Gianluca “Borg” Borgogni è un illustratore, pittore e fumettista molto conosciuto e stimato fra gli addetti ai lavori. E, se la sua pigrizia non fosse pari al suo talento, sarebbe popolarissimo per il suo stile unico e radicale.
Il Borg riempie le sue opere di carni aliene tese in perpetue agonie. Orrori assoluti, accerchianti e grandi più di quanto uno sguardo possa contenere. Moloch che crescono divorandosi come neoplasie. Visioni, crepe, gorghi, squarci nell’entropia.
Nelle illustrazioni del Borg avverti il cattivo odore della putrefazione di quelle carni e di quelle stanze, così come il suono sfrigolante degli acidi biliari che le corrodono e l’eco dell’antimateria che le disfa solo per ricrearle in nuove, abominevoli forme. Sarebbe facile dire che è tutto un gioco innocente, la divertita esagerazione d’un bambino, il rassicurante tributo ai mostri dell’infanzia. Certo, sicuramente in quei disegni è percepibile il legame dell’autore con l’Arcadia dei propri anni verdi (un’infanzia felice da cui – per citare L’Amico di Famiglia – si può solo peggiorare), ma in quei neri profondi, nell’isteria urlante delle sue esagerazioni, che di goliardico e divertito hanno ben poco, è facile leggerci l’urlo disperato e la solitudine irrisolvibile dell’essere umano dinanzi al caos.
Ma facciamoci quattro chiacchiere con il Borg visto che è qui.
Perdonami ma la prima domanda è quella di rito: come nasce la tua passione per il disegno?
Ricordo di aver sempre disegnato, fin dalla più tenera età. Da piccolo amavo guardare quintali di televisione (cartoni animati e tutti quei film in grado di catturare la mia attenzione) e disegnare su qualsiasi supporto mi trovassi tra le mani, compresi i sacchetti per il pane che mia nonna mi teneva da parte perché certa che i quaderni e gli album comprati per i miei scarabocchi li avrei riempiti in quattro e quattr’otto.
Se invece mi chiedi dell’origine dei miei contenuti, non saprei, son sempre stato attratto dalle cose sinistre, ridicole e macabre, ma forse un momento spartiacque per la mia inclinazione te lo individuo: avevo circa tre anni e mio padre mi disegnò su un foglio uno scheletro molto stilizzato con una grossa carota in mano, che poi ritagliò. Quel ritaglio divenne per me il più prezioso dei tesori, non me ne separavo neanche per andare a dormire.
Nei tuoi disegni c’è sempre la ricerca di un sense of wonder che spiazzi lo spettatore con visioni grandguignolesche, isteriche e morbose. Il tuo stile è così materico che sembra quasi di respirare l’alito dei tuoi mostri.
È qualcosa che mi porto dietro sin dall’infanzia, come praticamente ogni aspetto che mi riguarda. Come ogni buona famiglia d’origine contadina tenevamo qualche animale d’allevamento. Amavo moltissimo osservare i conigli negli stalletti e i polli e le galline nel pollaio, così come i vari invertebrati agitarsi nell’orto e nei campi attorno. Era, ed è, uno splendido brulicare che mi meraviglia ancora.
Immagino che queste prime sollecitazioni sensoriali, non solo visive ma anche olfattive, mi abbiano condizionato non poco, non meno di tutta la fiction che intanto la televisione faceva passare in rassegna davanti al mio sguardo. E poi giungeva l’inevitabile momento della soppressione di questi animali per farne cibo. Non si trattava mai di modalità crudeli e non erano neanche così cruente (almeno in casa mia gli animali venivano fatti crescere con ogni cura, e si sentiva, tangibile, la compassione per loro, che poi si liquefaceva fatale nella necessità di trasformarli in alimento), ma quelle morti mi colpivano sempre. In questi contesti rurali, e credo anche tu concorderai, l’immagine della morte e della sua idea sopraggiunge anzitempo.
Non si può certo dire che ti piaccia arrotondare per difetto. Le tue creature sono sempre sovrabbondanti nel loro essere costellate di punti di fuoco ripugnanti e spaventosi.
Le tue tavole lasciano chi le guarda solo, piccolo e senza una via di scampo. Da cosa nasce questa estetica crudele?
Anche in questo caso da tutto quello che ho visto da piccolo e che mi ha investito con forza. Da una parte un mondo agreste in cui adoravo naufragare negli anni infantili, pieno di assurdi e imprevisti dettagli che mi si offrivano prodighi e che andavano a fondersi e a coagularsi – come una sorta di Cosa di John Carpenter dell’immaginario – con tutte le cazzate televisive e di plastica (ero un bambino che collezionava ogni action figure, purché strana e mostruosa, quindi pupazzetti che andavano dai Ghostbuster alle Tartarughe Ninja) dalle quali ero sempre attorniato; dall’altra parte una prematura inquietudine per l’idea del morire (affacciatasi con le soppressioni degli animali e portata a un livello assoluto dalla morte, avvenuta in casa, della mia bisnonna) che con il tempo, ahimè, sarebbe assurta a grande mostruosità, spaventosa e inaccettabile.
Aggiungo pure il carico da novanta dei disegni dei fumetti (passavo da Topolino a Dylan Dog senza soluzione di continuità). Se vedendo le mie cose ti senti solo, piccolo e senza via di scampo forse è perché, boh… per primo mi sento tale?
Non è cambiato nulla rispetto a quand’ero bambino: mi fisso sugli sterminati dettagli delle cose, sulla loro disorientante e perturbante ricchezza, per poi chiedermi quanto (e come) di tutto ciò – almeno rispetto a questa mia configurazione di coscienza – resterà mai.
Io amo i densi neri di Gallieno Ferri, rassicuranti e come storie da falò nei suoi albi di Zagor e confortevoli come una coperta calda. La forza dei tuoi neri mi ricorda perversamente quella del Maestro, ma i tuoi neri di rassicurante per me hanno poco: sono abissali, vertiginosi e terminali. Sembrano gorghi partoriti da un incubo.
Conosco bene il lavoro di Ferri, essendomi nutrito anche di tanta lettura di albi Bonelli e bonellidi. Un grande professionista, come i tanti che hanno reso così importante e peculiare il nostro fumetto popolare. Come disegnatore neanche mi sento troppo un professionista, ma tant’è.
Riguardo le mie figurazioni ben poco rassicuranti, che posso dirti? Sono una persona ansiosa, paurosa, e tutto, nel modo più banale possibile, nasce da questo stato d’angoscia (che magari provo a stemperare, malamente, con un fare spesso da cretino e da giullare).
Ho paura di morire, di perdere le cose care e soprattutto i miei cari. Mi atterrisce tanto la possibilità dell’oblio quanto del suo contrario (la costellazione eterna del Tutto alla Emanuele Severino). Trovo inaccettabile che in vita mi debba rendere conto che in un giorno imprecisato più non sarò o non sarò più come prima. E che a livello probabilistico dovrò salutare i miei genitori, in questa agghiacciante condizione.
Trovo che diverse cose dell’esistere siano piacevoli, ma se l’approdo auspicabile è l’invecchiare e poi il morire, allora queste cose piacevoli, benché preziose, sono davvero in uno squilibrio sproporzionatissimo. Par d’essere malaugurati trastulli di una mente dissennata e sovrumana, che ha congegnato una trappola infida e perversa non si sa bene per cosa e perché.
In un momento sei felice e, in quello dopo, potenzialmente, puoi caracollare nel disastro e nel dolore. E in tutto questo devo pure lottare per sopravvivere e competere ferocemente con gli altri, quando come minimo si dovrebbe annegare nelle pietose lacrime vicendevoli e nella mutua compassione.
Magari farò immagini che paiono brutti incubi, ma non sarò mai in grado di superare il settaggio del reale. C’è chi per il solo fatto d’esistere si sente in debito. Ecco, io invece mi sento in credito. E mi ci sentirò sino all’ultimo.
Quali sono le tue maggiori influenze e le tue comete artistiche? Anche in campo non per forza fumettistico.
Il cinema è sempre stata la mia passione primaria. Amo gli autori della Hollywood classica (spesso emigrati eccellenti come Murnau, Fritz Lang, Hitchcock e Billy Wilder) e molti della New Hollywood (in primis David Lynch, Kubrick e Spielberg), poi Bergman, Fellini, i neorealisti e i grandi autori della commedia italiana. Tra i contemporanei il regista che più apprezzo è Peter Jackson.
Amando la pittura e la scultura non ti sto neanche a citare i nomi da storia dell’arte che già sto abusando del gentile spazio. Ma almeno tra i contemporanei Francis Bacon, H.R. Giger e Beksinski devo citarli.
In campo fumettistico amo tanto il fumetto giapponese (Go Nagai, Osamu Tezuka, Jiro Taniguchi, Kentaro Miura, Kazuo Umezz, Junji Ito, Shuzo Oshimi, Hideo Yamamoto, Toshio Maeda, Keiichi Koike e i grandi maestri del gekiga e dell’ero-guro come fari assoluti), quanto quello europeo (Cavazzano, Pazienza, Magnus, Roi, Ortolani, Ambrosini, Dino Battaglia, Mastantuono, Villa, Marco Corona, Biagini, Santucci, Sudario Brando, Angri, Spugna, Cammello, Angela Vianello, Moebius, Gipi, Barry Windsor-Smith, Druillet, Thomas Ott, Larcenet, Zerocalcare, i disegnatori del mio collettivo “I Balordi”), statunitense (Will Eisner, Kirby, Crumb, Buscema, Wally Wood, Bernie Wrightson, Richard Corben, John Totleben, Arthur Adams) e sudamericano (Juan Giménez e i Breccia su tutti). Nell’illustrazione pura se proprio devo farti un nome questo è quello di Virgil Finlay.
Talmente le tue figure troneggiano potenti come antichi dèi, che a volte pare passare in secondo piano l’ambientazione. Io sono un grande estimatore del Borg disegnatore di scenari silenziosi. Hai mai pensato di non avvertire le tue creature del fatto che stai per metterti a disegnare, e di raccontare invece solo quello che resta quando accendiamo la luce. O meglio: quello che di inanimato ci sopravvive?
Quando dici che le mie figure troneggiano mi rendi assai felice: non amo le pose dinamiche, quanto quelle monolitiche e statuarie alla Piero della Francesca (c’è un pittore contemporaneo, della corrente dei neo-simbolisti, il cui nome d’arte è Sicioldr, che è forse il mio preferito, ed è fenomenale in questa austerità compositiva che prediligo) ed essendo un ricercatore ossessivo del mostro e della creatura strana e straniante, raramente lascio spogli i miei scenari.
Ma dovrei farlo più spesso: mi affascina sempre più il concetto dell’ambiente liminale, degli spazi svuotati ripresi in momenti insoliti, con tutto il loro portato emotivo naturalmente intenso e perturbante.
Dovrei davvero lasciare con più frequenza questi spazi vuoti, mi rendo conto che quell’assenza rischia di essere più vertiginosa e alienante di qualsiasi creatura dal design orripilante e ricercato.
Il doloroso settaggio del reale a cui hai prima accennato, ecco, io lo vedo rappresentato proprio in quel vuoto, che infatti fai di tutto per riempire di demoni, come fossero un’alternativa auspicabile a quella di non essere più. È molto percepibile il Borg bambino nelle tue creazioni. Posso chiederti che bambino eri?
Mi piacerebbe credermi come il bambino di ieri, quello di cui ti ho già raccontato. Solo più alto. Faccio le stesse cose, ho lo stesso atteggiamento da bischero vero e vivo nella stessa casa. Mi adopero, esponendomi anche a tanti biasimi, per congelarmi disperatamente in un’infanzia che resti tale.
Non credo in niente, in niente, della vita adulta, la crescita la reputo solo un’illusione terribile o una promessa tradita. Gli adulti sono i bambini peggiori, i peggiori a far tutto, soprattutto a giocare, che è il fare più elevato che esista, per me. Non che intenda idealizzare i fanciulli, ci mancherebbe, semplicemente gli adulti sono come bambini: versioni più corrotte e miserevoli di costoro. Disgraziati che non imparano nulla e che, ancor meno, accrescono saggezza nel loro divenire.
Poi per carità qualche eccezione ci sarà, ma poche ne vedo (non sono tra queste, eh: anche perché il mio tentativo di cristallizzarmi nel pargolo che fui è un costante, tragico e patetico fallimento).
Sei al lavoro su qualche progetto al momento o c’è qualcosa che ti piacerebbe fare?
Lavoro molto per i privati, con commissioni varie, e faccio l’istruttore di teatro (che disegnare troppo fa male, come fa male fare troppo d’ogni cosa). Mi piacerebbe però mettermi sotto seriamente con il seguito de L’Abisso è Ovunque (antologia horror realizzata per Weird Book assieme a Roberto Donati), pur con calma, perché non mi corre dietro nessuno e non vedo date di scadenza all’orizzonte.
Al momento mi dà molta gioia offrire il mio contributo per la trasposizione a fumetti della serie animata per YouTube di Meat Canyon Melvins Macabre. A proposito di comete creative, trovo che il lavoro dell’artista dietro al canale, Hunter Hancock, sia tra i più straordinari nell’underground del Tubo.
Per il resto mi piacerebbe realizzare un artbook con tutti i mostri ideati in questi anni. E sono tanti, tanti mostri.
Grazie Borg per la chiacchierata.
Grazie a te, Alessandro.