Alberto Piccinini: Come va? Sì che sono andato alla manifestazione dell’altro sabato, quella di piazza del Popolo per l’Europa. Per curiosità. Per capire come stiamo messi in fatto di pace e anche di guerra, se verrà (marcondirondella marcondirondà). Ho messo in tasca il taccuino nero da giornalista. Ti ho detto che le Moleskine adesso costano 20 euro e da Flying Tiger ti porti a casa una buona imitazione per 4? Vabbè. Ti risparmio le battute sul popolo della ZTL (fai conto che piazza del Popolo – un tempo grande parcheggio di macchine e di perdigiorno – è la ZTL originale), i radical chic, Elly, le idee confuse (mi fanno più paura le idee chiare, ti dirò), l’età media (alta) di chi si è dato convegno in piazza. Rivolgersi al Giornale e a Libero. Ti ripeto soltanto quel che ho pensato dopo aver sentito in sequenza Vecchioni, Scurati, Virzì e Formigli. Littizzetto e Jovanotti però registrati: se lo sapevo me ne stavo a casa a guardare Gramellini. Altro che piazza di Repubblica. È La7 semmai l’ultimo rifugio del buonsenso pensionato dalla follia tecnonazista, la tv con le televendite di materassi e le interviste di Augias, il sugo di mamma e la memoria della grande Raitre, civiltà europea contro i cavalli dei cosacchi. Gramellinismo malattia senile del fazismo, in prima sul Corriere con la lacrima sempre in tasca, con Vecchioni (più cattivo di un rapper cattivo sotto sotto) che canta continuamente Sogna ragazzo sogna. Orrenda. Ogni volta devo pensare a Dream Baby Dream dei Suicide per riprendermi. E penso che Gramellini sfrutti il senso di sfiga cosmica che coglie chi resta a casa di sabato sera a vedere la tv però gli fanno schifo De Filippi e i cantanti semi-morti di Raiuno. Capito il mood? 4% scarso. Servirà? Non sottovalutiamo il boomerismo di La7, ma nemmeno lo share.
Giovanni Robertini: C’era pure Nanni “di’ qualcosa di sinistra” Moretti. Praticamente una reunion – Oasis in testa, vanno di gran moda – dei Girotondi: belle facce, borghesi con barbe curate tipo Brunori Sas, professoresse, democratici senza se e senza ma. Quindi, ovviamente, minoranza. Respect! Anche se oltre il gramellinismo ho sentito aria di Pinguini Tattici Nucleari, di scoutismo consapevole, catto-pop, e di conseguenza cringismo: due giovani studenti normcore di Parma, un maschio e una femmina – lui era vestito come Calenda, pullover girocollo blu sopra camicia bianca, Demna abbi pietà di noi! – che sul palco chiedono a Bisio un selfie con le bandiere dell’Europa, tipo spot di Benetton. Lì, ho vacillato… non sul mio europeismo, già saldo nella memoria di gioventù di Interrail e Erasmus, ma sullo stato della piazza: era divisiva, non tra destra e sinistra, tra pacifisti e guerrafondai, tra ricchi e poveri, ma solo tra buonisti e cattivisti. Erano tutti buoni, buonissimi, buonisti. Quindi ogni sospetto è lecito.
A.P.: Pace e guerra. Questa storia della Gintoneria nella sua decadenza totale e imbruttita mi ricorda tanto i cabaret di Weimar, che ci posso fare? Anche peggio: i club segreti nella Parigi occupata dai nazisti, i bordelli, gli alberghi romani dove Ennio Morricone suonava la tromba prima per i tedeschi e poi per gli americani. Se ci fosse la guerra Lacerenza e Fabio Champagne farebbero affari d’oro con la borsa nera, i magnaccia e le puttane. Cruciani leggerebbe bollettini per l’Eiar, Fabrizio Corona sarebbe il tipico collaborazionista criptogay dei film neorealisti. E mi manca un Brecht che riscriva il personaggio del cummenda Nicheli e mi racconti come la guerra sia la perfezione del capitalismo. Mica Scurati, ormai aspirante dannunziano (ma non c’ha il fisico). Ripenso a Anora, il film che ha vinto l’Oscar, è ancora al cinema, bellissimo, rocambolesca notte di disperati su una macchina alla ricerca del figlio scemo dell’oligarca russo: Ani la ragazzina stripper, il faccendiere armeno, le guardie del corpo, il meraviglioso Igor. È chiaro che una speranza in questi giorni bui può venire soltanto dalle ultime ruote del carro: chi vive nel pericolo costante, senza rete, le ragazzine escort della Gintoneria, i buttafuori, i disertori, gli spacciatori, trapper di provincia, migranti, gente in fuga. Qui c’è materia per Brecht. Mio figlio mi segnala Rrari dal Tacco. Ho sentito qualcosa: c’è un feat di Tony Effe che cita gli stivali da combattimento Balenciaga e Willy Chavarria, lo stilista mexicano che scriveva sulle tshirt “nato da immigrati” e “il capitalismo è senza cuore”. Che ne sappiamo?
G.R.: Rrari dal Tacco from Monopoli, gangsta pugliese come Kid Yugi, meno male che ci sono i tuoi figli a riportarci nel presente, fosse per me gli affiderei l’amaca di Repubblica e il caffè del Corriere. Rrari è un giovane del Sud no future, figlio del debito pubblico, dell’assenza di prospettive, Mai avuto un lavoro è il titolo di un suo pezzo: la scelta è tra fare il trapper e il reddito di cittadinanza. Voce degli ultimi, “vengo dal fango/sto ancora sporco di fango”, in un’intervista a Esse Magazine dice non volerne sapere di trasferirsi a Milano, niente Gintoneria per lui, meglio una casa in campagna, e se non ci sono i fondi del PNNR ci penserà la SIAE delle vendite discografiche. Nei suoi testi c’è l’eco del John Fante di Chiedi alla polvere, degli spaghetti western girati nelle sue campagne, degli underdogs di Elegia americana del vice premier americano J. D. Vance. Quale piazza per Rrari dal Tacco? Nessuna ovviamente, la geopolitica non perdona: tu a Piazza del Popolo con i boomer de La7, io a Milano con gli zanza della Gintoneria, tu Scurati, io Filippo Champagne, tu Vecchioni, io Nevio Lo Stirato. Visti dall’osservatorio trap di Monopoli, dal fronte di guerra (“caffè amaro perché qui la vita è amara”), non siamo poi così diversi, buonisti e cattivisti. A parte il gin, ora qui a Milano va forte quello giapponese.