Alberto Piccinini: «Al sole che è arrivato dal deserto per scaldare i nostri cuori, Silvio». Sai cos’è? È la dedica che il Presidente B. lascia a Ruby Rubacuori su un libro che le ha regalato. Che libro? «Un libro di Forza Italia». Sai cos’è che mi ha sempre colpito di tutta ‘sta storia? L’immaginario tardo-coloniale di Silvio. Il deserto, le odalische, l’harem. Parigi, Charles Trenet, le barzellette che non fanno ridere, i commendatori in gita. Come uno di quei film in bianco e nero di Totò e Peppino, Carletto Dapporto, le maggiorate, di cui le sue tv erano piene negli anni ’80. Ora seguimi: per assecondare la Disneyland privata di papi, Ruby ha in cambio svariate buste con duemila euro in contanti, che è un prezzo onesto. Silvio è generoso. Paga da trent’anni tutti i suoi scudieri, i giornali, i giornalisti, i cosplayer, Rete 4, i garantisti, Gasparri. Non si spiega perché noi ce lo siamo dovuto sorbire a gratis per tutti questi anni.
Giovanni Robertini: Ho letto il libro di Karima el-Mahroug, mi è arrivato in pdf via mail. La mail precedente aveva il link per l’ascolto di Caroline Polachek, per dirti in che inferno di uffici stampa viviamo, ognuno di noi ha la scaletta di Sanremo quotidiana che si merita scritta da qualche intelligenza poco artificiale in un co-working a Nolo. Ma del disco parleremo dopo. La biografia di Karima aka Ruby è quella di una trapper ante litteram: l’infanzia nel paesello in Marocco, le botte del padre violento, l’adolescenza passata tra vendere asciugamani in spiaggia in Sicilia (a fare la vu cumprà, erano anni che non leggevo questa espressione) e la fuga da 18 comunità. «Ho camminato pericolosamente sull’orlo di un burrone, avrei potuto cadere e non sono caduta» è una delle frasi del libro, ma potrebbe essere cantata con l’Auto-Tune da Baby Gang o Simba La Rue.
AP: Mamma mia, io ne sono perdutamente catturato. Il grande romanzo italiano. Una roba tra Emile Zola, Vasco Rossi, Umm Kulthum, il maresciallo Rocca, Francesca Sciarelli. Netflix scansati, Chora Media vatti a nascondere. «Durante le cene l’atmosfera era falsamente allegra, con un retrogusto di tristezza. Ridevano tutti moltissimo, esageratamente. Le ragazze facevano a gara per essere le più belle, le più sexy, in una competizione tutta loro dalla quale io ero esclusa; erano loro per prime a ritenermi diversa, un zingara dicevano». Ennio Flaiano non avrebbe saputo raccontare meglio di così Sanremo. Invece sono le cene eleganti.
GR: Perché come succede a ogni trapper a un certo punto c’è il momento della popolarità: Lazza, Blanco, Karima. Che sia bling bling o bunga bunga poco importa, come non importa se fai milioni di ascolti su Spotify o balli la danza del ventre con «un vestito regalato al Presidente da Gheddafi»; alla fine, dice Karima, «le accuse che negli anni mi sono state fatte più spesso sono tutte quelle che si possono associare al concetto di marocchina di merda». Eccolo il vero Made in Italy, quello che pure Rosa Chemical si è dimenticato di citare. Ed ecco anche il definitivo monologo di Sanremo, che non abbiamo ascoltato e che forse non ascolteremo mai: quello di Karima.
AP: Sono sincero, mi manca Sanremo. Certo che non lo sopportavo. Ma fa lo stesso: Sanremo is a state of mind. Il sogno che non torna mai più. Una settimana in vacanza nella capitale dell’Italia vera, che per metà è Topolinia e l’altra metà Teheran. Se rompi i fiori della zia Pina o fingi di sbaciucchiare uno del tuo stesso sesso meriti la galera, le frustate, la lapidazione. I ragazzi cantano e raccontano barzellette, le ragazze fanno i monologhi ma tanto le guardano il culo. Come alle cene eleganti. Lunedì tutti parlavano di nuovo di cose, la guerra, gli ufo, il terremoto, Elly Schlein. Ho aperto il sito di Rolling Stone e c’era un pezzo sul disco solista del batterista dei Radiohead: Philip Selway. Ci può essere qualcosa di più triste? Ancora ieri la nostra bolla Facebook in evidente crisi epistemologica si interrogava sull’album di Caroline Polachek. Ti sei interrogato? Io sì. Una mezza zozzeria: mille volte meglio Anna Oxa.
GR: Sì, guarda direi meglio Polachek & Chiara. Comunque cosa possiamo noi di fronte alla potenza dell’hype? O si fa la figura dei rosiconi o si cerca di guardare oltre. Quindi raccolgo la provocazione del nostro collega Damir Ivic che partendo da una consapevolezza comune sul trattamento della musica da dancefloor paragona il disco della Polachek al nuovo dell’illustre poco conosciuto producer italiano Turbojazz: «fate finta che la Polachek sia una anonima cantante lanciata dalla De Filippi, e Turbojazz invece un chiacchieratissimo protetto di Kanye o del compianto Abloh». Grazie Damir, anche se mi rassicura la certezza di incontrarci ai soliti concerti off con una ventina di paganti: lo status conclamato di “nicchia” come antidoto al virus dell’hype.