E morirono tutti felici e contenti | Rolling Stone Italia
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E morirono tutti felici e contenti

Siamo fottuti e ci ridiamo su. Ai dati preferiamo le battute spiritose, alle evidenze le favole su Annibale che passa le Alpi senza neve. La prossima catastrofe ci coglierà col capo chino sullo smartphone, a ridere degli scienziati

E morirono tutti felici e contenti

Cristiano Godano

Foto: Fabrizio Travaglio

Venerdì 22 novembre, un giorno dopo il mio compleanno, risalgo verso il Piemonte da Firenze, dove la sera prima ho suonato in teatro, solo soletto. Io e la mia J-200 (dunque non solo soletto a pensarci bene). In treno una piacevole parentesi mi si apre con il passaggio a Milano: mentre sono assorto nel rispondere ai tantissimi messaggi di buon compleanno ricevuti su Instagram e su WhatsApp, una mano si posa sulla mia spalla. È Dario della Rappresentante di Lista, che insieme a Veronica, davanti a lui, sta per sedersi di fianco a me. Passeremo il viaggio fino a Torino chiacchierando io e lui, mentre Veronica resterà intenta in una attività sostanzialmente triste: verificare i contenuti di quattro buste di quel verde che solo gli uffici amministrativi italici potevano inventarsi. Un verde che ti fa battere il cuore ogni volta che il postino in attesa della tua firma lo tiene in mano nelle fattezze cartacee di una busta rettangolare («Una è di una nostra amica a cui abbiamo lasciato la macchina qualche tempo fa», dice Veronica).

La giornata è bellissima: si intuisce il freddo secco che ci accoglierà quando scenderemo dal treno, e le montagne spruzzate di bianco laggiù in fondo troneggiano sullo sfondo, quasi immobili, mentre a diverse velocità di scorrimento le cose sotto i nostri occhi paiono riflettere la luminosità del cielo. O assorbirla per ammantarsi di qualità e farsi meglio notare.

Una volta scesi loro vengono arpionati da un ammiratore e io li saluto un po’ frettolosamente: certe situazioni sono tanto plausibili per noi persone riconoscibili quanto sono strane da condividere coi nostri consimili, quelli che in quel momento sono con te ma non sono l’oggetto delle attenzioni altrui. La mia frettolosità serve dunque per scongiurare un eventuale imbarazzo reciproco, in un probabile eccesso di scrupolosità.

Avviatomi in macchina, che avevo lasciato a Porta Susa, imposto il navigatore per Serravalle Lunga, paesino nelle Langhe a una quindicina di minuti da Alba, capoluogo di quella meraviglia marchiata Unesco. In serata avrò un incontro pubblico con l’amico Telmo Pievani (è un filosofo scientifico, e divulga la scienza con charme impareggiabile), e sarà un incontro diverso da tutti gli altri fatti finora insieme. Se in precedenza portavamo sui palchi lo spettacolo Canto d’acqua (l’argomento trattato è il cambiamento climatico), questa sera, 22 novembre, la nostra agente Paola Farinetti si è inventata una cosa nuova e avventurosa: l’intervista vicendevole che io e Telmo ci faremo parlando dei nostri rispettivi libri (il mio è Il suono della rabbia, quello di Telmo è Tutti i mondi possibili: un’avventura nella grande biblioteca dell’evoluzione).

Arrivo intorno alle 16.30 nell’emozionante Antico Podere Tota Virginia dell’amico Riccardo, che gli organizzatori del concerto hanno felicemente individuato come posto del mio pernotto. Questo podere ha il privilegio di trovarsi sul crinale di un affaccio su uno spicchio di Langa fastoso, e i saliscendi delle colline impongono il loro carisma alla vista: trapuntati di vitigni e arricchiti di costruzioni con le torri e la loro merlatura, di campanili e campane, di tetti, occupano tutto lo spazio visivo. E il Monviso troneggia lontano. Mi ripiglio in stanza e attendo l’ora: un soundcheck mi aspetta.

Il luogo dell’evento è all’interno della tenuta di Fontanafredda, noto vino piemontese. Nata nel 1858 a seguito dell’acquisto fattone da Vittorio Emanuele, si manifesta nella sua composta imponenza al mio ingresso nel viale alberato: fuori è già buio, ma un gigantesco grappolo d’uva messo come una scultura ai bordi della strada, in prossimità del cancello, mi ha fatto trovare il posto facilmente.

Arrivato al parcheggio riservatomi, scendo dall’auto e vengo accolto da Paola, che mi conduce in fretta all’interno di uno dei due grossi edifici, quello dove già molte persone sono sedute in nostra attesa. Non amo fare il soundcheck con la gente di fronte, e mi accordo col tecnico: mi farà un semplice line check e quando durante lo spettacolo mi verrà chiesto di suonare un pezzo spererò che l’ascolto sia accettabile. Nel caso sarà un pezzo che userò come test per mettere a posto qualcosina in funzione del secondo, e poi eventualmente del terzo. (Questa nostra esibizione sarà al 90% di parole, e la musica sarà un semplice corredo. Non più di tre pezzi).

E Telmo arriva. Proviene dal piano di sopra, dove il suo alloggiamento è stato previsto. Saluti e abbracci e ci avviciniamo al bancone per chiedere qualcosa: mancano una ventina di minuti all’inizio e li impiegheremo per chiedere a Paola come impostare le chiacchiere in pubblico (ci intervisteremo io e Telmo vicendevolmente? Faremo un sunto dei nostri rispettivi libri? Quanto tempo avremo a disposizione? Interverrà anche lei in qualità di moderatrice?). Sento che mi faranno bene un po’ di zuccheri, e chiedo una bella cioccolata calda.

Ho conosciuto Telmo nel giugno del 2022. Fummo entrambi ospiti di un evento organizzato dal Corriere della sera sul riscaldamento climatico: era una giornata di possente caldo estivo in un parco a Milano, in ora pressoché prandiale, se non erro un sabato o una domenica. Immaginate il caldo afoso delle città di questi tempi, sotto il sole, col verde delle vegetazione impossibilitato a ristorare a certe condizioni in assenza di refoli. I camerini erano sotto un bianco gazebo in pvc, simpaticamente strettini: impossibile non ritrovarsi gomito a gomito coi vari ospiti. E quando fui gomito a gomito con lui mi congratulai per il suo lavoro svolto, stringendogli la mano e tenendo i miei occhi gioviali nei suoi, che ricambiò con altrettanta giovialità e un’ammirazione che mi lusingò. La reciproca simpatia fu immediata, e ci dicemmo vicendevolmente che un giorno sarebbe stato bello… E quel giorno un giorno arrivò, e ci ritrovammo, sempre a Milano, nello spazio affascinante della Centrale dell’acqua. Fu la prima di Canto d’acqua, di cui facemmo sostanzialmente le prove in pubblico.

Emersero lampanti, in questa prima frequentazione professionale ufficiale, alcune sue caratteristiche che nel corso del tempo avrei imparato a individuare al meglio: un entusiasmo contagioso, un senso di appartenenza senza se e senza ma alla missione civica ed etica della divulgazione (in questi incommentabili tempi di denigrazione della scienza tale senso di appartenenza si configura quasi come un atto eroico), una energia ammirevole (Telmo è un ubiquo, come me, nonostante la sua attività di docente universitario lo tenga spesso fermo nelle aule, e ha uno spirito eminentemente rock, perché accetta di buon grado qualsiasi nuova destinazione dello spettacolo, quasi come se fosse in tour, magari di rientro da un periodo di studio e docenza e workshop in città d’oltreoceano come New York), e infine un’ottima cultura (laurea in filosofia della scienza, studi di fisica e biologia, dottorato a New York, una curiosità intellettuale senza confini, una conoscenza importante della letteratura che quella sera gli permise di agganciarsi senza alcun problema a una mia canzone su Mandel’štam citando il suo Viaggio in Armenia, e parlandone a ragion veduta).

Il confronto con lui, che considero un privilegio, si è estrinsecato via via, e si è perfezionata sempre più la possibilità reciproca di metterci a fuoco. Che fosse prima e dopo gli spettacoli, tra i camerini del soundcheck e le cene, sempre le occasioni di scambio di opinioni si sono rivelate una occasione per confermarci e consolidarci nelle nostre prime impressioni, e quando lui mi ha confessato di aver letto tutto il mio libro dicendomi «Sono quasi preoccupato: sono d’accordo su tutto», mi ha regalato una soddisfazione gigantesca. Una volta avemmo l’occasione di chiacchierare moltissimo: fu quella in cui viaggiammo insieme da Bergamo a Udine, andata e ritorno. Pressoché una decina di ore di svolazzi qua e là sui temi a noi cari, nelle quali entrambi approfittammo dell’opportunità per chiederci a vicenda di cose dell’altro che ci incuriosivano e di cui eravamo ovviamente all’oscuro. Lui a proposito di tanti meccanismi della musica e del metodo artistico, io a proposito di quello scientifico ed etico-esistenziale-filosofico.

Il ritratto che oggigiorno ho di lui è di una persona di spiccata onestà intellettuale, di seriosità dell’approccio all’argomento che viene gestito con raffinata leggerezza, di eleganza nelle abilità dell’oratore, di cultura mirevole, di conoscenza approfondita delle sue materie: tutte qualità che lo rendono stimato e ricercato studioso in giro per il mondo. Qualità, aggiungo, che le sacche resistenti dei consessi civili hanno ancora in buon conto, sapendole valutare come primarie, essenziali, emozionanti, eccellenti, desiderabili, augurabili, straordinarie… Le stesse che, per contro, garantiscono il disprezzo o la noncuranza di frange nutrite di popolazione sempre più incastrata nei rigidi meccanismi della protervia dell’ignoranza (l’ignoranza in sé non è assolutamente una colpa, lo è quando diventa arrogante), programmata dal capitalismo della sorveglianza coi suoi algoritmi e fomentata dai peggiori politici in circolazione, che a loro volta sono l’incarnazione spudorata della protervia dell’ignoranza.

Una persona, insomma, da cui trarre gli spunti per acquisire informazioni e occasioni di riflessione in un territorio libero dalle ideologie e dalle tifoserie dei social, quasi adatti (gli spunti) a scardinare alcuni dei tanti bias cognitivi che tutti abbiamo. Telmo è così d’accordo con me che non ha mai avuto un profilo social. E infine, per dare una cornice al quadro, una cosa da cui ho sempre cercato di farmi ispirare per attenuare il mio pragmatico pessimismo raziocinante: l’ottimismo.

La sua fiducia nella creatività umana è sempre stata capace di sorvolare sulle brutture che impestano tutta la faccenda del riscaldamento climatico, dal fatto stesso di quanto sia brutto e letale all’impossibilità di venirne a capo complice la sordità di chi in primis se ne dovrebbe occupare: le aziende onnipotenti di questo capitalismo rovinoso, e la classe politica di ogni dove (per brevità: lo Stato), con esse collusa e alla fin fine a esse asservita.

È sempre stato un sollievo confrontarmi con lui riportandogli il mio senso di allarme e ricevendone in cambio una morbida risata di ragionevole ottimismo e di fiducia nel potenziale inventivo dell’uomo, e da quella risata ne uscivo parzialmente sollevato e in grado di dare un’ultima chance alla speranza.

Bene: prima del soundcheck quella sera ho dunque preso la mia bella cioccolata calda, e lui, se non erro, un chinotto (Paola un ben più coerente bicchiere di vino rosso). E mentre inizio a sorseggiare ci guarda e ci dice «Gli ultimi dati sulle rilevazioni del clima sono terrificanti. Siamo fottuti». Ora: il tema del riscaldamento climatico a me appare incredibilmente poco cagato. Se da una parte mi piace sperare che in mezzo ai negazionisti e agli ignavi vi siano altrettante persone ben consapevoli della estrema gravità della situazione in cui versiamo, dall’altra le mie sensazioni mi suggeriscono altro. La gravità della situazione è tale per cui «siamo fottuti» equivale a dire che ciascuno di noi, nessuno escluso, a destra come a sinistra, sarà potenzialmente costretto a preventivare prima o poi momenti di puro panico e paura per qualche catastrofe nei suoi pressi: e se gli andrà bene ne uscirà vivo.

«Siamo fottuti» andrebbe preso tremendamente sul serio, perché riguarda la vita di tutti noi, e non solo dei nostri figli. Le catastrofi di Valencia e simili sono solo l’inizio di avvenimenti che saranno sempre più frequenti, e la loro frequenza potrebbe crescere con una certa esponenzialità in un lasso di tempo che gli scienziati di tutto il mondo stanno interpretando come molto, molto più ristretto di quello che si pensava e sperava.

Questa accelerazione li sbalordisce e li getta in un oceano di preoccupazione tendente alla disillusione e alla frustrazione della rassegnazione. Se da una parte si sta cercando di capire come mai tutto va più velocemente di quanto sperato, dall’altra c’è la consapevolezza di essere soli con i moniti ormai decennali non raccolti da aziende e politici. «I politici non ci ascoltano, c’è una incredibile assenza di consapevolezza da parte di tutti, a destra come a sinistra. La Cop29 è un fallimento, e ora con Trump sarà tutto peggio».

Esistono i dati ed esistono gli organi di informazione quantomeno “tematici” che li diffondono, e si cerca di trovare la giusta comunicazione per far sì che le persone se ne rendano conto, ma qualsiasi post che parli di riscaldamento climatico, ne sono testimone quotidiano, riceve pochissime reazioni e pochissimi like, e fra i pochi commenti una buona percentuale è di qualche sciocco che dice la sua cazzata. In genere la più fragorosa, quella che replica a un dato sconcertante come «È definitivo: il 2024 è l’anno più caldo di sempre da quando esistono le misurazioni», è più o meno la seguente: «Siete ridicoli: ogni anno dite che è sempre più caldo». Resta poi sempre a disposizione dei più convinti la rassicurante balla che «è normale che accada, le oscillazioni del clima sono sempre esistite», e chi si spende per farlo notare si prodiga nell’andare oltre l’insulto epigrammatico o l’insolenza di circostanza spiegando agli imbecilli come il sottoscritto, con un tono caustico e insofferente, il perché (in genere «Annibale e le Alpi» è fra le “spiegazioni” più ricorrenti, e se cliccate su Google troverete quanti siti seri parlino di balla sbugiardata dal fact checking).

Sento che serve (ancora) precisare: certo che sono sempre esistite. Ma in centinaia di migliaia di anni e in centinaia di milioni di anni: sono le ere geologiche, sono i loro sotto-periodi, sono le glaciazioni (la piccola era glaciale, abbreviata in Peg, di durata brevissima rispetto agli standard di questi fenomeni, durò circa cinque secoli, mentre quello che stiamo facendo noi umani con le attività industriali inquinanti ha origine intorno alla fine del 1800 con la seconda rivoluzione industriale: in circa 140 anni abbiamo ottenuto quello che la natura ottiene in multipli consistenti di questa cifra assai piccola). Questi grossi scomparti della storia del pianeta (che ha quattro miliardi di anni di vita) sono influenzati dagli spostamenti dell’asse terrestre e dell’attività solare: cose gigantesche da rapportare ai milioni di anni, non ai secoli. Anche un Annibale a caso scompare in questo giganteggiare incomprensibile.

Telmo me li ha messi a disposizione quei numeri. Me li sono guardati perché avevo intenzione di fare un articolo sul riscaldamento climatico partendo dalle sue preoccupazioni e passando per quei dati, ma poi più cercavo di capirli più mi rendevo conto che quasi nessuno li avrebbe letti. In estrema sintesi: i dati reali sul riscaldamento climatico sono peggiori di tutte le previsioni e dei modelli calcolati finora, che già erano preoccupanti. Nel 2024 il riscaldamento globale sarà di 1,65 gradi ed è ormai pressoché impossibile rimanere sotto i 2 gradi nei prossimi anni. Il mondo non sarà più lo stesso.

«Siamo fottuti» dovrebbe essere il pepe al culo definitivo dell’intera umanità, che glissa con ilarità o noncuranza come nel film Don’t Look Up, straordinario nel predire ciò che sta per accadere. In esso vediamo gli scienziati che annunciano l’arrivo della cometa (metafora della catastrofe del cambiamento climatico in arrivo), vengono ospitati in televisione, presentatori e presentatrici di show e telegiornali fanno finta di ascoltarli con serietà, attendono che quella dello scienziato si trasformi in una rassicurazione per il popolo, cominciano a schernirli quando questo non avviene, li cacciano dal programma. Tutto il film è una rappresentazione della stoltezza del genere umano, che non guarda in alto dove la cometa sta per arrivare davvero e sta per estinguere la razza umana perché l’impatto sarà tremendo: il capo sta giù, negli abissi dello screen o nella medietà della vita quotidiana.

Fate un esercizio di immaginazione: pensate a un gruppo di scienziati autorevoli (e sconosciuti ai più) che in un gesto di extrema ratio comincino a farsi ospitare nelle tv di alcuni Paesi del mondo occidentale per urlare che davvero non c’è più tempo e che siamo prossimi al peggio: e cerchino di farlo in modo reiterato, sempre più ossessivo, angosciato, ultimativo (stile Greta, immaginateveli così), chiedendo spazio nei talk show, nei tg, nei programmi radiofonici. Non verrebbero ignorati e/o presi per pazzi? Non verrebbero derisi qui sui social e ovunque? E d’altronde, fra voi che mi leggete ora, quanti sono quelli che pensano io sia un pessimista un po’ patetico che sta esagerando goffamente?

Uno dei compiti di questo articolo sarebbe quello di riuscire a scuotere dal torpore le persone. (Perché mai? Cosa possono fare le persone? Che colpa hanno in fondo? Quasi nessuna colpa, dico io, a parte gli ignavi e i menefreghisti e i negazionisti. Solo penso, però, che una possibilità di uscirne passerebbe per una richiesta globale di cambiamento: sei, sette miliardi persone che si incazzano e chiedono di essere salvati… Perché in tal caso aziende e Stato avrebbero buon gioco ad andare in quella direzione: se tutta l’umanità lo chiedesse non sarebbe per nulla difficile accontentarla. Basterebbe spostare il business in direzione virtuosa. Ma ciò, ovviamente, non accadrà mai).

Per riuscire a scuotere le persone dal loro torpore, ho sempre pensato, servirebbero parole adeguate, fra l’accoratezza e il sentimento. Ma quanto più io provi a trovare la via del pathos definitivo, tanto più percepisco l’impossibilità di raggiungerla. Il pathos definitivo di cui parlo mi esporrebbe semplicemente a una varietà di reazioni sconfortanti, perché dovendo assumere le sembianze di un annuncio dell’apocalisse (cos’altro è se non una apocalisse un trauma che può annientarci o decimarci?) perderebbe fatalmente di tutta la credibilità che andrebbe disperatamente cercando. A essere crudi ed estremamente realistici si dovrebbero dire cose dal sapore concretamente catastrofico e diretto, senza edulcorazioni e giri di parole, ma semplicemente non si verrebbe presi sul serio. D’altronde: perché dovrei essere preso sul serio? Chi sono io? Perché mai mi metto in testa di provare a esportare la mia paura nelle menti altrui? Giusto è provarci, forse un po’ folle sperare di riuscirci.

E se un linguaggio allarmato e disperato farebbe sorridere (eppure è quel che è: un fottuto disastro alle porte. Non è forse disperante? C’è un cazzo da ridere…), stare entro i confini di una brillantezza più o meno intellettuale, argomentando con qualche forma di controllo e di stile fra l’ironia, l’understatement, il garbo, l’acume, mi sembra ormai francamente inutile, e in questo sentimento percepisco la somiglianza con lo scrittore Jonathan Franzen, sempre estremamente attivo e competente sul tema, che già qualche anno fa alla domanda su come se la viveva ultimamente col riscaldamento climatico parlò di frustrata rassegnazione e di micro azioni individuali all’insegna dell’amore per la terra nel proprio microclima di appartenenza, senza più nessuna pretesa di fermare un processo ineluttabilmente in corso. Vivere bene in rispetto della natura, facendo quotidiane micro azioni per lei: null’altro. Frustrato e rassegnato dopo aver tentato per anni di ammonire il mondo là fuori del pericolo in arrivo, con questo gesto di ritiro in sé e nella comunità che lo accoglie manda un metaforico vaffanculo alla sordità dell’umanità. Frustato e rassegnato, giustappunto.

E quindi penso che siamo fottuti, che il tempo è scaduto, e che cose già particolarmente brutte siano in arrivo. E non c’è un cazzo da ridere. E vista l’aria che tira qui sul pianeta terra, fra Trump e le guerre e le distruzioni e le quantità inverosimili di materiale nocivo che disperdiamo nell’aria, ogni innalzamento di frazioni di grado oltre l’1,5 già raggiunto e destinato a essere stabilmente e irreversibilmente superato (per gli scienziati questo è un dramma) sarà un passo sempre più consistente verso scenari disastrosi. Scrivere per l’ennesima volta che bisognerebbe invertire drasticamente la tendenza e smetterla in modo quasi violento con le trivellazioni e le estrazioni eliminando l’uso dei combustibili fossili (la cosa sarebbe utile, anche ora, sostiene Telmo che continuerà a dirlo incessantemente), scriverlo con Trump che riduce al vergognoso slogan «drill, baby, drill» le sue intenzioni al riguardo, appare a me, che non ho l’ottimismo di Telmo, una cosa inutile. Perché è piuttosto ragionevole pensare che non accadrà, persi come siamo nel turbinio di una situazione degenerata che appare volta a degenerare sempre più… In fondo è un mondo messo male, no? Pensiamo alla guerra alle porte: le probabilità che qualcosa di irreparabile prima o poi succeda sono ragionevolmente molto alte, perché un qualsiasi accidente la può ormai innescare, dato il livello di tensione. Poi va da sé: che nessun accidente accada è l’intima speranza di ciascuno di noi.

Chiudo evocando un passaggio del mio articolo, quello in cui mettevo la cornice al ritratto di Telmo e accennavo al suo ottimismo. Beh, quella sera il suo ottimismo ha subito un durissimo colpo, e vi garantisco che ne sono rimasto piuttosto impressionato. Così per nulla sorridente non l’avevo mai visto.

Siamo fottuti, e non c’è un cazzo da ridere.

Post scriptum. Vi lascio un piccolo e molto superficiale elenco di alcune cose che mi vengono in mente che potranno accadere. Per quanto appaia tutt’altro che piccolo e superficiale è solo ciò che è intuitivo a chiunque si metta con un po’ di impegno a ragionarci su.

Aumento delle catastrofi climatiche, fra tempeste sempre più spaventose e uragani e tifoni e cicloni incontrollabili (centinaia di miliardi di danni hanno fatto l’ultimo anno in America: e non resterà un problema solo americano. E poi pensate alle turbolenze violentissime sugli aerei che si imbatteranno in fenomeni sempre più estremi, o alle grandinate terribili con chicchi giganteschi, che come minimo ci faranno morire di paura, o alle esondazioni: di tutto ciò abbiamo ormai una collaudata esperienza, e dovrebbero essere evocativi ben più degli uragani americani), fusione dei ghiacciai e delle calotte polari, che ingrosseranno i mari che andranno a invadere le città costiere (pensate all’evacuazione di tutte le nostre città marittime, per rimanere solo a casa nostra: dove andranno tutti i cittadini che lì non potranno più vivere? Bastano 10, 20 centimetri perenni di acqua in più nelle strade e nelle piazze per rendere inservibile una città), siccità (in Sicilia temo che il processo sia già iniziato, e ovviamente sarà destinato a salire anche al nord), inondazioni, dissesto idrogeologico (quando vedete case cui viene a mancare il terreno sotto i piedi per frane dovute a piogge straordinarie, questo è un fenomeno connesso al dissesto idrogeologico, che contempla sprofondamenti, alluvioni, frane, valanghe, e i tombini non puliti non c’entrano quasi nulla), diffusione di malattie (altre pandemie ci aspettano: i perché li si trova ovunque in rete, basta aver voglia di cercare), crisi letale dei sistemi agricoli, aumento delle temperature medie con certe ondate di calore spaventose (immaginate estati sempre più insostenibili, specie nelle città, Torino, Milano, Bologna, Firenze, e non fra 50 anni… diciamo fra una decina d’anni?), incendi boschivi paurosi, estinzione di molte specie (fra cui noi? Non lo so, decimati lo saremo di sicuro…) e danni irreversibili alla biodiversità (la vita sul nostro pianeta gode di condizioni realmente eccezionali: senza di esse non ci sarebbe lei e non ci saremmo noi.

Queste condizioni eccezionali attengono anche a certi equilibri fra tutti gli esseri viventi – noi siamo esseri viventi quanto lo sono gli altri animali e le piante, e dal mio punto di vista puramente logico e razionale noi siamo vita come lo è un filo d’erba o una foca o una formica, perché sia noi che le piante le formiche le foche eccetera siamo ammassi di cellule che hanno preso forme diverse nel corso dell’evoluzione – e questi equilibri sono tanto numerosi quanti sono gli animali e la vegetazione esistente, che intrecciano le loro esistenze a più livelli, quanto delicati e precari: se la biodiversità viene sconvolta e decimata questi equilibri saltano, e saltiamo anche noi).

E altro, in consequenziale effetto a cascata.

Bisognerà prepararsi agli scenari peggiori, e la ricerca, osteggiata in questi tempi merdosi da mezze opinioni pubbliche troglodite e condizionate dalla protervia dell’ignoranza di cui ho parlato sopra, dovrà concentrare i suoi sforzi su fame, malnutrizione (non riguarderà me e te che viviamo in Europa, mio caro lettore, ma potrebbe cominciare a riguardare i nostri figli nella loro età adulta, che di sicuro vivranno in un mondo sempre più complicato e nemico), eventi meteo estremi, guerre (i fenomeni della migrazione a causa del caldo saranno molto logicamente in aumento costante, ci saranno tensioni sociali gigantesche, si cercherà con muri e probabilmente armi di fermarli e rispedirli a casa loro, forse li si farà proprio fuori, e questo innescherà altre spaventose tensioni che sfoceranno anche in guerre), e malattie trasmesse da vettori vari (come zecche e zanzare).

La rete è piena di spiegazioni logiche e convincenti sulla natura di tutti questi fenomeni, ma purtroppo se voti a destra, per dire, gli algoritmi ti inquadrano per bene e non ti faranno mai capitare nei luoghi di tali spiegazioni, facendoti semmai sempre imbattere nei luoghi della negazione del fenomeno e di balle mastodontiche tipo Annibale e le Alpi e convinzioni come «ci sono sempre stati gli sbalzi del clima». La responsabilità morale, civile, etica, di tutte queste grandi aziende e dei politici connessi e proni (spesso di una ignoranza scioccante) è così enorme che non so trovare aggettivi idonei a qualificarla.