Mi presento: sono Cristiano Godano e canto nei Marlene Kuntz. E sì, un tot di voi sa chi sono: chi lo sa abbastanza bene, chi molto bene, chi per sentito dire. Posso anche riuscire a immaginare che qualcuno (pochi direi, siamo pur sempre su un sito musicale) non lo sappia. Fra questi pochi qualcuno non sa chi sono per pura causticità: ovvero sa chi sono ma con ironia si chiede “Godano chi?”. Comprendo bene.
In realtà più che altro volevo presentare questo mio spazio, qua, su Rolling Stone. Mi è stato offerto in virtù della stima che mi si attribuisce (cosa lusinghiera), con la possibilità di scrivere di ciò che voglio. Poche o nulle le limitazioni. I miei interventi non avranno una scadenza rigidamente regolare. Diciamo che seguirò senza martoriarla la mia ispirazione dopo averla un po’ corteggiata, e quando l’argomento giusto avrà fatto intravedere sviluppi a me graditi, mi metterò al lavoro per dar loro la miglior forma possibile da presentare poi a voi qua, sperando di piacervi.
Infine la scelta del nome della mia rubrica: mi continuava a girare in mente la parola elzeviro, un tipo di articolo giornalistico che appariva nelle terze pagine dei giornali. Il fatto che l’elzeviro fosse una rubrica, che fosse scritto almeno all’inizio in prosa d’arte e che al suo curatore venisse lasciata ampia libertà di manovra legittimava quell’ossessione a girarmi in testa un po’ impunemente. Sapevo di non poterne approfittare, ma ogni volta che pensavo al titolo da dare alla mia rubrica, quella parola (elegante invero) si candidava nonostante i miei respingimenti. Poi stamane una piccola illuminazione: Elzevirus! Et voilà, con una qualche divertente assonanza col mondo di Harry Potter e dei suoi intrugli, sento che posso appropriarmene con spirito giocoso ben potendo contare sul richiamo al Covid-19 che tanto aiuta a farsi imprimere nella memoria. Buona lettura.
Mi è capitato nella vita di ritrovarmi discretamente affascinato dalla letteratura russa. Gli ammiratori più fedeli dei Marlene Kuntz sanno molto bene che uno scrittore di quelle terre, naturalizzato poi in America, è diventato un mio idolo al pari di una rockstar (nella fattispecie gli stessi fedeli ammiratori sanno che il mio trittico per eccellenza è formato da Neil Young, dai Sonic Youth e da Nick Cave, almeno da trent’anni a questa parte), e tale scrittore è Vladimir Nabokov, l’autore di Lolita. In realtà io non sono diventato un esperto alla Paolo Nori o alla Serena Vitale, per dire, ed è ben immaginabile: di esperti di letteratura russa e mondo russo in genere ce n’è una teoria ben nutrita nel mondo intellettuale italiano, e io sono un semplice musicista che molto semplicemente ha letto un po’ di cose al riguardo, tra autori e notizie e articoli e scritti di natura saggistica. Ho dunque anche ritenuto, sempre nella vita, di essere affascinato da quel popolo, che è ricco di curiose contraddizioni: da una parte uno stuolo di menti raffinatissime che producono in vari campi eccellenti opere artistiche degne di riverenza e rispetto (pittura, letteratura, musica, cinema), dall’altra settori consistenti di popolo pittoresco e, oso dire, folle, sia nell’establishment che fra le frange diversificate della popolazione. Oltre alla teoria ben nutrita nel mondo intellettuale italico, anche nella comunità dei semplici lettori vi sono tante persone che hanno una certa morbosa attrazione per la Russia dal punto di vista culturale, il che è la premessa per averne poi, magari non morbosamente, per il popolo e la società russa in genere. Insomma: sono tutt’altro che il solo.
C’è uno scrittore inglese enorme, anche lui fan sfegatato di Nabokov, che si chiama Martin Amis. Mi viene comodo immaginare che anche lui abbia subìto quel tipo di fascinazione, giacché un giorno si prese la briga di scrivere un libro che si chiama Koba il terribile, il cui obiettivo è in queste parole estratte dal libro stesso: “Esistono molti termini per definire quanto accadde in Germania e in Polonia nei primi anni Quaranta: Olocausto, Shoah, Vento di morte. Non ce n’è nemmeno uno per quanto accadde in Unione Sovietica tra il 1917 e il 1953. Come dovremmo chiamarlo? Decimazione, Fratricidio, Strage di menti? Chiamiamolo: ‘Zaçto?’. Chiamiamolo: ‘Perché?’”. È una indagine piuttosto particolare, ovvero cercare di capire perché nei riguardi delle efferatezze del criminale Stalin il mondo degli intellettuali dell’occidente non si sia mai riuscito a esprimere con dura condanna. Ma non dirò di più.
Dirò invece altrettanto sommariamente di un altro libro: L’epoca e i lupi, di Nadezda Mandel’stam, la moglie del poeta Osip, che per i russi è uno dei grandi. Leggendolo si entra nel clima di quelle efferatezze, e si scoprono cose intorno a com’è vivere sotto un regime, con la delazione che diventa un tale terribile strumento da non potersi nemmeno fidare di un consanguineo, pronto a denunciarti, e dunque a condannarti a morte certa o alla deportazione, per mettersi in bella mostra e al riparo dalle rappresaglie. In quel libro, che a tutti gli effetti è un memoir autobiografico, si scopre come suo marito venne mandato a morire nel Gulag con la sola colpa di essere un poeta che non seppe abbassare il capo per scrivere in un modo conveniente, l’unico possibile, di pura lode del comunismo (arte come propaganda). Avete letto bene: un poeta che scrive le sue poesie senza esser capace di azzoppare la sua fantasia (per i dittatori l’eccessiva fantasia era fautrice della cosiddetta arte degenerata, tristemente nota anche sotto i nazisti). Non è una contraddizione in termini uno scrittore che non può usare la sua fantasia? Eppure un poeta poteva scrivere unicamente versi in cui fosse palese o sottotraccia l’elogio dell’esperimento comunista in corso, di modo da ammaestrare ottusamente il popolo e rinforzarlo nell’accettazione supina dell’obiettivo comune. Una “colpa”, quella di Mandel’stam, in grado di portarlo a una lenta morte per consunzione. Nei gulag per l’appunto.
Un certo passaggio cruciale di questo memoir mi spinse a scrivere una canzone (Osja, amore mio, dove Osja è il diminutivo di Osip, contenuta nel nostro disco Nella tua luce), e dal vivo, quando la introduco, racconto queste cose e quel tal passaggio cruciale.
Quel che mi preme qua ora è però rimarcare quanto sia schifoso un regime. Uno stato di oppressione e lenta e progressiva eliminazione della libertà. Tenetelo a mente sempre.
Pochi giorni fa in Turchia è morto il musicista Ibrahim Gokcek a seguito di uno sciopero completo della fame durato più di 300 giorni. Suonava nel Grup Yorum, un gruppo che, da quel che ho capito, per sommi capi si potrebbe dire l’equivalente dei Nomadi qua in Italia: ovvero una sorta di istituzione della musica di protesta di massa, ovvero per tanti, compresi nonni e bambini, e capace di adunare migliaia di persone ai suoi concerti. È andato presumibilmente a trovare i suoi ex compagni e cantanti del gruppo stesso, Helin Bolek e Mustafa Kocak (a quest’ultimo avevano dato l’ergastolo. Lo riscrivo: ergastolo), morti come lui di digiuno, un mese fa circa. Capi di imputazione? Essere contro il governo ingiusto di Erdogan. Se si vive in una democrazia essere contro un governo è atto di espressione lecito: quanti concerti in Italia si sono fatti mandando affanculo Berlusconi? Nessuno è stato messo in galera per questo. Se invece essere contro un governo ti porta al carcere per rimanervi per anni o per sempre quella democrazia è autoritaria (e il termine “democrazia” diventa inappropriato). Ecco: pensate un Augusto Daolio incarcerato che decide di fare uno sciopero della fame per sensibilizzare l’opinione pubblica nazionale e internazionale, non ci riesce, nessuno se lo fila, nessuno riesce a far niente per lui, e ci muore. Impressiona no? Lasciatevi impressionare, pensateci e ripensateci, e come ho detto prima tenetelo sempre a memoria.
E arrivo al punto: se ci sarà una recrudescenza del male del virus, ad esempio perché nella fase 2 ci saremo comportati in modo irresponsabile e avremo permesso al nostro nemico invisibile di propagarsi nuovamente, sarà una evenienza per nulla improbabile quella di rischiare una deriva autoritaria. Ed è molto intuitivo immaginare perché: la gente, esasperata da un’altra clausura, potrebbe accettare di buon grado che un uomo solo al comando e con i famigerati pieni poteri promettesse di risolvere i problemi asfissianti il più in fretta possibile. La storia lo ha insegnato più e più volte: quando il popolo è affranto e affamato una deriva autoritaria è una delle conseguenze più probabili. Con nazismo e fascismo è andata così.