Tra le bandiere del Milan (tante) e di Forza Italia (meno), due sorridenti signori singalesi, camicia bianca e cappellino blu, reggono quella del Paese loro. «Siamo venuti per salutare, era il Presidente quando siamo arrivati dallo Sri Lanka». Continuano a sorridere e a sventolare, mentre nei ventiquattro gradi (percepiti quarantatré) del giugno milanese s’attende. Basterebbe questo.
Tredici e trenta circa, una signora succhia il fondo del suo frullato di fragole, un’altra si chiede se il chioschetto davanti alla Galleria è tanto lontano, «devo prendere l’acqua se no muoio», è come negli stadi prima dei concerti d’estate, quando sottopalco ancora non c’è troppa ressa ma non si vuole nemmeno perdere il posto guadagnato. Poi però arriva la curva rossonera e si fermano tutti, è una photo opportunity imperdibile ma anche il senso ultimo di questo Duomo non più souvenir usato come arma ma casa del signore (del Milan).
Da ragazzino, avevo appena preso la patente, il sabato mattina andavo nella piscina (comunale) di fronte a Villa San Martino. Quando Berlusconi era a casa, i carabinieri sostavano all’ingresso della via. «Dove va?». «A nuotare», rispondevo indicando la borsa Arena. «Prego, passi». Sono stati i miei incontri più prossimi con lui – a parte i bonifici (puntualissimi) ricevuti dalle sue aziende.
Il mio unico (misero) aneddoto solo per dire che temevo, all’ingresso stavolta di piazza Duomo, di non vederlo manco da morto, io – unico al mondo, o quantomeno a Milano – a non averlo mai visto da vivo. Da piazza Diaz non si passa, allora faccio il giro e sembra anche lì tutto bloccato. «Deve andare di là, qua passano le autorità», ma io per ora vedo solo DJ Ringo.
Il fondo della piazza però è libero, da dove ci sono le palme di Starbucks allora contestatissime e ora rifugio dalla caldazza, come si dice qua, si entra easy, sempre come si dice qua. Era facilissimo davvero, eccomi di colpo tra le settantenni sagge, forse esperte di funerali, che si sono portate l’ombrellino parasole. Mi bracca quello che vende le bandierine tricolore, «solo 1 euro, poi sopra ci scrive la data di oggi, per ricordo». Quasi quasi.
In realtà in piazza ci sono più giovani che sciür, accanto agli ultras staziona un gruppetto di baby forzisti con completo da Publitalia, immutato e immutabile nei secoli dei secoli amen, e spilletta che pare urlare “che siamo tantissimiiiii”. Dicono «siamo cresciuti con lui», ma cresciuti con lui cosa, che c’avrete sì e no ventidue anni. Io sì che con Berlusconi ci sono cresciuto, io sì che non l’ho votato, io sì che andavo alle manifestazioni contro di lui, e ora, con la scusa che sono un reporter d’assalto (vabbè), eccomi qua nella piazza della royal celebrazione. È giusto così.
“Un presidente! C’è solo un presidente!”, inizia a urlare la curva, però il coro non parte, succederà solo più tardi. Ma è uno dei segni del fatto che siamo dentro un poltergeist, catapultati in una dimensione in cui Silvio Berlusconi è ancora il presidente del Milan e di tutto, e dove una signora con la treccia bionda e una t-shirt “No al testamento biologico” sgrana il rosario reggendo il cartello “Grazie per Eluana Englaro”. È una piazza da cui vorresti scappare ma che ti tiene inchiodato lì, a volerne ancora.
È tutto fermo a quindici anni fa almeno, anche per chi non l’ha mai vissuto. Un altro, c’avrà venticinque anni pure lui, arriva spavaldo davanti ai fotografi con un foglio in mano: “TRAVAGLIO UOMO DI MERDA!”. Uno che potrebbe essere suo nonno gli va dietro: «Che bastardo…». La signora No Eutanasia annuisce e sospira: «Avrebbe dovuto benedirla, quella sedia, non solo pulirla». Sappiamo tutti di cosa parla.
Qualcuno si vede che si è infiltrato, che è qui, come me, principalmente per lo spettacolo. Un trentenne con la camicia rossa ha una borsa di tela con scritto “’Sta rottura di coglioni dei fascisti” (il provocatore!), ma nessuno sembra curarsene, l’attenzione è tutta sul maxischermo dove la gente saluta, si asciuga il sudore, di certo nessuno piange.
Poco pathos, Silvio è morto e non se ne farà un altro ma vabbè, in fondo ormai siamo vecchi tutti, chi c’ha più voglia di tifare o contestare per davvero. A fare da specchio alla piazza c’è la chiesa che piano piano si riempie, in un clima, anche lì, più da convention aziendale che da funerale di Stato. Incontro un giornalista di Canale 5, «son più tristi a Mediaset per quello che succederà che qui in piazza».
Stacco. Sullo schermone gigante appare Arcore, la via della mia piscina, il feretro che lascia la villa. Parte il primo applauso, cresce poco dopo quando il corteo passa davanti allo stadio del Monza. E ancora applausi per Salvini, La Russa, la piazza si scalda, il silenzio è solo su Veronica inquadrata nel suo banco, di nuovo un’ovazione sulla contritissima Meloni e persino su Mattarella (sarà il caldo) che chiude il red carpet. Rivolevamo i Telegatti? Eccoli.
«Il passaggio sotto il tribunale gliel’avrei evitato», fa uno mentre il carro funebre s’avvicina al centro, penetrando nella Milano dei camparini e del Manzoni, e delle sue librerie che ora espongono in vetrina il ritratto in rigoroso bianco e nero, come fosse Evita Perón. Don’t cry for me Madonnina. Riparte il coro “Un presidente! C’è solo un presidente!” e ora gli vanno dietro tutti, come all’uscita faranno con “Berlusconi alé alé”. L’Inno di Mameli invece non lo canta nessuno.
Comincia la cerimonia in chiesa, mentre passa la bara nella navata centrale la gente fa le stories come al matrimonio dei Ferragnez. «Quello è Fedele Confalonieri», dice sicuro uno in piazza accanto a me, rivolto alla fidanzata; in realtà quello inquadrato è Paolo Berlusconi, ma come contraddirlo, qui ognuno sta scrivendo il finale della sua storia italiana, della sua Succession. «Quella bionda è la Marta Fascina», dice una signora con gli orecchini a cuore all’amica. «Quella lì?». «No, quella è Marina, la figlia». «Non ho capito».
Parte l’omelia e la piazza inizia a svuotarsi, la gente andrà a vedere la diretta in tv, del resto lui ci ha insegnato che si fa così.