Ogni volta che in Francia succede qualcosa, qualsiasi cosa, il commento più diffuso tra gli italiani, quasi bisbigliato, suona pressappoco: “Saranno pure antipatici, però i francesi…” E in quei tre punti di sospensione sta tutto il taciuto complesso che proviamo nei loro confronti. Di recente è andata così quando Macron ha arginato la Le Pen, quando Mbappé e Pogba hanno vinto i Mondiali che noi guardavamo belli bianchi dal divano, e capita così oggi che i gilet gialli invadono le piazze e incendiano le strade.
Le Pen, Mbappè, gilet. Forse è una questione di suoni. Le parole francesi salgono fino alla fine; quelle italiane, proprio sul più bello, si ammosciano. Le loro sono tronche; le nostre, in buona parte, piane: un concerto di coiti interrotti. Buonasèèèra amòòòre – ci scimmiottano gli stranieri. Il tono sulla penultima sillaba è un accento che non ce l’ha fatta. Tutto ciò non rispecchia necessariamente la realtà, è marketing fonetico. Noi abbiamo avuto l’Impero Romano: da qui, qualche rara sdrucciola, così lontano che ormai l’entusiasmo è arretrato sulla terzultima. La penultima rappresenta il Rinascimento, l’accento del cigno. Allora ripetiamo la cantilena del furto della Gioconda, uno dei simboli universali di quell’epoca, l’ultima in cui abbiamo influito significativamente sul corso della Storia.
Viene da pensare a quel quadro come a un falso, che i francesi si sono inventati giusto per sbeffeggiare le nostre recriminazioni gesticolanti. Noi ci sentiamo un popolo decrepito, un avanzo di bellezza. Per i francesi, crediamo, la Rivoluzione è ancora tutta lì, nel motto d’orgoglio che chiude ogni loro pronuncia. E noi li ascoltiamo con ammirato livore: non si rendono conto che ormai è bella che fatta anche per la Grandeur? Sciocchi, eroici Francesi. Li ascoltiamo con la rabbia per un popolo che sentiamo simile al nostro ma che, a differenza del nostro, crediamo capace di andare fino in fondo al proprio destino. Se l’Europa fosse in grado di inscenare ancora una qualche tragedia in grande stile lo farebbe a ovest delle Alpi. La Penisola è da decenni un palcoscenico da operetta. In fondo, ci diciamo, l’Italia non esploderà mai. Al massimo, di un’esplosione, immaginiamo la parodia: un tizio che fa scoppiare un minicicciolo mentre urla bum a squarciagola, poi bisognerà raccogliere i resti, spiegare che si scherzava, e tutto ricomincerà daccapo.
Basta guardare l’espressione con cui nello spogliatoio del calcetto un francese in boxer guarda un italiano in slip, capo inconcepibile per i transalpini. “Voilà, les italiens” sta a significare la sua boccuccia accartocciata. Noi non riusciamo a capacitarci di come una nazione europea possa trovarsi ancora al di qua del ridicolo. Per noi tutto è ridicolo. Non è sufficiente nascondere la sagoma dei genitali e il pallore peloso delle cosce dietro lembi di cotone per salvarsi dalla condanna alla commedia. E allora tanto vale goderselo, il ruolo della caricatura che prima o poi i secoli riservano a tutti i popoli.
Perché che cos’è un vecchio, così instabile sulle due sole zampe secche, se non la caricatura di un essere umano? L’Orlando Furioso sta ai cicli cavallereschi bretoni e carolingi come gli spaghetti-western stanno all’epica di John Ford. L’abbiamo visto troppe volte dove va a finire l’epica, per crederci ancora veramente senza sentirci idioti. Magari fingiamo di crederci, dato che il tempo storico andrà pure riempito in qualche modo, ma sotto sotto ci diamo di gomito e pensiamo: la solita pagliacciata. Così ai nostri cugini invidiamo la fede nella possibilità di futuro, che invece noi crediamo di riconoscere come il solito vecchio presente con un accento di bellezza sull’ultima sillaba.