dieci in dieci per una ragione molto più semplice: perché abbiamo dieci dita.
Il sistema numerico decimale, infatti, non è né l’unica alternativa né la più efficiente. Il dieci è divisibile solo per due e per cinque, oltre che per uno e per se stesso come qualsiasi altra cifra. Il dodici, invece, è divisibile per due, per tre, per quattro e per sei. Senza annoiarvi con dettagli tecnici che io per primo non saprei spiegare, vi basti sapere che il dodici è un numero decisamente più versatile del dieci. Eppure, il dieci ha vinto sul dodici. Così come la coppia ha stracciato i single su tutta la linea e continua a bullizzarci in ogni aspetto della vita quotidiana: dall’assegnazione di un mutuo fino a chi sale prima a bordo dei voli di linea.
Questa è la dimostrazione che, anche in quei casi in cui ci illudiamo che a prevalere sia sempre la soluzione più sensata, in realtà a prevalere è sempre la legge del più forte. Gli accoppiati hanno costruito una società che esclude i single e, alla stessa maniera, i bruti decimalisti hanno stampato a suon di sberle le proprie dieci dita sulle innocenti gote dei duodecimalisti, una schiera di anime pure, devote alla logica e alla duttilità, che ancora oggi cercano di imporre – con scarsissimo successo – un sistema numerico basato sul dodici.
Nella lotta contro la monogamia, noi aspiranti poligami siamo vicini nello spirito ai coraggiosi duodecimalisti: anche noi ci battiamo per una soluzione alternativa alla mentalità imperante, una soluzione meno rigida, in grado di accogliere tutti i compromessi e le mezze misure che sono alla base della vita. Una soluzione che, tra l’altro, è sotto gli occhi di tutti dall’alba dei tempi.
Per gli amanti del dodici, però, oltre al danno si aggiunge la beffa. Perché io stesso in questo articolo ho usato le parole “duodecimale” e “duodecimalisti” per indicare rispettivamente il sistema numerico basato sul dodici e i suoi sostenitori, per i quali – a quanto pare – adoperare quei termini è una crudeltà pari al deadnaming. “Duodecimale”, infatti, è una parola la cui origine latina richiama proprio il loro nemico giurato: il sistema numerico decimale. Per questa ragione, la Dozenal Society of America e la Dozenal Society of Great Britain si impegnano nella diffusione del più corretto “dozzinale” per indicare il proprio sistema numerico del cuore. Una battaglia meritoria, peccato che in Italia “sistema numerico dozzinale” suoni più come un insulto che una scelta di civiltà: mi fa pensare a un povero 12 che avanza smarrito tra le corsie di un centro commerciale, spingendo mestamente il carrello alla ricerca di mensole in compensato per la sua libreria.
Scardinare un paradigma insensato non è cosa semplice. E se non ci sono riusciti delle grandi menti matematiche, figuratevi cosa potremmo concludere noi single che facciamo fatica a dividere il conto a fine cena. L’unica speranza risiede in un salto evolutivo. Chissà, forse, in un domani lontano, verranno al mondo solo esseri umani con sei dita per mano, rendendo completamente obsoleto il nostro sistema basato su dieci dita. E forse, in un inaspettato rovescio del destino, queste creature esadattili si renderanno conto che la coppia monogama è un’aberrazione matematica e, teletrasportandosi istantaneamente da un continente all’altro, daranno vita a una società poligama in cui nessuno sarà più costretto a sposarsi per potersi permettere l’affitto di un bilocale.