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Cose viste e sentite dalla mancata festa scudetto del Napoli

Cronaca del più grande coitus interruptus della storia moderna del calcio. Le bandiere azzurre vanno riarrotolate, si deve aspettare ancora un po'. In città c'è chi non la prende benissimo, ma sa che è solo questione di tempo. E non manca il cibo: «Che dobbiamo fa’, almeno soffriamo con la pancia piena»

Foto di Alberto PIZZOLI / AFP via Getty

In un attimo le sagome spariscono. Quelle dei giocatori e dell’allenatore che da giorni nei vicoli sono diventate un’attrazione turistica tanto quanto lo storico murale di Maradona con la finestra in piena faccia che non si può aprire mai, zeppo di tifosi e turisti entusiasti da tanto furore. Osihmen “mascherato”, Spalletti e Raspadori che calcia al volo in formato cartonato a metà pomeriggio finiscono al buio nel magazzino della pizzeria da Pasquale, mentre di fronte lo spritz all’Apicio in piazzetta Trinità smette di essere servito per un po’, a differenza di quel che dice l’Allegri sagomato al lato della strada (“è sempre servito”).

Sono le cinque quando la gioia finisce, il cuore dei Quartieri spagnoli si azzittisce, sui vicoli cala un silenzio di quelli pieni di delusione e vuoti di parole che non si trovano. Lo fa scendere il fischio finale dell’arbitro sul derby con la Salernitana che interrompe i festeggiamenti di una città che celebra lo scudetto già da giorni, che ce l’ha già in tasca e lo sa ma non può ancora esultare legittimamente. Una castrazione sportiva e di cuore senza precedenti che butta ancora la palla in là.

Credits: Clara Alberti

Le bandiere azzurre vanno riarrotolate. Si deve aspettare ancora. Fino a giovedì, forse mercoledì se la Lazio e la Juve aiuteranno nell’impresa, come ben ha fatto l’Inter sovrastando la Lazio due ore prima del gelo del pareggio di Dia all’84esimo minuto. Ma non è bastato.

E chi se lo aspettava di dover ancora rinviare un’attesa che qui, sul Golfo più bello d’Italia, dura da 33 anni. Nessuno qui tra i quartierani che alle 16 scartavano con le guance colorate d’azzurro dei via col vento freschi dal forno della pasticceria fabbrica Fiore e li offrivano a tutti, in un tripudio giustificato ma poi bastonato.

Credits: Clara Alberti

Napule tre cose tene belle: o’ sole, o’ vesuvio e o’ scudett” sostiene lo striscione, uno dei mille appesi tra un balcone e l’altro. Ma la terza virtù ha da venire ancora. E se possibile lo sgarbo fa ancora più male perché arriva da molto vicino, dalla Salernitana che strappa il pareggio e stronca ogni entusiasmo. I “pesciauoli” della Salernitana “che la covavano da giorni” e “figuriamoci se ci danno una mano” dice Salvo, che da Bergamo – dove si è appena trasferito per fare il vigile – è arrivato stamattina con Blablacar sicuro di fare festa tutta la notte per la sua Napoli e che, ahilui, lunedì mattina tornerà indietro con le pive nel sacco. “Incredibile” dicono tutti, al telefono, a mezza bocca all’amico, testa bassa e groppone in gola. “Siamo intossicati guarda” dice Sasà, che fatica a non commuoversi mentre torna a casa come tanti napoletani fanno che ancora è chiaro. “Ma poi giovedì è un’altra cosa, si festeggerà col buio, invece oggi e domani era una festa unica col sole e il fine settimana”.

Credits: Clara Alberti

Il più grande coitus interruptus della storia moderna del calcio è questa ultima domenica di aprile, che inizia con le finestre dei vasci spalancate, bottiglie sui tavoli e scale appoggiate ai muri per appendere ancora festoni che non ci stanno in realtà più e dopo qualche ora diventa una sfilza di strade mezze deserte e portoni sbarrati. La fiumana si sposta ma esulta poco, si scende verso via Toledo dove comunque si fatica a camminare e il coro si converte non senza amarezza in “Vinceremo, vinceremo!”. Si va verso il mare che male non fa. E intanto comunque non si smette di mangiare. Nel mezzo della frustrazione più dolorosa del secolo di una città che vuole esplodere ma ancora deve contendersi le code per un gelato e una pizza da Sorbillo non mancano, i tavoli sono quasi più pieni delle strade. “Che dobbiamo fa’, almeno soffriamo con la pancia piena” riconosce Gianluca, parrucca azzurra in una mano e pizza fritta nell’altra.

In piazza del Plebiscito alle 18 sono spariti già i festoni azzurri dai balconi pregiati del palazzo Reale che sabato erano stati tirati con tanta cura. Qualcuno festeggia comunque, amaramente, più per sfogare la rabbia “che da qualche parte meglio buttarla fuori”.

Credits: Clara Alberti

Anche perché a pranzo nei Quartieri girava voce che “l’ordine è di non toccare nessuno”, si festeggia, ci si diverte, ma nessun casino “che sennò in un attimo ci attaccano tutti siamo sotto i riflettori e non dobbiamo fare burdello”. E chissà se la disposizione di chi ha un peso nei vicoli vale anche in questa giornata mortificata.

“Io non riesco a festeggiare comunque, ma come si fa?” dice Diego, napoletano che vive a Como mentre guarda compagni tifosi avvolti in fumogeni azzurri. I bambini sono gli unici davvero contenti nella piazza più simbolica della città, perché è mezza vuota ed è tutta loro, per giocare con addosso le mini maglie di Maradona e Kvaratskhelia con palloni che possono viaggiare dritti da un lato all’altro senza colpire nessuno. Nemmeno il vigile del fuoco ai bordi della piazza che ha lo sguardo nel vuoto, gli occhi lucidi e le braccia incrociate dietro alla schiena, per lui nessun intervento, la festa vera è rinviata.

Tutto da rifare, tutto da ripetere. Le donne di casa dovranno ricucinare giovedì, la genovese come ha fatto domenica mattina alle 7 Anna Zizolfi, 67 anni, per la nipote, “che ha la casa piccola e le si impuzza tutta, così gliela faccio io” dice dalla finestra del suo vascio.

Difficile aspettare ancora una festa che si prepara da settimane e si attende da una vita. Solo nell’ultima settimana era già tutto pronto per la vittoria dello scudetto. I festoni, scheletri e wc di sfottò alla Juve, striscioni come Napoli esulta il Vesuvio erutta, b&b pieni e strapieni, locali da tutto esaurito.

“Perché per noi non è solo uno scudetto, è più un riscatto, alla faccia di chi ci pensa sempre come malintenzionati e ci vive come un posto pericoloso” dice Roberta, 44 anni, due figli, nata e cresciuta nei Quartieri. “Siamo tanto cuore e si vede”. In effetti si vede e soprattutto si sente. E non è solo il calcio che qui a Napoli è più di una religione, “perché noi il calcio non lo vediamo, lo viviamo”. La città vive un Rinascimento che riempie gli occhi e mette a proprio agio. Piena di turisti, che la preferiscono a viaggi in Marocco e in Tunisia e senz’altro attirati dal trionfo calcistico di una squadra vincente. In una città dove negli ultimi due giorni l’aria era di attesa, sospesa, quella calma piatta prima dell’esplosione che ancora, però, va frenata, mortificata, repressa. Anche se si sa che è solo un rinvio, costa parecchio e fa soffrire. Perché Napoli “è na strepp”. Una stirpe, una discendenza, pure qualcosa di più. Le radici non si cambiano. Ma devono aspettare ancora per affermarsi.

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